QUANDO PASSA IL PROSSIMO CIGNO, O DEL FARSI UNA RISATA

Qualche volta mi chiedo perché non ridiamo più molto (tutti, perché, giova ricordarlo, siamo tutti freaks sotto lo stesso tendone). Ghigniamo un bel po’, ringhiamo, sfoderiamo gli artigli (non il famigerato “artiglio dell’opposizione” di cui parlava molti e molti anni fa Enrico Berlinguer  quando il Pci sostenne  il governo di solidarietà nazionale: l’artiglio-e-basta). Dunque, sono andata a ripescare un vecchissimo libro, pubblicato in Italia ben 26 anni fa da Flavio Pagano. Il libro è dell’ inglese Hugh Vickers, che ha raccolto, catalogato, riscritto, abbellito e anche inventato (secondo il dichiarato principio per cui “se non è vero è ben trovato”) una cospicua serie di sciagure operistiche dalla fine del secolo scorso agli anni Settanta. In Gran Bretagna , Great Operatic Disasters è divenuto oggetto di culto per iniziati: pubblicato nel 1979 da Macmillan con le illustrazioni di Michael Folkes, aveva, ai tempi, il posto d’ onore nelle librerie specializzate e nei punti vendita in prossimità dei teatri, ha conosciuto una quindicina di ristampe e obbligato l’ autore ad un bis, Even Greater Operatic Disasters.
Cosa racconta? Catastrofi operistiche, ma soprattutto la reazione, meravigliosamente ridente, degli interpreti . Non sempre, certo. Non sappiamo cosa disse la cantante in una Tosca (credo anni Sessanta) newyorchese, ma sappiamo che la medesima era rea di scarso feeling con le maestranze del City Center. Le quali, con raffinata crudeltà, sostituirono con un trampolino il materasso su cui  doveva atterrare dopo il finto balzo dagli spalti di Castel Sant’Angelo: quindici volte la poveretta rimbalzò davanti al pubblico in delirio, prima che il sipario, pietosamente, ne celasse i  capitomboli . Ma sappiamo come reagì  Lauritz Melchior, il grande tenore wagneriano, che durante un Lohengrin negli anni Trenta, si vide sfuggir via il Cigno-navicella da sotto il piede, e dovette salvare la situazione degradando il sacro volatile al rango di 47 barrato. Cantando, cioè, “Wenn geht der nachste Schwann?”, Quando passa il prossimo cigno?
Sappiamo anche dell’estro di uno spettatore che a Vienna, quando Cesare Siepi- Don Giovanni venne riportato per la seconda volta in superficie dall’ascensore di palcoscenico che doveva invece sprofondarlo agli Inferi, gridò “Dio mio, che meraviglia: l’ inferno è pieno”. E se, restando alla stessa opera, fanno storia anche una Donna Elvira newyorkese incastrata in una portantina e, sempre a New York, un imprevisto sollevamento dei fondali con relativa visione della 55ma strada, gli ascoltatori della Bbc ben ricordano il curioso sottofondo toccato in sorte nel 1949 ai celesti tromboni della Statua del Commendatore. Accadde infatti che in tutto il King’s Theatre di Edimburgo il punto migliore dove collocare i solisti per ottenere la sovrannaturale risonanza risultasse essere un bagno degli uomini in disuso: peccato che la sera della prima ritornasse improvvisamente in vita il vecchio scarico automatico dello sciacquone (d’ altra arte, a una Statua mozartiana era capitato di essere pitturata a macchie gialle dall’assistente scenografo: motivo? Il realismo che associa i monumenti, per semoventi che siano, ai piccioni).
Il catalogo di Vickers è lungo: troviamo Duchi di Mantova che inghiottono eroicamente i mustacchi e Rigoletti che perdono la gobba trasformandosi in individui normali con un sedere spropositato, una Salomé che trova sul vassoio una pila di tramezzini al prosciutto invece della testa di Jokanaan, una Joan Sutherland-Beatrice di Tenda rimasta in sottoveste. E una messe di sciagure wagneriane: Sigfridi senza spade, Wotan rotolanti dalle montagne perché accecati da un troppo veritiero fuoco eterno, una Sieglinde che perde un dente nel corso del duetto d’amore.
La morale, se ce n’è una, è affidata a Peter Ustinov: sua, ad esempio, è l’ illuminante storiella conclusiva, che lo vede capitare all’Opera di Amburgo, tecnicamente avanzatissima, dotata di tecnici sopraffini e di infallibili computer. In tanta meraviglia, c’ è un tizio che ne combina di tutti i colori: prende il martello in mano e questo gli scappa centrando la testa del direttore di scena, le quinte cadono quando si avvicina, le luci, fin lì magnificamente regolate dal computer, si affievoliscono e si spengono lasciando che l’ oscurità avvolga il teatro. “Che ci fate qui?” chiede lo stupefatto Ustinov all’ ometto. “Sono qui per umanizzare gli altri”, risponde il tizio, specificando che la sua è una tradizione di famiglia, e che i suoi errori sono una barzelletta se paragonati al Grande Sbaglio del padre, direttore di scena a Klagenfurt. Si dava Guglielmo Tell e dalla sua postazione tutto filava liscio: coro in posizione, scene a posto, cantanti che cantano e orchestra che (sia pur fievolmente) suona. L’ errore? Una cosetta: il sipario non si alzò mai.
A Ustinov si deve una piccola, semiseria, intelligente prefazione dove si cerca di capire perché proprio il melodramma collezioni disastri, e disastri di una certa portata. Perché – spiega Ustinov – nell’ opera ci sono pericoli anche quando tutto va bene: “non c’ è nessuna forma d’ arte che aspiri al sublime e sfiori  il ridicolo con la stessa folle temerarietà”.
Di quella folle temerarietà, e di quel disastro sorridente, e di quell’umanizzazione di cui parlava l’erede del Grande Sbaglio, forse vale la pena non avere nostalgia, ma memoria. E provare a capire, tutti, come rapportarlo al disastro reale che stiamo attraversando.

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