L'INVERNO E' QUI: IL GELO DEL TERREMOTO

Sostiene Adam Gopnik, l’autore de L’invenzione dell’inverno, che la nostra fascinazione per la stagione del freddo nasce nel corso del Settecento, quando il mondo moderno si è garantito il lusso di poterlo ammirare da dietro un vetro nel tepore di una stanza ben riscaldata: da allora l’inverno ha smesso di essere soltanto una stagione buia e gelida ed è diventato molto altro e molto di più.
Non per tutti, evidentemente. In questi giorni di neve, la prima dopo un lungo e tiepido autunno, nelle Marche post-terremoto si gela. Cinquemila case sono senza elettricità, e dunque senza riscaldamento. Si è cominciato con i Mapre, ovvero il modulo abitativo prefabbricato rurale emergenziale previsto per gli allevatori delle zone del cratere, dove venerdì scorso, come ha raccontato Silvia Bonomi dell’azienda Sopravissana dei Sibillini, tutto salta, e il Mapre, che è fatto di lamiera, diventa un frigorifero:
“Era una struttura opzionale che potevamo scegliere e siamo stati anche accusati della nostra scelta ma dopo nove mesi di roulotte in cui facevamo avanti e indietro al mare per andarci a lavare, ci sembrava la soluzione migliore. Essendo stata proposta dallo Stato, ci siamo fidati”. Ma la “scatola di tonno”, come la definisce, ha rivelato subito i suoi difetti con l’inverno e la prima emergenza neve. Muffa ovunque, condensa d’acqua tutte le mattine lungo l’intero perimetro del prefabbricato. “Se non passo la candeggina sempre, ogni giorno, dopo 48 ore ho il retro dei mobili completamente verdi di muffa”.
Poi si è passati ai black out che colpiscono frazioni e paesi: cadono gli alberi, si dice, come due anni fa, com’è normale in montagna. Quello che non è normale è continuare a vivere in strutture provvisorie che non sono state concepite per il territorio dove sono state collocate. Montagna, occorre sottolinearlo. E in montagna la chiesa in tensostruttura viene giù se ci nevica sopra, e pazienza per la chiesa, ma le Sae fiorite di muffe e funghi? Le Sae dove saltano i boiler? Dove si è costretti a trasferirsi, ancora, per il freddo?
Risponde  Carmelo Tulumello (Direttore Agenzia Regionale Protezione civile Lazio), sollecitato a intervenire sulle “case di carta” di Accumoli, che  per quei moduli commissionati dalla Protezione Civile stessa non c’è la possibilità di attuare interventi preventivi (gruppi elettrogeni, rimozione neve dai tetti), ma solo “interventi emergenziali tesi a garantire le condizioni minime di vita e sicurezza”.
Condizioni minime, già. Silvia Sorana ha scritto un bellissimo e amarissimo post, sul punto, che fa capire quale sia lo stato d’animo di chi vive nel maceratese:
“// In questi territori quando non sei una vittima, non sei una vittima solo per caso //
Se come dice Daniele Giglioli “la vittima è l’eroe del nostro tempo” qui, negli Appennini terremotati, discarica di progetti di rinascita e tensostrutture, gli eroi del post-terremoto, le vittime, come le designa Giglioli, (se si tralascia il ricordo doloroso di quelli che non ce l’hanno fatta ad adattarsi alla disfatta) non ci sono solo per caso, solo perché per un dettaglio, per un attimo, ogni volta scampano il pericolo.
Scrive sempre Giglioli, che essere vittime “dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima”. Qui, fortunatamente l’incidente è sempre sfiorato, la struttura di ricovero crolla un minuto prima che…

E tutto quello che quotidianamente accade non è sufficientemente vittimizzante per superare il passaparola, la condivisione tra amici di social, la terzultima pagina del quotidiano locale. Non sono sufficienti le perdite, quantificabili in termini di salute, di benessere, di relazioni, di reddito, di beni. Che cosa manca allora a questi territori, a questa popolazione martoriata, quotidianamente flagellata?
La perdita deve essere più visibile, una maceria. E allora è necessario che sia ormai di carne.
A quelle di calcestruzzo tutta la comunità è ormai abituata, alle case smembrate, ai brandelli di arredamenti penzolanti ci aveva abituato anche L’Aquila. Ma anche lì niente è stato sufficiente a dargli una garanzia di cura.
Ai corpi neri ci hanno abituati anni di naufragi nel Mediterraneo. Corpi inizialmente pixelati, poi spogliati fino a decensurare la morte. Corpi non dissimili dai nostri ma raccontati distanti, altri. Nessuna empatia, nessun riparo.
Oggi, Il corpo da ridurre in maceria, da eroicizzare è quello bianco povero, superstite o marginale. E il terremotato è un superstite che perde il suo status. Un ingombro. Il ricordo del pathos che si sente nei recuperi degli uomini restati vivi recuperati sotto le macerie è poi dimenticato come viene dimenticato il loro sforzo eroico di credere ancora di essere parte di un corpus unico e non di essere le ultime macerie di un tessuto sociale smembrato.
Uno Stato che promette ricovero, non può diventare la minaccia peggiore e intenzionale per i suoi cittadini.
Un rifugio non cade sulla testa, non lesiona, non smembra, non lacera. Un rifugio non fa vittime, offre riparo.
Non è accaduto solo per un caso. In un territorio in cui ora tutto si pianifica, accade che una tensostruttura crolli, che un boiler esploda, che un tetto marcisca, ma che non ci siano vittime è solo un caso.
Il conforto dello Stato sui territori non può arrivare solo se barattato ogni volta con il sacrificio di corpi umani, lasciati incustoditi alla mercé del risparmio e della speculazione”.
In una società che sta assestando la propria rabbia e la propria aggressività sul timore di non essere notata, di non essere visibile, gli invisibili – quelli veri, non quelli che non hanno la loro dose quotidiana di fama – sono lasciati al freddo. Quello che si pensava fosse ormai faccenda per rievocazioni letterarie. Quello vero.

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