LA RAGAZZA CHE SI ADDORMENTAVA SEMPRE

Sempre più vicina
è l’ora della mia morte
mentre mi risistemo il volto, divento come prima,
come prima dello sviluppo, con i capelli diritti.
Tutto ciò è morte.
Nella mente vi è un esile vicolo chiamato morte
ed io mi muovo lungo di esso come
nuotando nell’acqua.
Il mio corpo è inutile.
È disteso, accucciato come un cane su un tappeto.
Si è arreso.
E’ parte di una poesia di Anne Sexton, Per l’anno dei folli. Mi è tornata in mente leggendo, questa mattina, il lungo e bell’articolo di Tommaso Pincio a commento del suicidio di Nicholas Hughes, figlio di Ted e di Sylvia Plath. Sylvia e Anne erano amiche, entrambe grandissime poetesse, entrambe nel gorgo oscuro della voluttà del morire. Al di là di quel che sembra essere l’evidenza (inconciliabilità del quotidiano con esigenze di accudimento), è a quello sguardo femminile nel pozzo che ho pensato stamattina: e a come a volte si riveli senza uscita.
Vi posto, comunque, l’articolo di Pincio.


Non deve essere facile trovare un posto nel mondo sapendo che tua madre si è tolta la vita quando tu eri poco più di un neonato. Ancor meno deve esserlo se lei lo ha fatto in cucina, infilando la testa nel forno mentre tu, ignaro, dormivi nella camera accanto insieme alla sorellina di due anni. Se poi il gesto estremo diventa un mito della letteratura moderna e trasforma tua madre in un oggetto di culto, vivere può rivelarsi intollerabile.
Nicholas Hughes, figlio di Sylvia Plath, si è impiccato la scorsa settimana. Viveva immerso nei paesaggi aspri e selvaggi dell´Alaska. Aveva ereditato la passione per il mare e i pesci dal padre Ted che amava esaltare la potenza della natura nei suoi versi. Pare che nonostante tutto avesse mantenuto un entusiasmo e un´innocenza quasi infantili. Ma il difficile equilibrio deve essersi spezzato. I fantasmi del passato hanno preso il sopravvento. «Ha lottato per qualche tempo contro la depressione» spiega la sorella Frieda.
Si dice spesso che la tendenza al suicidio sia ereditaria. Il caso di Sylvia Plath è però assai aggrovigliato e non può essere ridotto a una questione di tara genetica. Che la scrittrice soffrisse di manie depressive è fuor di dubbio, così com´è certo che i tre elettroshock cui fu sottoposta da ragazza non l´hanno aiutata. Furono tuttavia altre le questioni sollevate all´indomani del ritrovamento del cadavere, l´11 febbraio 1963. Si parlò di pene d´amore, di tradimento, di un celebrato quanto egoista poeta inglese che aveva abbandonato una dotata quanto fragile poetessa americana per un´altra donna.
Sylvia e Ted si erano conosciuti sette anni prima, a Cambridge. Nata a Boston, Sylvia era una studentessa brillante con una sfrenata ambizione di imporsi nel mondo letterario. Ted era invece un giovanotto inglese dai progetti ancora confusi ma aveva comunque pubblicato alcune poesie, oggetto d´ammirazione per Sylvia. Al loro primo incontro lui rimase abbagliato dalla frangetta alla Veronica Lake di lei. Lei gli recitò a memoria i suoi versi. Si trovavano a una festa. Lui la invitò a ballare. Si ubriacarono e si baciarono. E con ciò giunse il momento poi diventato leggenda: i denti di lei affondarono a tal punto nella guancia di lui da farla sanguinare. Nei castigati anni Cinquanta si veniva chiacchierati per molto meno.
Nel giro di pochi mesi la coppia finisce all´altare. All´inizio è una luna di miele, uniti dalla passione per la letteratura i due fanno avanti e indietro tra l´America e il vecchio continente. Con la nascita dei figli arrivano però i problemi, e alla frustrante routine della maternità si aggiungono le scappatelle di Ted, che alla fine preferirà gettarsi tra le braccia di un´altra, Assia Wevill. Per Sylvia inizia un periodo di ristrettezze economiche ma anche di intensa attività che culmina nel 1963 con la pubblicazione sotto pseudonimo del romanzo La campana di vetro. L´accoglienza, pur non del tutto negativa, è tiepida e comunque inferiore alle speranzose attese dell´autrice, che sentiva la propria sensibilità schiacciata tra la voglia di affermarsi e il ruolo che la società del tempo imponeva a una donna. In capo a un mese, mette in camera i figli, sigilla porte e finestre della cucina, scrive un´ultima poesia e infila la testa nel forno.
La tragedia ha un´assurda replica qualche tempo dopo. Perché il 23 marzo 1969, anche Assia Wevill si toglie la vita alla stessa maniera: con il gas del forno. Diversamente da Sylvia, però, decise di uccidere pure la figlia di quattro anni. L´ignominia si abbatté fatalmente su Ted Hughes. Il poeta fu accusato di essere un uomo dal cuore di pietra che aveva indotto due donne al suicidio; qualcuno tirò via a colpi di scalpello il suo cognome dalla tomba di Sylvia Plath. Lui si è chiuso in un impenetrabile silenzio finché non diede la propria versione dei fatti in una raccolta di poesie che fece scalpore. In una di queste, ricordando il primo momento d´amore con Sylvia, scrive: «Eri sottile, sinuosa, sfuggente come un pesce».
Sinuosa e sfuggente come le creature amate da suo figlio Nicholas, verrebbe da aggiungere col senno di poi. Ma la catena dei suicidi è più lunga ancora. Nel 1974 si uccide con il gas Anne Sexton, amica di gioventù di Sylvia. Anni addietro, quando erano entrambe poetesse alle prime armi, si divertivano a chiacchierare al bar delle loro inclinazioni suicide. Chiacchierate che la Sexton ha rievocato in versi dopo la scomparsa di Sylvia: «Come hai potuto scivolare giù da sola /nella morte che così tanto e così a lungo ho desiderato /… la morte di cui così tanto parlavamo a Boston /mentre ci scolavamo tre martini extra dry». I gas con cui anche lei, in seguito, si tolse la vita furono però quelli di scarico di un´automobile. Con macabra ironia qualcuno ha commentato che fu costretta a optare per il garage perché in America i forni erano ormai tutti elettrici.
L´amante del marito, l´amica, il figlio. Un cerchio inquietante che trascende i legami di sangue. Cos´è dunque il suicidio? Una malattia contagiosa, una perversa tentazione che si trasmette alla maniera dei virus? Le paurose ragioni che spingono un essere umano a rincorrere un suo simile verso l´eterna notte sono fatte di mistero, ma devono somigliare molto alle parole che Sylvia Plath appuntò in un gelido giorno d´inverno: «Parlo a Dio ma il cielo è vuoto».

5 pensieri su “LA RAGAZZA CHE SI ADDORMENTAVA SEMPRE

  1. C’è un colpevole che ha dato inizio alla tragedia, sfuggendo alle sue faticose responsabiltà di padre e marito, è evidente è Ted Hughes, doppiamente colpevole perchè ha abbandonato tre creature estremamente fragili, indifese, sofferenti e in ristrettezze: ma i crimini del cuore sono perseguibili?

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