LA SOLITUDINE DEGLI STATISTICI E QUELLI CHE SANNO E NON HANNO LE PROVE – 5 E FINE

Ultima e gaudiosa puntata dell’intervento di Maurizio Cassi, che ringrazio di cuore per l’analisi e il tempo impiegato a scriverla. A futura memoria, e alla prossima indagine statistica.
A questo punto, avendo esaminato sia i problemi che (in piccolissima parte) i possibili rimedi, non resta che tentare di capire il perché di certi comportamenti. E magari le conseguenze, che in moltissimi casi sono politiche. Cerchiamo quindi di rispondere alla domanda: che cos’è che spinge così tante persone a ribellarsi (in certi casi furiosamente) a un set di dati, a uno studio che si appoggia a una rilevazione statistica?
Scarterei a priori la pura e semplice “innumeracy”: quella, semmai, è una delle modalità e delle incoerenze che caratterizzano la narrazione di queste persone, ma non certo la causa. Non ci si accanisce a difendere una tesi che nasce semplicemente da un proprio errore di lettura, ma al limite ci si sfila dalla discussione cercando di non dare troppo nell’occhio. Ma qui vorremmo andare oltre, cercare di comprendere le motivazioni di chi si propone, scientemente, di usare i personaggi di una narrazione (i dati) per costruire una narrazione alternativa e, molto spesso, divergente da quella proposta in prima battuta da altri soggetti (che, non di rado, sono o sono percepiti come “istituzionali”).
In primissima approssimazione, le ipotesi potrebbero essere tre (suscettibili di essere ampliate, ovviamente, o ulteriormente dettagliate). Le elenchiamo in ordine di complessità:

  • un  problema individuale, benché molto diffuso: l’incapacità di guardare oltre il proprio mondo, ovvero il rimirarsi l’ombelico (sono manager, leggo e i miei colleghi leggono, dunque i manager leggono e i dati devono per forza essere sbagliati/taroccati/male interpretati).
  • Il bisogno di difendere il proprio gruppo di appartenenza, che se vogliamo è un problema imparentato con quello del punto precedente:  magari sono anche capace di spingere lo sguardo oltre i confini del mio ambiente e chissà, può darsi che io arrivi anche a criticarlo; ma lo posso fare io che ne faccio parte, non certo voi, estranei. Si tratta, semplicemente, di corporativismo (se la difesa riguarda un gruppo sociale) o di provincialismo/sciovinismo (se l’ambito di riferimento è nazionale/territoriale).
  • La mancanza di fiducia (a volte anche giustificata) verso qualsivoglia forma di autorevolezza.

Su queste tematiche si potrebbero versare (e sono stati versati) fiumi di inchiostro e probabilmente un sociologo o uno psicologo avrebbero più strumenti di uno statistico per fare affermazioni sensate in proposito. Però.
Però ad alcuni di questi atteggiamenti uno statistico è esposto in modo intenso e per talmente tanto tempo da aver avuto modo di farci qualche riflessione, che forse vale la pena condividere.
Il rimirarsi l’ombelico, ad esempio, è una chiara forma di dissonanza cognitiva, rafforzata probabilmente dal prevalere degli atteggiamenti individualistici che hanno caratterizzato gli ultimi tre decenni. Le persone, teoricamente interconnesse e permanentemente in contatto attraverso la rete, gli smartphone, il networking, in realtà tendono a frequentare ambienti (sia reali che virtuali) fatti di individui che si assomigliano tra loro, e soprattutto che assomigliano a loro. Di questi ambienti si creano un’immagine; non necessariamente positiva, ma comunque funzionale alla narrazione che ritengono più adeguata alla propria vicenda esistenziale: un mondo atto a giustificare i propri insuccessi e a glorificare i successi, e magari quel piccolo angolo di mondo è davvero fatto in quel modo. Il problema sorge quando, abituati a vedere solo quell’angolino, finiamo per perdere del tutto la capacità di immaginare le miriadi di altri angolini che compongono il Mondo, quello grande, e pretendiamo che quel macrocosmo sia in tutto e per tutto rappresentabile dal proprio microcosmo. Tra gli esempi che abbiamo elencato, qui il più calzante è probabilmente quello del/della manager che si ribella ai dati che attestano lo scarso amore per la lettura tra i suoi colleghi: io leggo, i colleghi che conosco leggono, ergo i dati sono sbagliati. Non lo/la sfiora l’idea che possano esistere in Italia migliaia di manager che non leggono davvero e che lui/lei non conosce a) perché non può conoscerli tutti e b) perché i suoi conoscenti possono essere in qualche modo selezionati da situazioni contingenti ,come l’operare in un settore che avvicina alla cultura (immagino che ci siano più lettori tra i dirigenti di gallerie d’arte che tra quelli degli estrattori di petrolio).
Questo atteggiamento, che deriva essenzialmente dal godere del calore di un bozzolo protettivo, sconfina facilmente nella difesa della propria tribù, che è la seconda delle cause ipotizzate per l’idiosincrasia ai dati: nel bozzolo si sta comodi, e quindi bisogna difenderlo. Certo, in questo secondo caso si presenta (anche se non sempre) un problema di onestà intellettuale: mentre il contemplatore di ombelico potrebbe davvero, in buona fede, essere convinto che il Mondo non sia poi così diverso dal suo mondo, il difensore pavloviano del proprio bozzolo, che morde per riflesso condizionato ogni volta che sente dire qualcosa di sgradevole riguardo al proprio microcosmo, di solito lo sa. Certo, questo non vuol dire che la sua difesa non possa essere sincera; tuttavia, quando sei sommerso di dati che ti gridano che la tua narrazione esistenziale presenta delle falle e tu continui a negarle, beh, qualche sospetto sulla tua buona fede o sul tuo subconscio sorge spontaneo.  La capacità di raziocinio, però, andrebbe immediatamente risvegliata, pena una progressiva deriva (tua e della tribù) verso una malinconica irrilevanza, perché è questo il destino che aspetta chi non prende coscienza dei propri problemi e non vi pone rimedio. Oggi, con i social network, le occasioni di appartenenza a una o più tribù si sono moltiplicate e, proporzionalmente, è cresciuto l’agonismo a difesa delle stesse. Ma questo non è più un problema di dati e di numeri, quanto piuttosto un problema identitario su cui, davvero, dovrebbero pronunciarsi figure diverse da quella dello statistico.
Queste due spiegazioni hanno diverse implicazioni politiche. La prima è condizione forse non necessaria, ma probabilmente sufficiente per una collettività fatta di individui e di famiglie, in cui non esiste società, come amava dire Margaret Thatcher: esiste il nostro piccolo mondo, composto da noi e dai nostri cari, e oltre non c’è niente se non altre miriadi di piccoli mondi, tutti uguali al mio; quindi, se faccio gli interessi miei e del mio micromondo, sto facendo anche gli interessi della collettività, che non esiste se non come somma di individui e famiglie. Fine della Politica, e forse anche della Storia. La seconda spiegazione, quella della difesa aggressiva del proprio micromondo, rappresenta un innalzamento di livello di questo stesso paradigma: non mi interessa più sapere se gli altri piccoli mondi sono o no uguali al mio; so che il mio va difeso, giusto o sbagliato che sia. Subentra quindi una chiusura.
Ma, in termini di implicazioni politiche, quella che mi sembra più interessante è la terza spiegazione. Le prime due, infatti, possono ragionevolmente essere ricondotte nell’alveo di una cultura individualista che, come detto sopra, è egemone nei paesi occidentali almeno dai primi anni ’80; diversamente, la terza porta in primo piano alcuni elementi forse non esclusivi del panorama politico dei nostri anni, ma che di certo lo caratterizzano fortemente rispetto al passato.
Decenni di amministrazione pubblica deludente, che hanno generato mostri come la corruzione, lo stragismo di Stato, la cospirazione di apparati statali, la complicità politica con la criminalità organizzata e mille altre nefandezzed, danno certamente ragione della profonda disaffezione e della diffidenza di cui ormai è intriso il rapporto tra i cittadini e le istituzioni. Un intellettuale come Pasolini poteva gridare “Io so, ma non ho le prove”, e cogliere nel segno. Il fatto è che Pasolini aveva il cervello e l’intuito di Pasolini, cosa non comune; di solito, oggi, a fare affermazioni di questo genere sono purtroppo persone infinitamente meno informate e meno formate di lui, che pretendono di sapere in quanto rovistatori di spazzatura in rete. Le bufale viaggiano da un utente all’altro alla velocità della luce, spesso alimentandosi di ulteriori menzogne a ogni passaggio; la diffidenza, in questo modo, si è estesa a macchia d’olio e investe ormai anche gli organi tecnici dello Stato, le agenzie lontane dalla sfera politica: l’Istituto Superiore di Sanità, per esempio, dipinto da molti come una specie di quinta colonna delle multinazionali farmaceutiche; l’intero Sistema Sanitario Nazionale (SSN), che ha “chiaramente” come scopo quello di eliminarci il prima possibile per far risparmiare lo Stato sulle pensioni; e l’ISTAT, di cui abbiamo già parlato, che “ovviamente” produce dati falsi a uso e consumo dei politici: falsa la rilevazione dell’inflazione, falso il calcolo della speranza di vita che ci colloca, insieme a pochi altri popoli, ai primi posti nel mondo (84 anni le donne, quasi 80 gli uomini: non sarà proprio da buttare, un sistema sanitario che produce questi risultati); falsi, è chiaro, anche i dati sugli italiani che non leggono che abbiamo commentato prima (anche se qui non si capisce bene il perché della falsificazione). Ormai non si tratta più nemmeno di diffidenza, ma di vero e proprio livore: la retorica della Kasta, con i suoi spillover mefitici, ha amplificato in moltissimi cittadini una sensazione di sfiducia che ormai tende alla paranoia. E’ colpevole, in pratica, chiunque non sia te: partendo da un nucleo di verità (abusi e privilegi di molti politici), si giunge ad additare come privilegiato chiunque abbia qualcosa che non si possiede. Sei un privilegiato se guadagni bene, indipendentemente da come tu ti sei procurato quel guadagno; lo sei se hai un lavoro statale, in quanto parassita e nullafacente per definizione;  se sei un intellettuale, perché di certo servi qualche potere e pretendi di dire agli altri come comportarsi; se semplicemente hai un lavoro, perché non provi la sofferenza di tutti gli altri che non ce l’hanno. E’ una retorica tutta al ribasso, in cui non si cerca la propria elevazione, ma il trascinamento nel fango di chi sta anche solo un gradino più su. Una società dell’invidia, del risentimento e del livore. Sembra esagerato arrivare a questo partendo semplicemente dalla constatazione che la gente non crede ai dati ISTAT sulla lettura, lo so; ma il rifiuto dei dati è paradigmatico, perché è esattamente questa la via che consente alle persone di costruire complotti e castelli in aria di ogni genere: se si prestasse fede ai dati, alle informazioni pubbliche, ci sarebbero dei paletti che impedirebbero alla fantasia di decollare; spogliarli a priori di qualsiasi credibilità è la precondizione di ogni teoria del complotto, che è nient’altro che una storia verosimile ma non vera, in quanto non suffragata da dati (non parlo dei soli dati numerici, ovviamente). Le favole e le autentiche menzogne che circolano liberamente in rete (e non solo) nascono da un meccanismo del genere: se un narratore ha bisogno della sospensione dell’incredulità da parte del lettore per tirarlo dentro la sua storia, lo storyteller/blogger fabbricante di bufale ha invece bisogno della sospensione della fiducia: quella nelle istituzioni. Che invece andrebbe preservata e tutelata come uno dei beni pubblici più importanti. Non si parla di dare una fiducia acritica, ma oggi abbiamo addirittura la sfiducia acritica: e quindi, che si sia creduloni o diffidenti, la facoltà critica non è esercitata. Da molti, troppi cittadini. In questo ha ovviamente la sua parte la scarsa alfabetizzazione di cui abbiamo parlato, che agli occhi di molti rende l’universo della rete credibile secondo la stessa logica per cui i nostri nonni dicevano “l’ha detto la TV”: blog improbabili, siti sedicenti “di controinformazione” o addirittura di debunking hanno buon gioco, se appena riescono a mettere su una grafica accattivante e a presentarsi in modo da richiamare vagamente l’immagine di quello che una volta era il giornalismo d’inchiesta. E’ un mondo piatto, dove un sito vale l’altro agli occhi di chi non sa valutare criticamente le informazioni, e produce solo un fastidiosissimo rumore di fondo che assomiglia a una cacofonia. Che rischia di essere letale, però, perché molti la scambiano per musica e le conferiscono un senso che di suo non avrebbe: quello del proprio risentimento.
C’è un’ultima considerazione politica che dovremmo fare prima di concludere questa (lunghissima) tirata, ed è la disintegrazione della dimensione collettiva che consegue alla demolizione sistematica della fiducia negli organismi tecnici dello Stato (secondaria, peraltro, alla sfiducia collettiva nella politica e nelle istituzioni).
A cosa servono organi tecnici come lo stesso ISTAT, che producono informazione? A tante cose, tra le quali spicca la funzione di creare un substrato di informazioni condivise al quale ancorare la discussione, anche politica, e le decisioni (ovviamente, stiamo parlando di ipotetiche istituzioni che funzionano bene: niente ironia, per favore). Come devo gestire il mio sistema sanitario? Se ho una popolazione che invecchia mi serviranno geriatri, se c’è un boom delle nascite sarà meglio che assuma pediatri. Quali dotazioni devo dare alle mie forze di polizia? Dipende: se ho un grosso problema di criminalità organizzata, dovrò attrezzare infiltrati e contrastare l’inquinamento della società civile e politica; se  il problema è la microcriminalità, dovrò assicurare una adeguata sorveglianza del territorio. E la scuola? Intanto devo sapere bene quanti sono i bambini in età scolare, per dimensionarla in modo opportuno; e poi devo sapere chi sono e che esigenze hanno: ci sono numerosi immigrati che devono imparare l’italiano? O invece la loro presenza non è ancora tale da richiedere un intervento di questo tipo? L’obiezione, spesso formulata in modi poco urbani, è che queste cose si sanno benissimo, basta guardarsi intorno. Ma a) ricadiamo così nella fallacia di credere che il Mondo, o quanto meno il Paese, siano niente più che una riproduzione in scala più grande del nostro piccolo mondo, e b) guardarsi intorno può al massimo consentire di farsi un’idea dei fenomeni, ma non di valutare con precisione la loro dimensione. E invece la precisione è essenziale: devo sapere ESATTAMENTE quanti bambini extracomunitari ho e dove vivono, perché solo così potrò sapere ESATTAMENTE quanti insegnanti di italiani mi servono, e dove. Il numero degli anziani e le loro patologie devono essere note con esattezza, per sapere quali e quante attrezzature mediche comprare, quanti geriatri assumere e dove dislocarli. E così via.
Quando sorge una controversia, quindi, dovremmo affidarci a queste informazioni: l’ISTAT, il Ministero del Lavoro, quello degli Interni per i dati sull’ordine pubblico, quello dell’Istruzione e tutti gli altri produttori istituzionali di informazione.
Squalificare a priori queste fonti significa rendere impossibile la discussione pubblica. Rendere opinabili tutte le decisioni. Ammantare di un alone di malafede qualsiasi provvedimento. In definitiva, avvelenare la vita pubblica e contribuire a un processo di frammentazione della società in monadi individuali sempre più incapaci di rapportarsi le une alle altre: se non esiste informazione condivisa, se non c’è nessuno che possa fornire dati accreditati, se non si riconosce alcun soggetto al servizio di tutte le parti, allora ciascuno può pensare ciò che vuole e tutte le regole della collettività possono essere messe in discussione da chiunque. In pratica, la morte della dimensione collettiva dell’esistenza. C’è chi obietta che questo sarebbe un bene, che le strutture statali sono intrise di violenza e che sarebbe quindi meglio per tutti ridimensionarle. Su questo uno statistico non ha titolo a pronunciarsi con maggiore autorevolezza di qualsiasi altro cittadino. Più modestamente, io mi sono limitato a mostrare le conseguenze che vedo io in questa tendenza. E non sono belle. E’ probabile che ci siano anche vantaggi che io non vedo. In questo caso, dovrà essere qualcun altro a mostrarli a me.

11 pensieri su “LA SOLITUDINE DEGLI STATISTICI E QUELLI CHE SANNO E NON HANNO LE PROVE – 5 E FINE

  1. “anche se qui non si capisce bene il perché della falsificazione”
    È l’Italia che non vuole bene, la stessa che denigra il Paese parlando di camorra e di ndrangheta, la stessa che insinua che la nostra cucina, industria, etc. potrebbe non essere necessariamente la migliore del mondo.

  2. Io mi riconosco in tutti consigli metodologici che lei ha dato.
    Tuttavia, caro Cassi, lei predica bene ma razzola male; prendiamo il caso che lei cita come paradigmatico in quanto “Tra gli esempi che abbiamo elencato, qui il più calzante […] probabilmente quello del/della manager che si ribella ai dati che attestano lo scarso amore per la lettura tra i suoi colleghi.”
    Chi ha dato il roboante dato del 39,1% di manager che non leggono nemmeno un libro all’anno? L’AIE. Allora una persona interessata alla notizia e che segua i suoi consigli che fa? Va sul sito dell’Associazione italiana editori e scopre che tali dati non sono in realtà frutto di una nuova ricerca sullo stato della lettura ma provengono dall’indagine ISTAT pubblicata nel 2014 (indagine sulla lettura). Allora che fa? Va a trovarsi la ricerca dell’Istat e se la legge. Sì, perde un po’ di tempo, è scettico e non si fida di questo dato perché lo ritiene una provocazione da pietra dello scandalo ma sa di dover verificare il proprio pregiudizio. E allora cosa scopre?
    1) In realtà la ricerca non cita i manager, categoria che andrebbe definita, bensì i dirigenti e i professionisti. E qui già si include il mondo con questa generalizzazione, perché si va dallo psicoterapeuta, al politico, da Marchionne all’idraulico. È l’AIE ad aver riassunto a beneficio della stampa, che ha già riassunto il tutto in modo tale da dar in pasto ai
    lettori anti Kasta l’ennesimo argomento contra parlamento.
    2) Piccolo particolare: quando si parla di “lettore che ha letto almeno un libro l’anno” la ricerca Istat assume come criterio generale non, come si continua a credere e a scrivere, l’assenza di lettura totale bensì solo quella extra lavorativa,ed extrascolastica (“dichiarano di aver letto, nei 12 mesi precedenti l’intervista, almeno un libro per motivi non strettamente scolastici o professionali”).
    3)Non solo. L’AIE non riformula arbitrariamente, tramite l’uso del termine manager, solo la parte semantica della ricerca Istat ma mente su tutta la linea. La ricerca Istat a pagina 3, e sempre in relazione alla lettura di almeno un libro all’anno, recita così:
    “Con riferimento alla condizione professionale, si rilevano livelli di lettura superiori alla media tra dirigenti, imprenditori e liberi professionisti (61,1%), direttivi, quadri e impiegati (65,3%) e studenti (59,8%). I più bassi livelli di lettura si registrano tra gli operai (30%), i ritirati dal lavoro (33,8%) e le casalinghe (32%) (Tavola 5 – Allegato A). ”
    Ora, messa in questo modo la faccenda cambia e di molto rispetto alla narrazione che l’editoria dà in pasto ai media. Perciò chi è davvero manager (il che non corrisponde al libero professionista e nemmeno al semplice dirigente o pubblico uffiale), e magari legge più di un libro all’anno (della sua materia o afferente a essa, ma anche fuori da essa come l’Istat afferma e l’AIE ci nega) si risente per motivi RAZIONALI.
    Per questo, caro Cassi, dovrebbe ricordare in merito a ciò che scrive che de te fabula narratur. Più o meno consciamente tutto il suo discorso diviso in 4 puntate si riassume in due considerazioni generali che oltretutto parlano di lei:
    1) Non si ha il tempo, né la voglia, né la competenza per studiare le statistiche a cui si appoggiano le conclusioni che le più disparate fonti interessate propinano mediaticamente al pubblico, e la situazione è pragmaticamente irrisolvibile per il singolo individuo rispetto alla quasi totalità delle informazioni senza uno studio volta per volta.
    2) Si è obbligati a conformarsi al principio di comunità degli esperti, che come criterio teorico va anche bene. Di conseguenza per ogni informazione statistica che lei invita a vagliare si finisce per utilizzare un unico criterio euristico: l’accettazione del principio di autorità e l’ipse dixit.
    Poi quando e se si va a verificare cascano le braccia spesso e volentieri perché non è che l’Istat abbia sbagliato metodologicamente la sua ricerca bensì la sua ricerca va inquadrata all’interno di uno studio del tempo libero e quindi non può essere strumentalizzata più di troppo sulla fruizione culturale in assoluto. Leggere non è di per sé un’attività culturale. Dipende da cosa si legge. Da un punto di vista cultuale allora è meglio che i manager leggano testi inerenti la propria professione rispetto a un romanzo nel tempo libero. In più per l’Istat leggono pure più delle altre categorie e sono davanti agli studenti…
    Tuttavia tutti hanno citato il falso dato dei manager per insinuare la falsa equazione tra manager=classe dirigente=amministrazione della cosa pubblica=non lettore=incompetente nella propria materia.
    E quindi, alla fine del discorso, lei che prende l’esempio e ce lo ripropone a fini educativi, era conscio della bufala che si era bevuto?
    http://tinyurl.com/n97kbfk

  3. Per dare a Cesare quel che è di Cesare (o a Gesù quel che è di Gesù, e così il bravo hommequirit è riuscito anche nell’impresa metafisica di confondere i precetti cristiani fondamentali): i dati AIE si presentavano davvero male, e qui il nostro troll preferito ha ragione. Io però l’ho rilevato, mica l’ho taciuto, e quindi non si capisce cosa mi rimprovera. Il resto del divino commento è la continuazione dell’esercitazione dell’altro giorno con altri mezzi (cioè, con altri nick): cavilli su cavilli. Dice non sono i manager, sono i dirigenti e i professionisti: ma perché, esiste un qualche contratto collettivo nazionale che preveda l’inquadramento “manager”, su cui basarsi per la rilevazione? E se sostituisco alla dicitura manager quella estesa “dirigenti e professionisti”, cambia qualcosa nell’economia (e soprattutto nelle conclusioni) del discorso? Siamo più contenti se a non leggere una cippa sono i nostri “dirigenti e professionisti” anziché i nostri “manager”?
    Poi dice che si parla solo di tempo libero e quindi non sono conteggiati i libri professionali ecc. ecc; non so lei, ma io in questo momento ho aperto sulla scrivania un testo di teoria del campionamento statistico; eppure non lo metterei nella lista dei libri che ho letto quest’anno, nonostante i compulsamenti quotidiani e ripetuti. Certo che la cultura uno la coltiva nel tempo libero, quando sennò? Non pensa che potrei subire una (giusta) sanzione disciplinare, se mi mettessi a leggere Philip Roth in ufficio?
    E via cavillando.
    Hommequirit, le confesso di aver finito per affezionarmi a lei. Oltre tutto, come ho già avuto modo di dirle, io penso veramente che lei sia una persona preparatissima e intelligente. Per questo mi permetto di darle un consiglio: usi queste sue indubbie qualità in modo più equilibrato, anziché asservirle a qualche irresistibile impulso psichico che la spinge a smontare quello che fanno gli altri (rendendosi spesso ridicolo nel cavillare, mi consenta anche questo), anziché a proporre qualcosa di suo. Cosa di cui indubbiamente è capace. Lo faccia, non scherzo: pubblichi qualcosa dove sembra meglio a lei e ce lo segnali, io la leggerò con interesse. Ma a una condizione: ci metta il suo nome e cognome, come fa la titolare di questo spazio e come faccio io. E’un po’ troppo comodo sparare su chi si espone restando sempre nell’ombra, non trova?

  4. ps
    Vede, Cassi, come le ho già detto lei è sensibile al principio di autorità e per questo mi chiede di svelare la mia identità. Lungi dal portare al lettore qualche utilità sui temi che si trattano, l’uso del nome reale negherebbe precisamente ciò che lei va giustamente declamando ovvero l’uso del pensiero critico, la sua autonomia e la bontà degli argomenti, che finirebbero appiattiti inutilmente su valori ad hominem.
    Inoltre esporsi con il nome vero rischia di impedire la libera discussione da parte dei partecipanti perché esporrebbe il parlante ai giudizi della propria comunità professionale e sociale extra blog. Ovviamente tutto ciò non si sposa con chi del proprio nome voglia fare pubblicità, non fosse che per egotica vanità, e in quel caso l’anonimato è inconcepibile e sanzionato come codardia. A lei decidere su questo trade off. Tra l’altro Lipperini banna sistematicamente i nickname e gli Ip quindi anche se avessi mai usato il mio nome reale non potrei più farlo e quindi la decisione di cambiare nickname non è solo uno sfizio.
    Quanto alla postilla del mio commento occorre aggiungere che laddove l’Istat NON conteggia a priori i libri letti per motivi professionali e scolastici, l’indagine condotta da analoghi istituti di ricerca negli altri Paesi lo fa! Ad esempio la Francia che notoriamente brilla per lettori rispetto all’Italia ed è citata nel confronto AIE, non pone questo discrimine e si scopre inoltre che il numero di letture inerenti la propria professione è rilevante nella fascia attiva della popolazione e finisce per avere peso. Perciò confrontare l’indagine Istat con quella Ipsos o di altri Paesi tacendo il criterio esclusivo della prima rispetto ai secondi inficia tutte le deduzione di un eventuale confronto.
    L’AIE invece deve perorare la propria causa e allora al falso 39,1% dei manager italiani (dirigenti e professionisti) che non leggerebbero nemmeno un libro l’anno contrappone un 17% francese di lettori che NON sono solo manager (dirigenti o professionisti ) ma che sono considerati tali e paragonati nella stessa categoria italica sull’assunzione di un filtro su chi guadagni più di 2300 euro all’anno tra tutti i francesi. E i lettori ci cascano, credendoci e sentendosi magari colti per le loro innumerevoli letture.
    Perciò l’amara conclusione è che rischia oggigiorno di essere più stolto il lettore seriale che l’analfabeta. Almeno il secondo tende a riconoscere facilmente i propri limiti conoscitivi. Ma il primo?

  5. Vabbe’. Per quanto mi riguarda, questa appassionata perorazione della causa dell’anonimato mi trova del tutto dissenziente. Io sono per l’assunzione di responsabilità, con tutte le conseguenze che si porta dietro. Per questo non risponderò più né a lei, né a qualsiasi altro soggetto si faccia avanti a viso coperto.

  6. Caro Maurizio, sarei per aggiungere una considerazione forse molto banale, ma il rifiuto delle statistiche (se vanno contro i nostri pregiudizi) serve a rinsaldare le proprie convinzioni, che sono rassicuranti perché note.
    Spesso è tutto qui.
    Fa più fatica, enormemente più fatica, osservare il mondo da punti di vista diversi e vederlo nella sua complessità.

  7. Esattamente, Elena. Appunto, la difesa del proprio micromondo, sia interiore che materiale. Ma su questo sarebbe bello che si esprimesse qualcuno che sa di psicologia. Stasera vedo a cena il mio ex vicino di casa, un autentico guru del pensiero junghiano. Provo a chiedere il suo parere, poi se è interessante lo condivido.

  8. Sull’argomento c’è quella poesia di Trilussa che in pratica dice che se te, te magni due polli e io nessuno, per la statistica ne avemo magnati uno per uno. Che in effetti più che la fallacia egli studi statistici potrebbe definire la piccineria dell’animo umano “ incapace di vedere oltre il proprio orticello.. o il proprio frigorifero.Però trilussa o chi per lui , rileva giustamente un attrito, tra una scienza autorevole e influente che ambisce a descrivere la realtà nella sua interezza e le emozioni e le percezioni dei singoli realtà spesso in contrasto tra loro
    Ma oltre a questo, la giusta diffidenza che tutti abbiamo, è data proprio dall’approccio politico e mediatico con cui la maggior parte di noi viene a contatto con gli studi statistici. Per Maurizio pensare a una statistica credo significhi pensare a qualcosa tipo un incartamento anonimo di un centinaio di pagine appoggiato su una scrivania, sedersi inforcare gli occhiali, scorrere un indice, andare alla pagina, poi rileggere tutto confrontare incrociare dati tabelle , ricerche internet etc. per il popolo significa invece ascoltare il telegiornale o leggere i titoloni con frasi tipo:: Disoccupazione; è guerra sui dati, e poi Balletto di cifre sulla sanità , Scontro sui risultati dell’indagine e cosi via. Organizzazioni delle più grandi e autorevoli (Sindacati, Confindustria, governo, ministeri, partiti, gruppi editoriali) che continuamente si rinfacciano imprecisioni e parzialità e strafalcionerie circa questi serissimi studi. più che comprensibile che nel popolo creschi la sfiducia negli studi stessi. Che se poi vengono anche conditi con locuzioni tipo, literacy numearcy fat cheking cherri pickin, stori telling, in der posting la ggente gnanafa più.
    ciao,k.

  9. Un troll alla volta, caro K. E hommequirit è arrivato prima di lei, mi spiace: ho già dato. E poi che diamine, un minimo di originalità: la poesia di Trilussa la trovai appesa sulla porta della facoltà, il primo giorno che vi misi piede. Trentadue anni fa. Si aggiorni, la prego.

  10. Maurizio cercherò di aggiornarmi, ma anche te non ti sentire sotto assedio. Ho riletto quello che ho scritto e non mi pare così provocatorio. In fondo ho solo provato anch’io a dare una spiegazione su questa avversione alle scienze statistiche. Trilussa l’ho citato per ricordare che l’ insofferenza popolare un po’ c’è sempre stata e che forse tutti abbiamo provato una discordanza tra i risultati degli studi e le nostre impressioni. e soprattutto che oggi a livello mediatico nei giornali nei tolk, dati e cifre vengono continuamente criticati messi in discussione ridicolizzati, anche tra autorevoli soggetti istituzionali, questo quotidianamente ormai, per cui è normale che anche la gente sia portata a diffidare ad accettare solo quello che gli torna più comodo.
    Mi sono permesso di fare dell’ironia sull’uso dei termini inglesi

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