Ricordo benissimo il come. Avevo 19 anni e mendicavo lavoretti mentre fingevo di studiare filosofia all’Università. Tempo tre mesi, e insieme a Graziella De Palo avrei bussato alla porta del Partito radicale, in via di Torre Argentina 18, e da quel gennaio 1976 tutto sarebbe cambiato: la mia vita, che avrebbe preso un’altra strada, e quella di Graziella, che avrebbe avuto solo quattro anni e mezzo prima di fermarsi.
Ma era ancora settembre, e aiutavo mio padre, che faceva il geometra (“l’ingegnere”, lo chiamavano) in una ditta di costruzioni: lo aiutavo, nel caso, a disegnare plinti. Quando oggi leggo di quanto sia importante disegnare, anche scarabocchi, continua a venirmi da ridere, perché io, che non sono mai stata precisa ma ribelle e impetuosa anche quando tenevo in mano matita o pennello, mi disperavo sui benedetti plinti, che per forza di cose dovevano essere precisi. Una di quelle mattine sulla scrivania di mio padre c’era il Messaggero, che lui leggeva religiosamente, girando le pagine dopo essersi inumidito le dita, la sigaretta che si consumava nel posacenere. E c’era questa foto in prima pagina, una ragazza poco più piccola di me, nuda, il volto tumefatto e insanguinato, che usciva dal portabagagli di un’automobile. Accanto, un’altra ragazza, solo un corpo ormai, avvolta in una coperta o quella che sembrava una coperta, i capelli fradici di acqua e sangue, gli occhi chiusi.
Ricordo anche la reazione, quando lessi della morte di Rosaria Lopez e del massacro di Donatella Colasanti. Può succedere anche a me. A me che, insieme a Graziella, frequentavo proprio quel bar del San Leone Magno che Edoardo Albinati racconta ne La scuola cattolica, e dove si davano convegno ragazzi e ragazze di buona famiglia, borghesia medio-alta, quindi di ceto superiore al mio, che appartenevo alla piccola borghesia degli impiegati scampati alla guerra e emigrati da altre terre, e loro erano sempre ben vestiti, e sempre con la bella macchina dei genitori a disposizione. Può succedere anche a me, mi dissi dunque, e me lo sarei detta due anni dopo, circa, correndo per via Arenula in mezzo agli spari e ai lacrimogeni, nella direzione contraria a quella in cui fuggiva un’altra coetanea, Giorgiana Masi.
Per questo quello che accadde al Circeo 45 anni fa è uno spartiacque: per chi aveva la stessa età di Rosaria Lopez, fu una perdita d’innocenza. Fu la consapevolezza di un pericolo reale quanto insensato: non la sfida di una generazione che scendeva in piazza tutti i giorni, e che a un certo punto capì di non essere invulnerabile, ma un altro genere di fragilità, quello, allora improvviso e quasi non narrabile, che riguardava l’essere donna, e in quanto tale possibile preda.
Ci è voluto molto tempo per ragionarci su, per interrogarsi, molto dopo, sulle insidie del paradigma della vittima, sul ribaltamento, fino ad arrivare (ne parla oggi con saggezza Giulia Caminito su Il Domani) al momento in cui le donne sono “di moda” come i vampiri dopo Twilight, e giornalisti e pensatori e opinionisti non sanno bene come comportarsi nel parlare di donne, e a volte non lo so neanche io, perché è molto difficile trovare un equilibrio tra realtà, rappresentazione, divulgazione, complessità. Ma allora era solo l’inizio: seduta accanto a mio padre, i suoi occhi grigio-azzurri che mi guardavano con malinconia, una sigaretta pescata dal suo pacchetto, la percezione che non sarebbe stato tutto così semplice, neanche un po’.
Buona sera Loredana,
questa tua riflessione tocca puntuale un problema non risolto / irrisolvibile; fino a che punto è veramente un problema poi? Oggi una collega docente, in un istituto superiore serio di Catania, mi ha avvisato di non restare mai solo in classe in presenza di una sola allieva. A quanto pare, in passato, deve essere successo qualcosa che non è rientrato nelle consuete dinamiche scolastiche, forse qualcosa di simile alla canzone dei Police Don’t stand so close to me. Dovrò capire meglio in quanto è il mio primo anno di insegnamento in questa scuola. La seconda cosa alla quale il tuo post mi riporta è che questo pomeriggio mi recavo a scuola da mio figlio per un incontro sul patto di corresponsabilità scuola / genitori quando una giovane donna è venuta fuori da un negozio praticamente seminuda. Avverto subito che cerco di fuggire dalle trappole della lingua che si nutre spesso di sottintesi e, quindi, il mio intento è non veicolare con le mie parole più significati di quanti spero di voler trasmettere. Sono più che certo che dall’incedere della donna ci fosse in lei la consapevolezza di non voler passare inosservata. Non trovo nulla di male nel voler esser notati. Ciascuno ha motivazioni a sostegno di una simile necessità. Personalmente, trent’anni fa, portavo i capelli lunghi e sentivo il bisogno di guardarmi costantemente un po’ ovunque per strada perché attraversavo un periodo di grande insicurezza. Mi chiedo se la donna abbia apprezzato i commenti di varia educazione che ha ottenuto mentre era in attesa al semaforo pedonale. Mi sono chiesto se non esista in alcuni, uomini e donne, una spinta all’esibizionismo tale da far oltrepassare anche i limiti del decoro. La donna era in jeans rosa, cortissimi e ben aderenti, e una maglietta altrettanto aderente e smanicata. Io accetto le provocazioni; propugno per chiunque la possibilità di esprimersi al meglio delle proprie possibilità però sto bene attento a rispettare anche la sensibilità altrui. Per un istante, ho compreso lo sguardo rapace del motociclista, ma ho scelto di non condividerne l’eloquio folklorico. Hai ragione quando scrivi che neanche tu sai come comportarti parlando di donne. C’è un retaggio che ci portiamo tra i nucleotidi proprio incastrato nel DNA. Viviamo in un paese e in un tempo in cui la libertà nella scelta dell’abbigliamento non è in questione se non in certi contesti, scuola e chiesa ad esempio. Si rischia di passare per bigotti e di essere attaccati per maschilisti anche quando si è ben disposti al dialogo. C’è un’immagine della donna che molti uomini non accettano. Ne saranno, quasi certamente, spaventati inconsciamente e attuano atteggiamenti di cameratismo che molti film anni ’80 hanno contribuito ad esasperare. Vorrei poter concludere con qualcosa di concreto, ma mi è impossibile. Libertà personale e codici morali cozzano tra loro e non riesco ad addivenire ad una soluzione chiara. Forse, non ho neanche centrato il senso del tuo post. Antonio