LA LUCE COMINCIA A TREMOLARE: STORIA DI CHIARA

La chiamerò Chiara, come l’amica perduta, e come la fiammella di luce che esiste e ti arriva – via mail, nel caso – quando meno te lo aspetti, in mezzo alle oscurità crescenti di chi pensa che la rete non sia che un mezzo per il successo, o per l’odio, o per la frustrazione, o per tutti e tre. La chiamerò Chiara e la ringrazio, perché la sua storia dimostra che si può essere altro da quel che si vorrebbe.
La prima porzione della Tenebra è la più densa, Cara, Dopodiché, la Luce comincia a tremolare (Emily Dickinson)
Cara, carissima Loredana, perdonami se mi prendo la confidenza di darti del tu, ma stasera ho intenzione di scrivere a te come fossi il mio diario, e al diario non si può dare del lei, sarai d’accordo con me.
Cara, carissima Loredana, che anni fa – non troppi, eh – nelle giornate di disoccupazione post laurea, nello spazio tra una spolverata ai mobili e il senso di frustrazione crescente, ringraziavo sentitamente. Sono stati mesi lunghi come anni, ma cara, carissima Loredana, ascoltare Fahrenheit mi ha aiutata a tenere in allenamento il cervello, ad evitare che la testa si atrofizzasse, mettendo in moto pensieri e ragionamenti. Le parole, che cosa magnifica.
Sono passati anni, lavori noiosi e lavori orribili. Una laurea in cinese, e la voglia di Cina che all’improvviso non c’è più. Si ritorna a casa, nella provincia che tanto ho disdegnato. Peggio: si ritorna da mamma e papà. A 30 anni suonati. Trovo un lavoro, in una boutique dove ogni mattina devo mettermi il rossetto rosso e farmi lo chignon. Dove una borsa costa decisamente troppo. È durato poco, quell’ennesimo lavoro orribile. L’ho lasciato per lavorare qualche ora a settimana con i bambini cinesi nelle scuole elementari. Non mi ci pagavo neanche la benzina, ma io tra la cicala e la formica ho sempre preferito la cicala.
Poi si decide di partire, io e quel fantastico uomo appena conosciuto che il prossimo giugno diventerà mio marito. Non per la Cina, ma per la Repubblica Dominicana. Quanto è sottovalutata l’incoerenza! E scopro che avrò anche imparato il cinese, ma con lo spagnolo sono proprio una capra. Però lavoro, in una scuola di sostegno per bambini disabili.
Si torna in Italia (ma non da mamma e papà). Si torna dai bimbi cinesi e si torna anche sui libri. Ottengo la certificazione per insegnare italiano agli stranieri. Mi offrono un posto come supplente al CPIA. Ho tre classi e un mondo davanti. C’è l’Europa, l’Asia, il Sudamerica e tantissima Africa. Ho giocato, riso, mangiato e pianto quando la supplenza è finita. Ma non aspetto molto: tempo di una vacanza e inizio a lavorare in un CAS. Anche qui c’è tantissima Africa. All’inizio sono quasi tutti uomini. Non so nulla di migrazioni, non ho il titolo per fare l’educatrice e non so bene come relazionarmi con questi omoni dall’inglese incomprensibile. A dire la verità dopo qualche mese volevo mollare. Ma quel preavviso di dimissioni non l’avevo preso tanto sul serio nemmeno io.
Poi sono arrivate le donne e poi sono arrivati i bambini, le cosiddette “vulnerabilità”.
È un lavoro importante, il mio. Così importante che decido di formarmi al meglio, iscrivendomi – di nuovo – all’università, facoltà di Scienze dell’Educazione.
È anche un lavoro difficile. Mi sono arrabbiata (tantissimo), sono rimasta basita di fronte ad alcune richieste, ho fatto errori che mi sono stati rinfacciati con rabbia, ho provato una stanchezza che non si recupera in due giorni di sonno. Ma è un lavoro importante. È un lavoro bellissimo.
Ci sono B. e M., papà e figlio nigeriani. Sono le due persone che seguo da più tempo, dal luglio del 2016. B. ora parla perfettamente italiano, ha un contratto di lavoro di 5 anni, vive in un appartamento che riesce a tenere più pulito di quanto faccia io col mio. B. ha decisamente un caratteraccio: non si fida di nessuno, ricorda ogni singola parola che dico (parola che, ovviamente, sarà ripescata e rinfacciata al momento opportuno) e sorride di rado. M., suo figlio, ora ha 11 anni. Parla italiano come fosse la sua lingua madre. È un bambino arrabbiato. Mi ha detto che se avessi provato la stessa paura di morire che aveva lui in mezzo al mare, ora sarei molto arrabbiata anch’io.
Ci sono J. e A., giovanissima coppia marocchina. Lei ha subito un trauma che le si legge addosso. Cicatrici dentro e fuori. Un bagaglio di dolore che divide col marito.
C’è N., dalla Nigeria, che ha partorito in Italia Y., meraviglioso bimbo che ora ha 7 mesi. N. è vittima di tratta.
Ci sono C., K., e i loro quattro figli. Cinque, tra poco. Vivono nella precarietà più assoluta, ma la paura di mettere al mondo bambini non li sfiora nemmeno, Alhamdulillah.
A dire il vero ce ne sono tanti altri. Di tutti loro non so quanti otterranno un permesso per rimanere in Italia.
È un lavoro bellissimo, il mio. Ma non so cosa diventerà tra qualche mese. Forse ci verrà richiesto di fare i secondini, controllare che tutti siano a casa entro le 22.00 e che rispettino il regolamento. O forse non l’avrò più, questo lavoro.
Mi sale un groppo in gola. Anzi, quel groppo è fisso lì da settimane
Stiamo facendo un errore enorme, stiamo diventando dei mostri. Stanno diventando. Io me ne tiro fuori. Ma rimango spaventata dalla rabbia che provo, dall’odio che sento crescere e che non ho provato neanche quando il male è stato fatto a me. Quando quella fragile ero io.
Cara, carissima Loredana. Io lo voglio dire che, qualsiasi cosa succeda, non sarà fatto in mio nome.

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