CERTI SCRITTORI. SUL 1915

Ieri, in radio,  si discuteva di scrittori, autolimitazioni, libertà di espressione, rapporto con il contemporaneo. Mi è tornata in mente un’altra serie di post che l’eteronimo scrisse, cinque anni fa, sulla prima guerra mondiale. Non sulle motivazioni dell’entrata in guerra, ma sul ruolo degli scrittori. A cento anni dal “radioso maggio”, ve li ripropongo.
Più delle ragioni storiche che hanno portato l’Italia alla guerra mi interessavano le migliaia di piccole storie di chi si è trovato nell’orrore del fronte. Molto spesso, senza volerlo affatto.
E allora mi sono domandata come si è arrivati all’immagine di una nazione infiammata di patriottismo e votata al sacrificio. Sì, certo, per volontà del primo ministro Antonio Salandra e del ministro degli Esteri Sidney Sonnino.  I quali ebbero però almeno un complice. I cui libri erano sempre presenti “nelle vetrine di ogni libraio d’Italia”.
Gabriele D’Annunzio fu l’interventista più acceso: amava la guerra, l’aveva celebrata sul Corriere della Sera nel corso della campagna di Libia del 1911, le aveva dedicato poemi di ogni sorta. Il Corriere pagava, in cambio, alcuni dei suoi debiti: perchè negli anni che precedono la discesa in guerra dell’Italia D’Annunzio si trovava a Parigi, anche per tenersi lontano dai creditori italiani.
La svolta avvenne nel marzo 1915: D’Annunzio venne invitato all’inaugurazione di un monumento a Garibaldi a Quarto, alla presenza del re e dei ministri. Anche il governo francese lo contattò, chiedendogli esplicitamente di partecipare a “un progetto propagandistico” a favore dell’intervento dell’Italia. D’Annunzio ne fu entusiasta: e concordò con il direttore del Corriere la pubblicazione integrale del proprio discorso nel giorno in cui l’avrebbe pronunciato.
Ovvero, il 5 maggio. Eccone alcuni stralci:
“Beati quelli che hanno vent’anni, una mente casta, un corpo temprato, una madre animosa.
Beati quelli che, aspettando e confidando, non dissiparono la loro forza ma la custodirono nella disciplina del guerriero.

Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perchè saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perchè avranno da tergere un sangue splendente, da bendare un raggiante dolore”.
Tra gli ascoltatori c’era un altro interventista, un giornalista: si chiamava Benito Mussolini.
Quanto a D’Annunzio, ripartì subito per Roma. Dal balcone dell’albergo tenne un altro discorso. Frase chiave:
“Se considerato è come crimine l’incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine”.
Il 14 maggio parlò a teatro, accusando Giolitti di essere un “supremo malfattore”. Il 19 incontrò il re. Il 20 il Parlamento votò a favore della guerra. Il 25 D’Annunzio scrisse:
“La nostra vigilia è finita. La nostra ebbrezza incomincia…L’uccisione comincia, la distruzione comincia. Uno della nostra gente è morto sul mare, uno della nostra gente è morto sul suolo…Tutto quel popolo, che ieri tumultuava nelle vie e nelle piazze, che ieri a gran voce domandava la guerra, è pieno di vene, è pieno di sangue”.
Alla fine di maggio, Cadorna gli promise il grado (e il salario) di ufficiale. Anche il direttore del Corriere della Sera gli assicurò uno stipendio per le sue corrispondenze. Divenne il “poeta del massacro”.
Non fu il solo.
***
C’è un libro che spiegherebbe molte cose sul massacro degli italiani, soprattutto nei primi mesi di guerra. Il libro, a dire il vero, nacque come articolo, e venne pubblicato nel 1888 sulla Rivista militare italiana, poi divenne un opuscolo più volte ristampato. Si chiamava Attacco frontale e ammaestramento tattico. Il nome dell’autore era Luigi Cadorna, futuro generalissimo della Grande Guerra. La tesi: il potere della fanteria.
Per esempio:
“L’offensiva è redditizia e quasi sempre possibile perfino contro posizioni montuose che appaiono imprendibili”.
Quel che contava era:
“la superiorità del fuoco e l’irresistibile movimento in avanti. Di questi il secondo è il più importante (vincere significa avanzare)”.
Lo sperimenterà  Giani Stuparich.  Già alla fine di maggio, in viaggio verso il fronte, Giani aveva osservato con stupore il silenzio di un soldato dallo sguardo febbricitante, immobile, con la bocca aperta e gli occhi acquosi. Comprese, infine, che quel soldato era un contadino che conosceva solo il dialetto e non capiva cosa gli stesse accadendo e dove stesse andando.  Si recava, semplicemente, al macello.  Primo colpo per il venticinquenne euforico ed eccitato dalla guerra che Giani era stato e che parzialmente continuava ad essere.
Quando entra a Monfalcone, Stuparich è accolto da una notizia: cento uomini sono stati uccisi dal fuoco amico. Problemi di coordinamento fra artiglieria e assalti della fanteria tanto cara a Cadorna.
Il 9 giugno, a Sagrado, gli italiani si scontrano con gli austriaci mettendo in pratica la strategia del “vincere significa avanzare”.  Il luogo è l’Isonzo. Gli italiani gettano un ponte di barche e avanzano, appunto, verso le postazioni austriache, che l’artiglieria tiene sotto tiro.
Poi, il maggiore dà il segnale. I soldati balzano in piedi gridando “Savoia” e corrono. Gli austriaci aprono il fuoco. Il ponte viene distrutto. Gli italiani innestano le baionette e avanzano. Gli austriaci gettano le bombe a mano. In una sola giornata, muoiono cinquecento italiani, solo a Sagrado. Nel primo mese di guerra il nostro esercito ne perse ventimila. Le perdite austriache si attestarono attorno ai cinquemila uomini.
Gli assalti alla Cadorna continueranno a lungo. Abbiamo notizia di quello del 1 luglio, sul San Michele, grazie al sottotenente della Brigata Pisa, Renato Di Stolfo. Avviene così.
Alle sei del mattino i soldati attraversano la collina sotto un temporale che rende la mantellina di Di Stolfo talmente pesante che deve toglierla. Dovrebbe guidare il plotone impugnando una pistola: non ne ha, e usa la sua sciabola (priva di filo). A mezzogiorno sono pronti all’assalto. Gli uomini poggiano un ginocchio a terra, gli ufficiali sono in piedi, con le sciabole. Squilla una tromba. I soldati urlano “Savoia!”. La banda suona la Marcia reale. I soldati attaccano il pendio. Il fuoco austriaco è invisibile e  implacabile. Li falcia quasi tutti. La musica cessa. Gli ufficiali cadono sotto le mitragliatrici, coprono i corpi dei soldati che strisciano in cerca di riparo. E’ il disastro.
Commenta Di Stolfo:
“In un pulviscolo di morte e di gloria, in pochi istanti la epica e classica battaglia alla garibaldina è stroncata e relegata nei recessi della Storia!”.
La realtà che si offre ai poeti e ai cuori ardenti di gloria è completamente diversa da quella che era stata promessa.
Alla fine di ottobre  questa consapevolezza è già forte all’interno dell’esercito. Ma nessuno può tirarsi indietro.
***
Sognavano. A dispetto dei fatti, che trapelavano a malapena.
La Seconda battaglia dell’Isonzo dura dal 18 luglio al 3 agosto 1915. I morti italiani sono 42.ooo. Nella Prima battaglia erano caduti in 15.000.
Eppure, sognavano.
Non tutti, certo. Per esempio, i sogni di Giani Stuparich sono svaniti presto, negli ultimi giorni di luglio. Le trincee, fatte di pietra, ardono come fuoco. Il Carso, che secondo una leggenda era stato maledetto da Dio in persona, brilla e fiammeggia, scrive un ufficiale austriaco, “come se i raggi solari cadessero su milioni di specchi”. Le tende per ripararsi sono fatte di pezze di canapa. Riescono ad allontanare – poco – il calore del sole, ma non il puzzo dei cadaveri insepolti e delle feci.
Gli italiani sono sotto il tiro incessante delle bombe austriache. “Hanno un effetto orrendo. Un povero alpino ha perso le gambe e ha avuto le viscere lacerate”, scrive un ufficiale. I morti, noterà ancora, si ammucchiano gli uni sugli altri durante i vani tentativi di tagliare i fili dei reticolati nemici. Del resto, gli austriaci dichiarano che sparare agli italiani è più facile che sparare ai bersagli durante gli esercizi di tiro.
Per il terrore, gli ufficiali alterano le statistiche. Il generale Reisoli della Seconda armata ordina che le perdite non vengano riferite alle autorità superiori. Salandra e Sonnino iniziano a capire che qualcosa non funziona. Ma non Cadorna.
Nè i volontari “asbugici”, che vivevano in Austria-Ungheria pur essendo italiani: istruiti, colti, preparati a differenza dei soldati che in guerra vennero trascinati. E desiderosi di morte.
Dal diario di Marco Prister:
“Ora entro in azione, forse tra poco sarò morto! Addio tutti! W l’Italia! Ricevo l’ordine di avanzare. Sono pronto. Si compia il mio destino! Evviva l’Italia”.
Dalla lettera di Antonio Bergamas alla madre:
“Quando tu riceverai questa mia, io non sarò più….Forse tu non comprenderai questo, non potrai capire come non essendo io costretto io sia andato a morire sui campi di battaglia”.
Oltre trecento volontari triestini  vennero falciati in guerra: divennero figure di culto quando Mussolini dedicò loro strade, piazze e scuole.
Il più famoso di loro è Scipio Slataper.
A diciannove anni, dichiarava di essere nato per “dar forma all’argilla”. Si trasferì da Trieste a Firenze, divenne collaboratore de La Voce, si invaghì di una ragazza, Anna Pulitzer, via lettera.  La trasformò in una Musa Ideale. Anna non resse al ruolo e si sparò di fronte a uno specchio.  Slataper sposa un’altra donna e costringe una terza innamorata, Elody Oblath, a una convivenza a tre. Si arruola volontario a maggio. Il 3 dicembre viene ucciso. Aveva 27 anni.
Elody commenterà:
“Credevamo di sapere gli orrori della guerra e in realtà non sapevamo che la nostra esaltazione”.
Ma la morte di Slataper non basterà per spezzare il fanatismo. Non subito. Il fanatismo sarà un soffio sulle trincee: incomprensibile per la stragrande maggioranza dei soldati che sapevano di essere stati mandati a morire per qualcosa che rimaneva un’enigma.
***
Il Monte Sei Busi sorge fra il San Michele e Monfalcone. Non è un monte: è un costone carsico che sale e scende.
Fine ottobre 1915. Gli italiani hanno l’ordine di conquistare la trincea nemica sul Sei Busi.
Intorno a loro, le cose sono peggiorate.
Dal 9 dello stesso mese sono state sospese le licenze.
Tutti gli ufficiali che esitavano nel mandare al morire i propri soldati venivano rimpiazzati.
L’ordine era: “Sferrate un attacco con qualunque mezzo e la vittoria sarà nostra”.
Per non morire, i soldati si automutilavano. Hemingway lo racconta in Addio alle armi: ascessi, colpi di pistola sparati nei piedi, bruciature, ferite da taglio alle mani e ai piedi. Se individuata, l’automutilazione veniva punita con la fucilazione.
Gli ufficiali non sapevano come mostrare ai superiori che avevano bisogno di più uomini se non con un mezzo: “Non capite che ho bisogno di caduti, molti più caduti, se vogliamo mostrare agli alti papaveri non può avere successo?”, urlò un comandante di Corpo d’Armata.
E gli uomini delle trincee aspettavano, dunque, e aspettavano la morte. Giuseppe Ungaretti usò quest’espressione: “Andavano in silenzio, mitemente, come vanno gli italiani, morendo con un sorriso”.
Altri poeti e scrittori raccontano come quella mitezza fosse, molto spesso, terrore. Emilio Lussu, ufficiale della Brigata Sassari, racconta in Un anno sull’Altipiano come l’attesa dell’assalto, il conto alla rovescia, fosse il momento più tremendo di tutta la guerra. Dopo una doppia razione di grappa o cognac, gli uomini dovevano aspettare che l’ufficiale urlasse “Savoia!” prima di gettarsi sotto il fuoco austriaco. Chi parlava veniva fucilato. Lussu ricorda in poche, nette righe, i due compagni che poggiano la canna del fucile l’uno sotto la gola dell’altro e all’urlo “Savoia” premono contemporaneamente il grilletto.
Intanto, i poeti cantavano. Corrado Govoni celebrava l’ardore della distruzione in Guerra!
“Devasta sconquassa distruggi,
passa, passa, o bellissimo flagello umano,
sii peste terremoto ed uragano”.
La nostra vecchia conoscenza, D’Annunzio, aveva già celebrato nella Laus vitae lo stupro di guerra:
“Il grembo delle madri noi scruteremo col fuoco, e non rimarranno germi nelle piaghe fumanti”.
Non tutti certo. Ma per un Clemente Rebora che, disperato, scrive Viatico, dedicato alla lunga, straziante morte di un compagno (Pietà di noi rimasti/A rantolarci e non ha fine l’ora/Affretta l’agonia), infiammano gli animi i versi di tal Vittorio locchi:
“tutte le baionette
si piegano come bandiere
sugli altari dei monti,
su i santi carnai dei nostri morti”.
Sul costone dei Sei Busi venne costruito il sacrario di Redipuglia.
***
Il 28 luglio 1915 Cadorna dichiara reato militare denigrare le operazioni di guerra, vilipendere le forze armate, diffondere notizie “diverse da quelle portate a conoscenza del pubblico”, “atte a turbare la pubblica tranquillità e a deprimere lo spirito pubblico”.
Le punizioni: fino a  quattro anni per aver dichiarato che gli articoli sui giornali erano bugiardi.
Di fatto, lo erano.
Dalle corrispondenze di guerra: “Qui la vita è sana, la guerra è mite. Qui anche la morte è bella”. Luigi Barzini, star del Corriere della Sera, sugli ufficiali che escono dai colloqui con Cadorna: “Ricompaiono trasfigurati, armati di una non so quale forza nuova, con una certezza negli occhi, con una fermezza serena nel viso, la fronte alta e come schiarita…Le loro preoccupazioni sono dissipate, i loro dubbi sono svaniti, si sente che ognuno di loro ha trovato oltre quella porta magica la soluzione del suo problema”.
Qualcuno, comunque,  si ribellava. Molti vennero fucilati.
Nel luglio 1917 i soldati della Brigata Catanzaro si rivoltarono al grido di “morte a D’Annunzio”. In ventotto, quasi tutti contadini meridionali,  vennero messi al muro. D’Annunzio in persona si affrettò ad assistere all’esecuzione.  Annotò del caldo e delle allodole che cantavano. Descrisse la scena.  I ventotto pregarono. Poi, il plotone sparò. D’Annunzio continuò a prendere  appunti: “Sotto le foglie vidi i berretti, gli elmetti, i brani delle cervella coperti dalle mosche a nuvoli, le righe del sangue già risecco fra gleba e gleba”.
Il 1917 fu l’anno delle decimazioni: pochi mesi prima, nove uomini della Brigata Ravenna vennero estratti a sorte per l’esecuzione dopo che il loro reggimento aveva protestato per l’annullamento delle licenze.
Scrisse Ugo Ojetti alla moglie: “Se non fanno dieci o dodici fucilazioni clamorose di pavidi e di fuggiaschi, non si ristabilisce l’equilibrio. I soldati son come cavalli: sentono il cavaliere che dice avanti, ma pensano indietro: e non saltano”.
Qualcuno di quei cavalli riuscì a gridare “Viva l’Italia” mentre i suoi compagni facevano fuoco.
***

Già, i barbari. Ovvero i “germanici, austriaci, bulgari e turchi, purtroppo anche i luridi turchi” contro cui l’esercito italiano era chiamato a battersi.
Cosa fanno i barbari? Uccidono gli uomini. Stuprano le donne.
La propaganda italiana si basa su immagini molto semplici e molto note: nei giornalini di trincea il “barbaro” è rappresentato come violentatore di italiane. Le quali venivano disegnate nel gesto di lanciarsi dalla finestra piuttosto che cedere al disonore. “Soldato d’Italia proteggile: se cedi, anche la tua donna subirà l’oltraggio”, era l’invito.
Spesso a essere oltraggiata era l’Italia stessa, di bianco vestita. Lo scrittore Robert Musil osservò con stupore le cartoline e le immagini interventiste che rappresentavano l’Italia con certo languido erotismo: “una ragazza giovane, tenera, un po’ triste”.  L’Italia era la fidanzata ideale di chi si trovava al fronte.
Le cartoline erano supportate dalla scuola. Dopo Caporetto, una maestra elementare di Mantova aveva imposto agli alunni della sua scuola questo tema: “Perchè l’Italia vinca, dobbiamo resistere fino alla fine”. I ragazzi  erano in gran parte figli di contadini e criticarono il titolo. Uno di loro scrisse: gli ufficiali (“quelli che danno gli ordini”) “non sono ancora stanchi di uccidere tanta povera gente che non ha colpa; per fare la guerra giusta bisognerebbe fare così: 1) mandare tutti quelli che vogliono la guerra perchè già che la vogliono devono farla loro; 2) mandare avanti i ricchi che danno fondi al prestito nazionale di guerra; 3) mandare a casa i poveri. Così sarebbe una guerra giusta!”.
La maestra denunciò il bambino ai carabinieri.
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Il fiume è il Timavo, la data il 28 maggio 1917. L’episodio è minimo rispetto all’ecatombe dei mesi precedenti e a quella che verrà: ma rende bene, credo, l’idea di cosa abbia significato la parola propaganda. Simboli che diventano fatti. Fatti che diventano parole. Parole poetiche.
Il battaglione “Lupi di Toscana” deve attaversare il Timavo su una passarella di legno  e conquistare la Quota 28, proseguire fino a Duino e issare una gigantesca bandiera italiana sugli spalti del castello: la bandiera avrebbe risollevato il morale degli italiani di Trieste e spaventato gli austriaci.
Una pazzia: anche perchè difficilmente i venti chilometri di distanza fra Duino e Trieste avrebbero consentito ai triestini di vedere alcunchè. Ma era il simbolo a contare.
A concepire il piano fu infatti Gabriele D’Annunzio (è l’ultima volta che appare in questi post, ma la storia vale la pena di essere raccontata), aiutante del comandante del battaglione, il maggiore Randaccio. Il quale esitava, prendeva tempo, dubitava della bontà e necessità della missione.
“Non sembra avere troppa fede. Io lo sostengo”, scrive D’Annunzio.
Fa di più: si precipita dal duca d’Aosta per essere autorizzato a procedere comunque, Randaccio o non Randaccio.
L’operazione ha dunque inizio: D’Annunzio porta la bandiera, i soldati avanzano verso la riva del fiume, un gruppo attraversa. Ma i mitraglieri austriaci, nascosti sul fianco della collina, aprono il fuoco. Quaranta italiani legano camicie bianche alle baionette, per non essere macellati. Randaccio ordina la ritirata, viene ferito. D’Annunzio, che era rimasto sull’altra riva, posa la testa sanguinante del comandante sulla bandiera e guarda con disgusto i “rinnegati” che si sono arresi dall’altra parte del fiume e sono stati fatti prigionieri. Fa di più: ordina ai soldati di far fuoco sui compagni italiani. “La battaglia – scrive nel suo diario – lascia nell’uomo sensuale una malinconia simile a quella che segue il grande piacere”.
Randaccio assunse subito lo status di eroe. Mentre agonizzava, supplicò D’Annunzio di dargli la capsula di veleno che il poeta portava con sè. D’Annunzio rifiutò. Motivò il suo triplice “no” nell’orazione funebre che tenne ad Aquileia sulla tomba di Randaccio: “Era necessario che soffrisse affinchè la sua vita potesse diventare poesia nell’immortalità della morte”.
Nei bollettini ufficiali la Quota 28 venne data per conquistata, a dispetto della realtà. Il discorso di D’Annunzio venne stampato e distribuito ai soldati per volontà del Duca d’Aosta.
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Non voglio morire, sono un vigliacco! (Oreste, La Grande Guerra)
1959. il premiatissimo film La Grande Guerra di Mario Monicelli viene presentato a Roma. Uno spettatore si alza e se ne va, indignato. Si chiama Carlo Emilio Gadda.
Era in quella guerra. Era sul fronte, come sottotenente del 5° Reggimento Alpini. E contestò, di Monicelli, la rappresentazione dell’esercito italiano come impreparato. Eppure, Monicelli fu fra i primi a dare voce alle migliaia di soldati che, per ammissione degli stessi ufficiali, non avevano potuto esprimere la propria indifferenza nei confronti della guerra. Anzi, la loro ignoranza venne santificata come “buon cuore” dell’italiano.
Come innocenza.
Il fascismo, del resto, aveva avuto buon gioco nel creare un culto massiccio di quel buon cuore e di quel presunto, innato eroismo. Aveva edificato sacrari e boschi del ricordo – lo racconterò domani – destinati a diffondere la retorica del sacrificio.
Eppure, Gadda si crucciò. Forse perchè l’aspetto comico del film lo aveva indignato. Forse perchè non aveva mantenuto la promessa fatta a se stesso. C’era un progetto che prendeva forma in lui fin dal 1919, quando voleva spezzare “il cerchio del silenzio sulla realtà della guerra” per impedire che accadesse ancora. Non lo realizzò.
Lo realizzò, invece,  Hemingway, che con spietata crudezza raccontò la verità in Addio alle armi. La guerra era indifferente a molti soldati.  Ma, come scrive giustamente lo storico Mark Thompson, il rimpianto di quella inesistente innocenza era, per gli intellettuali che avevano descritto la guerra, un rimpianto di altro genere:
“non sarebbe mai più accaduto che un così gran numero di contadini e operai coscritti si sacrificassero in nome di una cieca fiducia nei loro superiori sociali e intellettuali”.
Il film di Monicelli era arrivato tardi e tardi erano arrivate le riflessioni di Hemingway:
“Parole astratte come gloria, onore, coraggio o reliquia erano oscene accanto ai nomi concreti dei villaggi, ai numeri delle strade, ai nomi dei fiumi, ai numeri dei reggimenti e delle date”.
Altri sacrifici sarebbero stati richiesti. Altra propaganda si sarebbe messa all’opera. Altri monumenti funebri si sarebbero edificati.
***
Come avrebbe detto De André, dormivano su una collina. Le loro tombe erano decorate con gli oggetti che venivano dai campi di battaglia: un piccone per chi era stato, prima che soldato, un contadino, un’elica per un aviatore, filo spinato per un fante.
Non bastavano. Non a Mussolini, che della retorica della guerra aveva necessità. “Vi porto l’Italia di Vittorio Veneto”, aveva detto al re il 30 ottobre 1922, entrando al Quirinale. E subito dopo si era recato a omaggiare la tomba del Milite Ignoto.  La tumulazione di un soldato italiano sconosciuto era stata decisa dal colonnello Giulio Duhuet, fiero avversario di Cadorna. La scelta della salma fu un capolavoro di sadismo: venne chiamata a farla Maria Bergamas, madre del volontario Antonio, che aveva disertato dall’esercito austriaco per unirsi a quello italiano ed era caduto in combattimento senza che il suo corpo fosse ritrovato. Maria venne condotta ad Aquileia e posta di fronte a undici bare allineate, e dopo essere passata davanti alle prime, non riuscì a proseguire nella ricognizione e gridando il nome del figlio si accasciò al suolo davanti a una bara, che venne scelta. La bara  fu collocata sull’affusto di un cannone e, accompagnata da reduci decorati al valore e più volte feriti, fu deposta in un carro ferroviario appositamente disegnato.
Il 4 novembre 1921 venne inumata a piazza Venezia. I manifesti socialisti vennero strappati della polizia: sostenevano che se il Milite avesse potuto risorgere dalla tomba, avrebbe maledetto la guerra.
La stessa cosa avrebbero fatto, probabilmente, i morti che dormivano nei cimiteri sul Carso e che vennero sbrigativamente tolti dalle loro tombe nel 1938 per essere trasportati a Redipuglia. L’architetto Giovanni Greppi e lo scultore Giannino Castiglioni vi avevano realizzato il più grande sacrario militario italiano. Avevano scelto il versante occidentale del Monte Sei Busi, proprio quello dove si erano svolte le sanguinose battaglie del 1915 e 1916.  E’ una gradinata, come un costone carsico, ma è anche una macabra rappresentazione di uno  schieramento militare: il duca d’Aosta giace ai piedi della scalinata, sotto un blocco di porfido di 75 tonnellate. Sopra di lui, le ossa di oltre centomila soldati: 39.857 sono ammucchiate dentro ventidue gradoni di 140 metri. In lettere gigantesche, su ognuno dei gradoni, è scritta la parola PRESENTE.  Nell’ultimo gradone, in due grandi tombe comuni ai lati della cappella votiva, riposano le salme di 60.330 caduti ignoti.
Presente.
Perchè la leggenda vuole (ricordate Il Signore degli Anelli?) che in ogni momento i soldati morti possano essere chiamati a combattere di nuovo. Qualcuno, nell’altopiano di Asiago, giurò di averli visti, i soldati italiani che marciavano in silenzio, nella notte.
Due anni dopo, un grande filosofo come Walter Benjamin avrebbe scritto: “Se sarà il nemico a vincere, neppure i morti saranno al sicuro da lui”.
Era il 1940: il 25 settembre di quell’anno Benjamin si uccise ingerendo morfina, per non cadere nelle mani dei nazisti.

8 pensieri su “CERTI SCRITTORI. SUL 1915

  1. Ottima antologia. Aggiungerei come antidoto Hašek e Sc’veik, poi qualche citazione da Emilio Lussu (ce ne sarebbero così tante), il “Mortorio Boeri” e “La licenza” di Fenoglio e un accenno alle interminabili liste di nomi sui monumenti ai caduti che trovate nella piazza di ogni paese d’Italia. Nei miei giri nel Piemonte rurale, tra i paesi delle colline e delle vallate alpine dove più è marcata la rarefazione della presenza umana rispetto agli spazi della natura, mi sgomenta ogni volta l’idea di questa radicale cancellazione della gioventù in paesi così piccoli. Cosa poteva essere la vità in quelle comunità dopo una simile strage, anche pensando all’ulteriore strage causata dopo la guerra dall’epidemia della febbre spagnola?
    .
    Ma visto che sono quella viperetta del web che sono, ritorno anche su queste frasi:
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    “Beati quelli che hanno vent’anni, una mente casta, un corpo temprato, una madre animosa.
    Beati quelli che, aspettando e confidando, non dissiparono la loro forza ma la custodirono nella disciplina del guerriero.
    Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perchè saranno saziati.
    .
    Ditemi un po’, questo allucinato, retorico elogio dell’agitazione motoria giovanile fine a se stessa non vi pare riecheggi in certi più recenti elogi dell’inseguimento di evanescenti e dubbie Euridici?

  2. Mio nonno, che ha combattuto durante la Grande guerra sul Piave e sul Tagliamento (sono gli unici luoghi che conosciamo), ha compiuto come geniere (quindi in primissima linea), come abbiamo con fatica e parzialmente scoperto, atti configurabili come “eroismo”, è stato anche proposto per un’onoreficenza al valore (che ha rifiutato). Eppure della guerra non ha mai detto una sola parola. Quello che abbiamo saputo, lo abbiamo saputo da altri (ogni tanto compariva un vecchio commilitone di passaggio). Ci ha sempre detto, lui calabrese che fu mandato in Friuli per il servizio di leva che si allungò nei 4 anni di guerra, che i friulani sono la gente più bella del mondo, mi ha cullato da bambino cantandomi canzoni in friulano di cui non capivo una parola, ma della guerra mai una parola (eppure era monarchico, non certo antimilitarista), mai un racconto. Non sappiamo neanche in quale settore delle Alpi abbia combattuto, prima di Caporetto. Negli anni, apprendendo di tanti altri nonni che la guerra l’hanno fatta, ma non l’hanno voluta tramandare, credo di aver capito il perché.

  3. Sulla prima guerra mondiale, retoriche, parole, scrittura, per me c’è un libro eccezionale, “La bellezza e l’orrore” di Peter Englund. L’autore (storico e giornalista) segue negli anni del conflitto i destini di diciannove persone realmente esistite che hanno vissuto in prima persona la guerra, come militari nei vari eserciti o ad altro titolo, e ne hanno lasciato una testimonianza scritta: lettere, diari, libri… C’è Musil, allora tenente della riserva austriaca sul fronte italiano, per esempio, ma anche una scolara tedesca, un’infermiera russa, un chirurgo da campo inglese, un ufficiale dell’essercito ottomano, un marianio, un funzionario, un alpino, un’autista… Englund contestualizza le testimonianze scritte dei diciannove, sparsi sui fronti di mezzo mondo, raccordando e riempiendo i buchi, nel tentativo (per me magistralmente riuscito) di raccontare, con un equilibrio pazzesco tra accuratezza storica e sintesi, “non cosa fu, ma come fu” la prima guerra mondiale, cercando di far capire come fu vissuta insomma. Peraltro è anche un libro concretissimo, perché per capire come si viveva la quotidianità della guerra, è fondamentale raccontare i titoli dei giornali o le parole delle canzoni ma anche che armi e attrezzature si usavano, cosa si mangiava e cosa non si mangiava. Dall’introduzione: “Qui troverete dunque non tanto fattori quanto persone, non tanto processi quanto impressioni, esperienze, atmosfere, perché quello che ho cercato di ricostruire non è una successione di eventi ma un universo emotivo”.

  4. “Se considerato è come crimine l’incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine…”
    #iostocongabri

  5. per Gadda (credo) il periodo della guerra fu anche quello – paradossalmente – in cui si sentì più libero e vivo. Libero dalle pastoie familiari, e vivo perché bisognava esserlo per non morire.
    Forse per questo non ha amato La Grande Guerra, e peccato che non sia iurscito a raccontarla lui, se non nei diari che comunque restano.

  6. L’impatto degli esplosivi, dei primi bombardamenti aerei, delle trincee e delle nuove ferite del corpo e dell’anima sono in quasi tutta la diaristica della grande guerra. E’ verissimo che se giri i cimiteri dei paesini vedi tanti nomi – e ti chiedi ma quanti ce n’erano in questo paese?!
    Mah, forse uno scrittore avrebbe potuto capire cosa stava succedendo, se dentro avesse avuto posto per qualcos’altro oltre se stesso.
    Che belli questi scritti, grazie!

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