LA PATTUMIERA GRADITA: UNA LETTURA PER VIRGINIA RAGGI

Questa è una lettura consigliata alla sindaca di Roma, Virginia Raggi. Italo Calvino la scrisse  tra il 1974 e il 1976 e la pubblicò per la prima volta su “Paragone/Letteratura” nel febbraio del 1977. Si chiama La poubelle agréée.
Delle faccende domestiche, l’unica che io disimpegni con qualche competenza e soddisfazione è quella di mettere fuori l’immondizia. L’operazione si divide in varie fasi: prelievo della pattumiera di cucina e suo svuotamento nel recipiente più grande che sta nel garage, poi trasporto del detto recipiente sul marciapiede fuori della porta di casa, dove verrà raccolto dagli spazzini e vuotato a sua volta nel loro autocarro.
La pattumiera di cucina è un secchio cilindrico in materia plastica di color verde pisello. Per portarla via bisogna attendere il momento giusto, quando si presume che tutto ciò che c’era da buttar via sia stato buttato, cioè quando, sparecchiata la tavola, l’ultimo osso o buccia o crosta è scivolato giù dalla liscia superficie dei piatti, e lo stesso rapido gesto di mani esperte li ha portati uno a uno, i piatti, dopo un primo sommario sciacquo sotto il rubinetto, a incolonnarsi negli stalli del lavastoviglie.
La vita della cucina si basa su un ritmo musicale, su una concatenazione di movimenti come passi di danza, e quando parlo di rapido gesto è a una mano femminile che penso, non certo ai miei movimenti stonati e torpidi, sempre d’impiccio al lavoro degli altri. (questo almeno è quanto ho sentito ripetermi lungo l’arco della mia vita da genitori, compagni, compagne, superiori, subalterni e anche ormai da mia figlia. Si sono passati la voce per demoralizzarmi, lo so, credono che se continuano a dirmelo finirò per convincermi che qualcosa di vero ci sia. Invece io resto un po’ in dispare, attendendo il momento di rendermi utile, di riscattarmi).
Ora i piatti sono tutti ingabbiati nel loro vagoncino, le tonde facce attonite di quando si trovano in posizione verticale, le schiene curve nell’attesa della tempesta che sta per rovesciarglisi addosso, là in fondo al tunnel in cui spariranno in esilio fino a che non sia compiuto il ciclo dei nubifragi, delle trombe marine, delle esalazioni di vapori. Questo è il momento per me d’entrare in azione.
Ecco che già scendo le scale reggendo il secchio per il manico a semicerchio, attento a che non dondoli tanto da ribaltare il carico. Il coperchio di solito lo lascio in cucina: scomodo accessorio, quel coperchio, che male si destreggia tra il compito di nascondere e quello di levarsi di mezzo appena c’è da buttare dentro della roba. Il
compromesso a cui si arriva consiste nel tenerlo di sbieco, un po’ come una bocca che s’apre, spingendolo tra il secchio e il muro, in equilibrio instabile, per cui finisce in terra, con un bang opaco, non spiacevole a udirsi, come una vibrazione contenuta, perché la plastica non vibra.
Devo specificare che qui a Parigi abitiamo in una palazzina unifamiliare (tanto per usare una non bella ma comprensibile locuzione dell’italiano oggi corrente) o un pavillon (per dirla nel francese atemporale e ancora prodigo di connotazioni suggestive). Questo per spiegare il diverso valore che assumono i gesti del mio rituale rispetto a quelli che compie il condomino o inquilino d’un caseggiato dai numerosi appartamenti, il quale si dispossessa dei rifiuti della sua giornata versandoli dalla poubelle familiare nella poubelle collettiva che sta di solito nel cortile dell’immobile e che alla sua ora sarà la portinaia a esporre nella pubblica via per affidarla alle cure dei servizi urbani. Quel travaso da un recipiente all’altro che per la maggioranza degli abitanti della metropoli si configura già come un trapasso dal privato al pubblico, per me invece, a casa nostra, nel garage dove teniamo la poubelle grande durante il giorno, è soltanto l’ultimo atto del cerimoniale su cui si fonda il privato, – e in quanto tale viene compiuto da me pater familias – , perché il congedo dalle spoglie delle cose confermi l’appropriazione avvenuta e irreversibile.
Occorre però dire che la poubelle grande, per quanto parte incontestabile dei beni di nostra proprietà in seguito a regolare acquisto sul mercato, si presenta già nel suo aspetto e colore (un grigio-verde scuro da uniforme militare) come una suppellettile ufficiale della città, e annuncia la parte che nella vita di ciascuno hanno la dimensione pubblica, i doveri civici, la costituzione della polis. La sua scelta da parte nostra non fu infatti dovuta all’arbitrio del gusto estetico o all’esperienza dell’uso pratico come per gli altri oggetti della casa, ma fu dettata dal rispetto delle leggi della città. Saggiamente prescrivono, queste leggi, come egualmente tali poubelles devono presentarsi perché il loro quotidiano dispiego lungo le vie della città non sia di danno alla vista (l’uniformità tende a passare inosservata) né all’olfatto (il coperchio dovrebbe, se il contenuto non deborda, calzare la bocca del fusto col suo margine ripiegato, di modo che non lo sbalestri via il salto estroso dei gatti in amore o la metodica annusata dei cani) né all’udito (sostituendosi al metallo, la
morbida plastica ne smorza il fragore e salva il sonno dei cittadini quando all’incerta luce dell’alba gli spazzaturai si sbracciano a scoperchiare e trascinare i bidoni e a rovesciarli nel loro carro-fantasma).
Non per nulla la denominazione esatta di questo recipiente – così la designano il cliente che vuol comprarla in un negozio di chincaglieria e il negoziante che la vende – è poubelle agréée, come a dire pattumiera gradita, approvata, bene accetta (sottinteso: dai regolamenti prefettizi e dall’autorità che in essi si esteriorizza e che s’interiorizza nelle coscienze dei singoli a fondamento del contratto sociale e delle convenienze del ben vivere). Occorre ricordare a questo punto che nell’espressione poubelle agréée non solo l’aggettivo ma anche il sostantivo porta il sigillo delle paterne burocrazie. Poubelle nome comune di cosa ripete un nome proprio di persona: fu un Monsieur Poubelle prefetto della Senna che primo prescrisse (1884) l’uso di questi recipienti nelle fin allora infette vie di Parigi.
Cosicché nel momento in cui svuoto la pattumiera piccola nella grande e trasporto questa sollevandola per i due manici fuori dal nostro ingresso di casa, pur ancora agendo come umile rotella del meccanismo domestico, già m’investo d’un ruolo sociale, mi costituisco primo ingranaggio di una catena d’operazioni decisive per la convivenza collettiva, sancisco la mia dipendenza dalle istituzioni senza le quali morrei sepolto dai miei stessi rifiuti nel mio guscio d’individuo singolo, introverso e (in più d’un senso) autista.
Di qui devo partire per chiarire le ragioni che rendono agréée la mia poubelle: gradita in primo luogo a me, ancorché non gradevole; come è necessario gradire il non gradevole senza il quale nulla di quel che ci è gradito avrebbe senso.
Altri modi di sbarazzarsi dei rifiuti registra la mia memoria: già abitante d’appartamenti in grandi caseggiati, conosco il cupo tonfo con cui il contenuto delle pattumiere precipita negli appositi condotti verticali diroccando giù fino in fondo alle oscure cripte a livello del cortile: procedimento che combina l’agile impiego della forza di gravità – di cui certo s’avvantaggiarono per primi gli uomini delle palafitte – al sistema dell’ammucchiamento in anfratti reconditi che fu prim’ancora adottato dai cavernicoli e che presenta i noti inconvenienti dell’intasamento maleodorante all’ostruirsi del cunicolo.
Risalendo più in là nella memoria affiora la San Remo dell’infanzia, ed ecco lo spazzino col sacco sulle spalle venirsene a piedi su per i tornanti del viale fino alla villa, a raccogliere i rifiuti dal bidone di zinco: la vita signorile sembrava garantita in eterno dalla disponibilità di mano d’opera e dai bassi salari.
Intanto, negli sterminati sobborghi residenziali delle civiltà individualistiche e prospere e democratiche e industriali, tanti ometti tutti uguali uscivano da casette tutte uguali, corredate di giardinetto e garage, e posavano una in fila all’altra sul marciapiede tante pattumiere tutte uguali: immagine anglosassone che rimonta già agli albori della società di massa, ma che nei miei ricordi s’associa al mio primo viaggio in America, quando ancora vivevo nell’anarchia dello scapolo fluttuante ed affluente e certo questi doveri familiari erano lontani dai miei pensieri, e fu Barolini a parlarmi della regola di portar fuori il bidone del garbage ogni giorno come uno dei primi fondamenti della vita domestica, a Crotonon-Hudson. (Era un padre di famiglia americana esemplare, americana la famiglia, non lui, che s’era immedesimato in quel ruolo in età matura, ed era portato a osservarsi dal di fuori mentre lo viveva).
“Il garbagio, – ripeteva, nel suo anglo-veneto, come dovesse imprimersi bene il suocompito nella mente, – non devo scordare di mettere fuori il garbagio”. La voce dell’amico morto mi torna da quando sono diventato anch’io padre di famiglia, e d’una famiglia forestiera, non in un verde sobborgo di New York ma in un fitto quartiere alle porte di Parigi (ma sarà proprio Parigi? M’affaccio da una casetta più londinese che parigina su un appartamento cortile che viene chiamato Square, forse più per il vago senso di spaesamento che ispira per il verde condensato in magre piante di lillà lungo i muri) e depongo anch’io il garbage-can o poubelle agréée davanti al cancello.
A gradire questa regola l’amico era certo giunto con letizia per le vie del cristiano. E io? Vorrei poter dire, con Nietzsche: ”Amo il mio destino”, ma non riesco a dirlo finché non mi spiego le ragioni che mi portano ad amarlo. Il trasporto della poubelle agréée non è un atto che io compio senza pensarci, ma qualcosa che chiede di essere pensato e che risveglia in me una particolare soddisfazione del pensare.
Ogni parola che si pensa oscilla in un campo mentale dove interferiscono più lingue. Scavalcando il francese, è il verbo inglese to agree che invade il campo: è per rispettare un agreement, un patto concordato per mutuo consenso delle parti, che io sto posando questo oggetto su questo marciapiede, con tutto ciò che implica l’uso internazionale della parola inglese.
Un agreement con chi? Certo con la città,cui pago annualmente una taxe  d’enlèvement des ordures ménagères e che s’impegna a liberarmi da questo cario ogni giorno dell’anno – comprese le domeniche ed escluse solo poche festività solenni – sempre che io esegua la prima mossa, cioè porti fino a questa soglia il recipiente regolare nelle ore regolari. E qui già commetto una prima inadempienza, in quanto sarebbe vietato lasciare esposte in strada durante la notte le immondizie che non saranno raccolte prima del mattino; ma un articolo di legge tanto inumano da obbligarmi a risvegli antelucani mi sento autorizzato a interpretarlo con una certa larghezza, come in un tacito agreement, appunto, dato che abito in un luogo poco frequentato, dove un ingombro notturno sul marciapiede non intralcia il passaggio. E anche perché la più forte legge non scritta cui obbedisce il rituale dei nostri gesti quotidiani prescrive che l’espulsione dei rifiuti della giornata coincida col chiudersi della giornata stessa, e che ci si addormento dopo aver allontanato da sé le possibili fonti di cattivi odori (appena i visitatori della sera se ne sono andati, presto aprire le finestre, sciacquare i bicchieri, vuotare i portacenere; nella poubelle lo strato di cenere e mozziconi suggella l’accumularsi delle scorie diurne come i depositi delle glaciazioni separano un’era dall’altra negli spaccati geologici) non solo per un naturale scrupolo d’igiene ma perché domani svegliandoci si possa iniziare un nuovo giorno senza dover maneggiare quanto alla vigilia abbiamo lasciato cadere da noi per sempre.
Il portar fuori la poubelle va dunque interpretato contemporaneamente (perché così lo vivo) sotto l’aspetto di contratto e sotto quello di rito (due aspetti ulteriormente unificabili, in quanto ogni rito è contratto, ma per ora non voglio spingermi – contratto con chi? – tanto lontano), rito di purificazione, abbandono delle scorie di me stesso, non importa se si tratta proprio di quelle scorie contenute nella poubelle o se quelle scorie rimandano a ogni altra possibile mia scoria, l’importante è che in questo mio gesto quotidiano io confermi a necessità i separarmi da una parte di ciò che era mio, la spoglia o crisalide o limone spremuto del vivere, perché ne resti la sostanza, perché domani io possa identificarmi per completo (senza residui) in ciò che sono e ho. Soltanto buttando via posso assicurarmi che qualcosa di me non è stato ancora buttato e forse non è né sarà da buttare.
La soddisfazione che provo è dunque analoga a quella della defecazione, del sentire le proprie viscere sgombrarsi, la sensazione almeno per un momento che il mio corpo non contiene altro che me, e non vi è confusione possibile tra ciò che sono e ciò che è estraneità irriducibile. Maledizione dello stitico (e dell’avaro) che temendo di perdere qualcosa di sé non riesce a separarsi da nulla, accumula deiezione e finisce per
identificare se stesso con la propria deiezione e perdervisi.
Se questo è vero, se il buttar via è la prima condizione indispensabile per essere, perché si è ciò che non si butta via, il primo atto fisiologico e mentale è il separare la parte di me che resta e la parte che devo lasciare che discenda in un al di là senza ritorno.
Ecco allora che il rito purificatorio dell’enlèvement des ordures ménagères può anche essere visto come un’offerta agli inferi, agli dei della scomparsa e della perdita, l’adempimento di un voto (ecco ancora il contratto). Il contenuto della poubelle rappresenta la parte del nostro essere e avere che deve quotidianamente sprofondare nel buio perché un’altra parte del nostro essere e avere resti a godere la luce del sole, sia e sia avuta veramente. Fino al giorno in cui anche l’ultimo supporto del nostro essere e avere, la nostra persona fisica, diventi spoglia morta a sua volta da deporre anch’essa nel carro che porta all’inceneritore.
Dunque questa quotidiana rappresentazione della discesa sottoterra, questo funerale domestico e municipale della spazzatura, è inteso in primo luogo ad allontanare il funerale della persona, a rimandarlo sia pur di poco, a confermarmi che ancora per un giorno sono stato produttore di scorie e non scoria io stesso.
Da ciò deriva lo stato d’animo insieme cupo ed euforico che si associa al trasporto delle immondizie; per cui gli uomini che passano a rovesciare i bidoni nel loro carro macinante ci appaiono non solo come emissari del mondo ctonio, necrofori delle cose, caronti d’un al di là di carta unta e latta arrugginita, ma pure come angeli, mediatori indispensabili tra noi e il cielo delle idee in cui immeritatamente ci libriamo (o crediamo librarci) e che può sussistere solo in quanto non siamo soverchiati dalla spazzatura che ogni atto del vivere incessantemente produce (anche l’atto del pensare: questi miei pensieri che leggete sono quanto s’è salvato di decine di fogli appallottolati nel cestino), annunciatori d’una salvezza possibile al di là dello sfacelo d’ogni produzione e consumo, affrancatori dal peso dei detriti del tempo, neri e grevi angeli della limpidezza e leggerezza.
Già basta che per qualche giorno uno sciopero degli spazzatura lasci i rifiuti ammucchiarsi sulle nostre soglie e la città si trasforma in un infetto letamaio, più rapidamente d’ogni previsione restiamo soffocati dal nostro gettito incessante d’immondizia, la corazza tecnologica delle nostre civiltà si rivela un fragile involucro, riapre prospettive medievali di decadenza e pestilenza.
Questo si vede specialmente in Italia, a emblema della lunga crisi che è la nostra storia. La cattiva amministrazione si dirama per cento vie palesi e occulte nei nostri municipi ma è sempre nelle latèbre degli assessorati alla Nettezza Urbana che lo scandalo esplode incontenibile. E’ come se qualcosa che non quadra si rivelasse nel rapporto con la spazzatura, un vizio di fondo della mente italiana, o meglio cattolico-italiana, dato che è caratteristico delle civiche amministrazioni democristiane il naufragare in questo gorgo, forse per un errore religioso, di teologia morale e anche di fede, un’idea sbagliata della parte che tocca alla Provvidenza e la parte che tocca agli uomini, una sottovalutazione del carattere sacrale delle operazioni d’asportazione dei rifiuti (così come d’ogni altro servizio civico): il considerare la necessità materiale non come il campo delle scelte e della prova ma come un peso che non possiamo non portarci dietro dal giorno della Caduta e di fronte al quale ogni inadempienza è solo una colpa veniale, da considerare con sguardo indulgente perché ne saremo comunque mondati al momento estremo senza che altra giustificazione ci sia chiesta se non l’atto della pietà formale (e sul piano della vita civica il voto al partito o alla corrente). Da ciò deriva che l’esercito dei netturbini (neologismo burocratico che già allontana l’idea del servizio pratico nel limbo dell’appartenenza a un qualsiasi ente impiegatizio) possa ingigantirsi illimitatamente nei bilanci comunali per garantire uno stipendio a una pletora di clienti che mai verranno iniziati alle prove infernali e angeliche della missione di cui sono stati nominalmente investiti. E che il grande strumento purificatore, il viscere essenziale della città, l’inceneritore, sia profanamente visto solo in quanto occasione per le solite malversazioni sulle forniture e sugli appalti, senza restare sbigottiti dalla sua portata simbolica, senza vedere noi stessi giudicati dall’incombente ordigno, senza chiederci quanta parte di noi temiamo o desideriamo vada in cenere.
Bisogna però dire che a Parigi gli scioperi degli éboueurs non sono meno frequenti, (éboueurs vengono chiamati ufficialmente, cioè sfangatori, nel ricordo d’una inimmaginabile Parigi dalle vie fangose, solcate dalle rotaie delle carrozze dove s’impastava lo sterco dei cavalli), effetto della perpetua scontentezza d’una mano d’opera recentemente immigrata e costretta ad accettare il lavoro più basso e faticoso senza regolare contratto di lavoro. Nel confronto con l’Italia si può dire che le cause sono opposte ma i risultati sono gli stessi: nella precaria economia italiana la qualifica di spazzino viene difesa come un impiego stabile, una carica a vita; nella solida economia francese raccogliere i rifiuti è un’occupazione precaria, compiuta da chi non è ancora riuscito a mettere radici nella metropoli e regolabile solo dalla reciproca minaccia della disoccupazione e dello sciopero.
E’ proprio dei demoni e degli angeli presentarsi come stranieri, visitatori d’un altro mondo. Cosi gli éboueurs affiorano dalle nebbie del mattino, i lineamenti che non si distaccano dall’indistinto: cere terree – Nordafricani – un po’ di baffi, uno zuccotto in capo; o – quelli dell’Africa nera – solo il bulbo degli occhi che rischiara il viso perso nel buio; voci che sovrappongono al ronzio smorzato dell’autocarro suoni inarticolati per i nostri orecchi, suoni apportatori di sollievo quando trapelano nel sonno della mattina rassicurandoti che puoi continuare a dormire ancora un poco perché altri stanno lavorando per te. La piramide sociale continua a rimescolare le sue stratificazioni etniche: a Parigi ormai il lavoratore italiano è diventato padroncino, lo spagnolo operaio qualificato, l’jugoslavo muratore, la mano d’opera più grezza è portoghese, e quando si arriva a chi spala terra o spazza le strade è sempre la maldecolonizzata Africa che leva i suoi occhi tristi dal selciato della metropoli senza incrociarli coi tuoi sguardi come se una distanza incolmabile ci separasse ancora. E tu nel sonno senti che l’autocarro non macina solo spazzatura ma vite umane e ruoli sociali e privilegi e non si ferma finché non ha fatto tutto il giro.

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