Che avvenga in buona o cattiva fede, avviene. Scrivere non basta più, viene detto. Non sono sufficienti le cronache, i monitoraggi, le parole. Forse è vero. Per chi ha solo quelle, però – perché questo ha a sua disposizione, parole – credo che smettere di usarle sarebbe un errore, e forse un vantaggio dato ad altri. Per esempio. C’è un’altra lettera che mi piace condividere, sempre tratta da Cuore di Grecia. Da giornalista (Margherita Dean, corrispondente ad Atene di Radio Popolare) a giornalista (Brunella Torresin). Ci sono parole che aiutano, almeno, a capire.
Brunella cara,
tempo fa mi scriveva che “si tocca con mano una precarietà che non è più economica”. È così, è così per la “mia” Grecia, la “mia” Atene, che racconto con un’urgenza sempre maggiore, ultimamente. Scrivere è una valvola di sfogo, per metabolizzare quello che vedo, che sento tutti i giorni, per tutto il giorno e, alla sera, finalmente nel silenzio, racconto il Paese della crisi.
In molti mi dicono che vivo in prima linea ma non era stata questa la mia scelta: la Grecia è la mia altra patria e venire a vivere nella capitale ellenica era un sogno che avevo da tanto. Conoscevo la città bene, da sempre, era il luogo del ritorno e tornare volevo.
C’era sempre una dolcezza nell’aria, come un sentire che, anche se il ritmo era estenuante, la città, in un momento della giornata, mi avrebbe premiata. Era come uno squarcio nell’apnea: l’effluvio dei fiori d’arancio per le strade, quello dei gelsomini sui balconi; il tramonto tra le colonne dell’Acropoli; il viale che porta al mare, come scriveva Ghiorgos Seferis.
Era Atene ed era bella. Bella perché rumorosa, perché caotica, perché bruttina e brutale a tratti: mi afferrava, mi tirava in un abbraccio caldo, soffocante e poi mi gettava nel mare per rinfrescarmi. Mi offriva sempre una birra: dal bicchiere ghiacciato colavano rapidissime gocce, sconfitte dall’arsura estiva. Mentre io bevevo, Atene parlava con la voce dei grilli che si stavano svegliando, con il miagolio di un gatto interessato al mezè che accompagnava la mia birra, con le parole dei passanti.
Tanti, gente che viveva per strada e a casa ci tornava – pareva – solo per dormire: i tavolini erano sempre tutti pieni e i caffè moltissimi; come le librerie, i teatri, i ristoranti, le taverne, i cinema all’aperto, quelli sui terrazzi di palazzi brutti, enormi, buttati là a caso, troppi. Sui terrazzi, però, c’erano anche lenzuola stese ad asciugare e allora le scatole di cemento assumevano una familiarità capace di addolcire l’estetica ferita.
Era bella Atene, una città da accarezzare con il pensiero del ritorno, con la nostalgia di un cielo sotto il quale trovava appartenenza la memoria tutta di un popolo che solcò i mari ignoti della fondazione di una civiltà e le acque violente delle tragedie che colpirono la Grecia.
Mentre glielo dicevi, Atene, amplificata dal suo disordine, insisteva: non aveva dimenticato un bel niente; era fiera dei suoi ricordi, li proteggeva. Li teneva nei cassetti più alti, riguardati. E cantava. Cantava poesie, quelle della libertà, dell’amore, della resistenza, dell’orgoglio, della povertà; no, in Grecia essere poveri non era una vergogna.
Almeno fino a tutti gli anni ’80.
Poi venne la distrazione, Atene e la Grecia intera si misero a sognare un sogno nuovo, di qualcun altro; incominciarono a imitare, male, altri mondi, altre culture. E a consumare, sconsideratamente. A importare ogni cosa.
Era il 1999. Mi trasferii ad Atene alla ricerca dei tratti che amavo. Sono greca a metà ed era giunto il momento di immergermi nella grecità. Nella parte ellenica del mio lessico familiare.
Quando arrivai, incominciai a camminare. Tanto. Atene non mi intimidiva, nonostante il caos che, per me, significava creatività.
Eppure, qualcosa stava cambiando. Atene, nel 1999, si affacciava ad un mondo completamente nuovo: stava arrivando l’Euro e poi le Olimpiadi e la città credeva – finalmente – di poter essere come tutte le altre città dell’Europa occidentale.
Cominciò a ostentare ricchezza, a correre appresso a quello che qui chiamarono il life style di televisiva origine, che premiava il vuoto dietro sorrisi splendenti di stelle mediatiche uguali nei movimenti, nella mimica, nei gusti. Nuovi modelli, nuove priorità e gli ateniesi cominciarono a spendere. Tantissimo.
Ricordo ancora come fosse onnipresente la pubblicità delle carte di credito e dei prestiti bancari in genere: alcuni sembravano una beffa, come quello per le vacanze di Pasqua, per auto tanto più inutili quanto più ingombranti.
Piccoli sogni, mentre lo Stato e i cittadini sembravano convinti che farsi prestare soldi fosse la cosa più semplice del mondo. Le banche, poi, si proponevano con un nuovo volto. Non più austero ma amichevole.
Accanto al vuoto culturale che si andava creando la Grecia, però, assaporava il benessere come una conquista: finalmente si sentiva un Paese europeo. Già, europeo.
Venne una domenica calda, era l’aprile del 2010. L’allora primo ministro, Ghiorgos Papandreou, si rivolse a tutti i greci a reti unificate. Con un herpes al labbro superiore, in primo piano sulla scena idilliaca del porto della piccola isola Kastelorizo, Papandreou annunciò quello che, in realtà, si sapeva da alcuni mesi per quanto incredibile. Il Fondo monetario internazionale sarebbe venuto in Grecia.
Rimasi senza fiato per un po’, mentre mi rendevo subito conto che negli anni a venire sarebbero stati quasi monotematici i contenuti delle mie corrispondenze elleniche. “Crisi” è diventata la parola che più uso, tanto che a volte sento di non poterne davvero più.
Col Fondo monetario in Grecia, l’Europa unita si apprestava, nel 2010, ad assistere allo sfacelo economico, sociale e morale di uno Stato membro.
La vita dei greci è cambiata, è tornata indietro di decenni e le certezze di un’intera generazione, la mia, sono finite: l’Europa dei popoli, l’Europa simbolo e garante di conquiste sociali, democratiche, dei diritti alla salute, all’istruzione, al lavoro scompariva per lasciare posto a un Grecia colpita, punita, di continuo minacciata di essere allontanata. Come qualsiasi malato infettivo, qualsiasi untore, qualsiasi reprobo.
Ai giudizi economici, presto si aggiunsero quelli morali e, cosa che più mi ferisce, fin dall’inizio della tragedia ci fu un rigurgito di cliché: i greci che lavorano poco, i greci che non pagano le tasse, che vivono al di sopra delle loro possibilità. Come in tutti i cliché ci sono verità ma è un pensiero primitivo, quello di punire tutto un popolo per le colpe di alcuni.
Mentre Papandreou parlava da Kastelorizo, io pensavo alle scuole pubbliche: le mie paure non tardarono ad avverarsi. Un esempio su tutti: nel settembre del 2011 il Ministero smise di stampare e distribuire gratuitamente i libri, cosa che aveva fatto dal 1937 in poi, per tutti, indipendentemente dal reddito.
Pensavo agli ospedali. Un esempio su tutti: medicine e materiali medici scarseggiano da mesi; da un anno i parenti dei pazienti sono spesso costretti a portare cibo, garze e disinfettanti; Atene è invasa da malati mentali: le degenze lunghe nelle cliniche psichiatriche, le più colpite dai tagli, sono diventate costosissime.
Non ricordo bene se sia stato il giorno in cui si è suicidato, sparandosi in piazza Syntagma, la piazza dominata dal Parlamento greco, Dimitris Christoulas, 67 anni, farmacista in pensione che prima di morire scriveva un j’accuse feroce contro i responsabili politici della tragedia greca e contro un’intera società, che egli giudicava passiva, supina, piegata, incapace di reagire. Christoulas parlava anche di dignità, o meglio, della sua mancanza dopo l’ennesimo taglio a una pensione che aveva pagato per tutta la vita lavorativa.
Non ricordo bene se è stato quando seppi che una Ong francese aveva mandato un aiuto umanitario, viveri, a Perama, comune operaio attiguo al Pireo, simbolo triste di quanto sta attraversando la Grecia.
Non so neanche se sia stata una notte, quando in centro mi sono fermata davanti a una anziana in lacrime, raggomitolata su se stessa che implorava per un poco di cibo. “Non voglio soldi” diceva “voglio solo qualcosa da mangiare. Qualcosa di morbido, non posso masticare”.
O forse è stato quando un bambino di quattro anni ha chiesto, con occhi arrotondati da un dubbio foriero di lacrime, “perché c’è chi vive per strada. Perché non ha amici?”.
Tuttavia, quando i Medici del Mondo denunciarono che nel centro della capitale ellenica era in corso una crisi umanitaria, era l’agosto del 2011, ne ebbi certezza: Atene non è più una città europea e questo perché mi risulta incomprensibile come in Europa si possa assistere a tanto.
Al degrado del centro di Atene, ormai invaso da mucchi, cose, donne, uomini e bambini: le coperte dei nuovi senza casa, persone che fino a pochi anni o mesi fa avevano un lavoro e un’istruzione. Sono stati vinti dalla crisi, dalla disoccupazione prima di tutto e, perso il lavoro, non hanno più potuto pagare il mutuo o l’affitto della loro abitazione e ora vivono per strada. Sono tantissimi, le cifre incerte ma per Eurostat i neo – senza fissa dimora sono almeno ventimila in tutta la Grecia e costituiscono una categoria affatto nuova nel panorama del disagio sociale inferto dalla crisi.
Ho raccontato spesso le loro storie, sono stata nei centri di ospitalità dei comuni di Atene e del Pireo, li ho conosciuti e mi sono quasi vergognata. Spesso, poi, mi chiedo cosa ne sarà di loro: una giovane madre, con un bambino appena nato al centro di ospitalità del Pireo; un anziano malato che fra poche settimane sarà costretto a tornare per strada; una famiglia con due bambini: la mamma è albanese e stanno pensando di lasciare la Grecia per l’Albania.
Un ex cuoco di quarant’anni, Panaghiotis, è stato talmente grato che ne raccontassi la vicenda, da regalarmi la piccola croce che apparteneva a sua nonna.
Atene non è una città europea, non più, perché tutti i giorni conto le assenze anche in quartieri semi centrali e benestanti, se ancora i termini hanno lo stesso significato di prima della crisi: questo o quel negozio chiusi e spesso, sulla vetrina ormai vuota e impolverata, una nota di saluto alla clientela di decenni.
Si aprono buchi nell’asfalto che non vengono mai chiusi, si guasta un semaforo, magari in un incrocio nevralgico e passano settimane perché venga riparato. E poi polizia: onnipresente, ossessiva; nel 2011 l’incremento della piccola criminalità è stato, nella sola capitale, del 125 per cento e allora gli agenti ovunque, a ricordare che la società greca è malata.
Succede in Europa che, nel corso dell’ultimo inverno, un palazzo su tre, ad Atene, è rimasto al freddo per via del costo del petrolio da riscaldamento. Pochi giorni fa ho fatto la benzina per 40 euro; ebbene, il benzinaio mi ha chiesto se fossi in partenza: “è raro che ci chiedano così tanto carburante”, mi ha spiegato mentre io, di nuovo, provavo un vago senso di vergogna.
È così, però e Atene non è una città europea, non quando fuori dai supermercati, all’orario di chiusura, si accalcano poveri che rovistano fra la spazzatura in cerca degli scarti. Ho ancora davanti agli occhi un uomo chino sulla confezione delle uova rotte da infilare rapidamente nello zaino mentre l’albume colava.
Atene non è una città europea, quando a migliaia si accalcano a ricevere prodotti agricoli che qualche cooperativa regala al comune. Brunella, la cosa peggiore è che in fila ci sono anche bambini.
Atene, oggi, mi ferisce. Rimane zitta, ammutolita nello sguardo vitreo dei passanti.
C’è un viale, che si chiama Patissìon, il viale che da piazza Omonia porta al quartiere Patìssia, appunto.
Ebbene, quando si guida verso Omonia, la direzione è indicata dall’Acropoli: la rocca e il tempio sono proprio davanti, occupando tutto l’orizzonte.
Ecco, questo significa vivere ad Atene: l’Acropoli è il punto di riferimento per non perdersi.
Ma persi ci siamo e l’Acropoli è lontana, quasi chimerica.
Un caro saluto,
Margherita Dean
Davvero abbiamo solo parole?
Possiamo solo leggere o anche scrivere?
E se facessimo quello che si è già fatto per le grandi questioni civili (questa le contiene tutte, perchè di questo passo ci troveremo a lottare non per la libertà ma per la semplice sussistenza)? Parlo di un grande, enorme appello del popolo della Rete agli unici cui possiamo rivolgerci, quelli che un tempo furono i dirigenti di un partito dei lavoratori e oggi non so come definire, che sostengono il governo dei macellai e votano in parlamento il fiscal compact (spiegaglielo tu cos’è ai tuoi lettori, Lippa, che a me mi vien da piangere e domani entro in ospedale come sai). Un appello che è una minaccia: mai più un voto popolare per voi, se non fate cadere immediatamente questo governo e imponete l’unione bancaria in europa o l’uscita immediata dall’euro.
Lo dico qui, su uno dei blog più frequentati, sapendo che mi possono leggere Biondillo di NI, Wu Ming di Giap, Mozzi di Vibrisse, Centofanti di LPELS, Marina Terragni, Lorella Zanardo e molti molti altri.
Possiamo mobilitare molte energie e persone, facciamolo, o ci resterà il rimorso di aver contemplato la città in fiamme non come l’incendiario, ma come l’ignavo che non ha creduto nemmeno al proprio impulso morale.
Lo scrivo così, come mi viene, rozzamente, ma tra chi mi legge c’è senz’altro chi ha già collaborato a iniziative del genere e sa come fare.
Lippa, io e te abbiamo la stessa età e figli quasi coetanei.
Facciamolo per loro, o dovranno vergognarsi di noi.
… hai ragione, pessima eredità per i nostri figli. Eppure, a volte, sento che neanche le parole sono più ascoltate, lette, capite e prese in considerazione… ma continuo a scriverle e a dirle senza potermi fermare con la segreta speranza che qualcun ascolti… vorrei saper fare di più.
Valter, hai ragione. Ma temo, ancora una volta, che un appello non basti. Il popolo della rete non esiste, credo. Esistono tante nicchie, più o meno grandi, e molto spesso concentrate su se stesse. Di certo, qualcosa occorre fare. Qualcosa che vada al di là della scrittura e della denuncia. Qualche giorno fa, una poetessa mi rimproverava perchè nonostante gli appelli e le denunce sui femminicidi le donne continuano a morire. Drammaticamente vero, al di là delle intenzioni del rimprovero. E’ un buon motivo per smettere di parlarne? No, naturalmente. E’ sufficiente? Ancora una volta no. Questo è il limite, tremendo, delle parole. “La poesia non serve a niente”, diceva Fortini. “Ma scrivi”, aggiungeva.
Personalmente, avverto il bisogno di riflettere e capire cosa fare. Spero di avere le idee più chiare a settembre: ammesso che non sia troppo tardi. Un abbraccio, per domani, e per tutto.
Il mondo è cambiato. Dobbiamo cambiare noi. Innanzitutto non facendo più finta che tutto è come prima, che possiamo continuare a vivere vigliaccamente una vita normale. Con quel che sta succedendo nel mondo la nostra vita non può, non deve, essere normale. Di questa normalità dovremmo avere vergogna.
(Tiziano Terzani)
lalipperini, è già tardi adesso. In alcune “ricche” città del nord Italia, per pagare le bollette di energia e gas vengono chieste dilazioni nel 50% dei casi, significa che il prossimo inverno un buon numero di persone non avrà risorse per pagare luce e gas. Ci sono ragazze madri che rivolgendosi ai servizi sociali cercando aiuto si sono viste dare i figli in affido temporaneo perchè ritenute non in grado di provvederne alla sussistenza. Io non credo alla crescita, o meglio ad una crescita per tutti, nel breve penso sia necessario fare resistenza, cercare i modi e le formule che consentano a tutti di poter soddisfare almeno i bisogni primari.
Sono d’accordo con Loredana, la rete, intesa come soggetti partecipanti, è simile alla “massa”, con difficoltà di organizzazione ancora maggiori. Io considero il web uno dei tanti strumenti utili per affrontare la vera sfida ovvero l’organizzazione della mia classe sociale. E’ certamente uno sforzo titanico, ma non credo sia una fatica di Sisifo.
Riguardo alla lettera trovo che sia ben scritta e proponga immagini toccanti, ma…”perché mi risulta incomprensibile come in Europa si possa assistere a tanto”, ecco, dire questo significa non avere capito la natura dell’ uomo e, se si vuole capire, basterebbe informarsi su cosa è successo nel Darfur e quanto è “interessato” a chi credeva di appartenere alla classe dei “ricchi”. E mi ci metto anch’ io tra gli ignavi del passato, però ora è il momento di prendere coscienza.
Aggiungo che le parole e lo scrivere sono strumenti importantissimi per la lotta futura perchè sono forse l’unica cosa che può cambiare l’immaginario-inconscio collettivo e così facendo cambiare l’ uomo.
Sono parole bellissime e devastanti. Mi hanno restituito tante immagini, alcune che credevo, altre che speravo, perdute. Tornando in treno questa mattina, alla stazione e in pieno centro di Bologna, in un tragitto pedonale di non più di 800 metri, ho “incontrato” quattro persone che dormivano per terra. Vedo gente che sempre più fruga nei bidoni della spazzatura e solo fino alla scorsa primavera, avendole viste in Ungheria, pensavo fossero fotogrammi di film neorealisti.
E se io, minimamente garantita, mi sento sovrastata da quanto succede, non posso immaginare i non garantiti, soprattutto giovani e vecchi. E non so che fare, salvo pensare altri orizzonti che però si vanno via via restringendo.
Hai ragione Cinzia. Dove sono io è pieno di immigrati e una volta (già terribile dal mio punto di vista) erano queste persone che rovistavano nei cassonetti… ora vedo anziani anche ben vestiti usare questo sistema. Si guardano attorno se trovano qualcosa, ma non mollano la presa perché potrebbero persa. Mi sento umiliata dal loro doversi umiliare. Temo che andrà sempre peggio.
Io credo sia urgente organizzare forme di resistenza, come scrive Claudio. O meglio, iniziative e strutture in grado di assicurare la sussistenza a chi sta perdendo tutto e, nello stesso tempo, capaci di costruire giorno dopo giorno relazioni e reti di aiuto. Quello che più mi spaventa non è affrontare la crisi, ma affrontarla da solo, ognuno con “col suo marchio speciale di speciale disperazione”. So che non risolve le cause, ma forse, per il momento, è tutto quello che possiamo fare.
Piccolo P.S. al mio post precedente: costruire (e, in alcune realtà dove già esistono, rafforzare) queste reti di solidarietà dovrebbe essere anche un antidoto contro l’opportunismo di gruppi nazifascisti che trovano in questa disperazione dei varchi aperti per promuovere non solidarietà, ma segregazione e persecuzione.
Su “Le Monde Diplomatique” di luglio, pp. 8-9, Il pensionato tedesco e lo spauracchio greco di Olivier Cyran (non è in rete, o quantomeno non lo trovo): pezzo molto interessante per capire la cattiva coscienza che l’Europa di oggi e di ieri ha nei confronti della Grecia.
@ Valter
La rete non è una entità separata dalla società, o dal mondo: è un ambito peculiare all’interno di una realtà più vasta. Ci sono ambiti nei quali è urgente organizzare mobilitazioni, e agire, anche localmente avendo di mira il globale (un esempio? La Val di Susa), e ambiti in cui è essenziale raccogliere informazioni e materiali che verranno buoni ai movimenti. È successo così, con i referendum sui beni comuni: non sono stati promossi dalla rete, ma la rete ha dato il suo contributo.
Come rispondeva un mio collega ora pensionato alla domanda “a che serve?” dei suoi alunni: la cultura non serve, perché non è serva di nessuno. Con buona pace dei tanti servi (quelli sì!) sciocchi, consapevoli o meno, oggi tanto di moda, che sputano su intelettuali e cultura.
leggo con grande amarezza il bel resoconto da Atene e i vostri scritti…
chi di noi ha sempre vissuto eticamente e senza consumi in eccesso e magari facendo cultura, pagando le tasse onorando i prestiti e facendo insomma in Italia il cittadino “europeo” come si giustifica nello sfacelo imminente?
personalmente non credo che avrei potuto fare di più, forse avrei potuto farlo ancora meglio
ma ho insistente il tarlo di un rimpianto, non essere andata via nel 2005 senza voltarmi indietro dopo il terzo licenziamento e prima di fare impresa culturale in Italia a spese mie e di tutta la mia famiglia
scusate lo sfogo
e grazie per il confronto che offrite costantemente
Nicoletta, libraia indipendente a Bologna
Toccante e vero il testo di Margherita Dean.
Vero e condivisibile il bisogno di fare qualcosa, ma soltanto nuove forme di organizzazione, nuove ipotesi politiche possono davvero tirarci fuori dalle secche di quest’ondata liberista via via più pericolosa e distruttiva man mano che se ne rivela la natura così antiumana, una vera e propria forma di follia collettiva a cui sembra vano opporsi.
Scorciatoie purtroppo non ce ne sono, e in tutta Europa le rivolte non mancheranno di certo, ma che vadano aldilà del ribellismo, che diventino rivoluzione, questo oggi non si vede, non ce ne sono sintomi. Tuttavia, la realtà a volte ci sorprende, e il pessimismo non deve mai diventare disperazione. L’importante è stare dalla parte giusta, è rendersi disponibili al cambiamento.
Sintomi ce ne sono, Vincenzo. Ad esempio, in Val di Susa. Con buona pace dell’informazione mainstream.
Caro Girolamo, come non ho mai nascosto, nutro grande solidarietà nei confronti del movimento NO TAV, ed anche aggiungerei una certa riconoscenza proprio per l’importanza di tenere aperte questioni che hanno una rilevanza generale in una situazione in cui pare che complessivamente l’umanità sembra aver perso la ragione.
Ciononostante, non possiamo nasconderci la fragilità di un movimento di questo tipo, che si pone un obiettivo così specifico. Difatti, ciò comporta da una parte un’impossibilità ad affrontare anche questa questione nella sua complessità, e dall’altra il rischio che non ottenendo l’obiettivo che si pone, si traduca in una sconfitta di dimensioni storiche.
Se esistesse invece un movimento organizzato avente un obiettivo politico generale, tale lotta ne sarebbe una specifica articolazione, col vantaggio di potere correlare questa lotta a tante altre lotte ed anche un’ventuale sconfitta potrebbe essere vissuta meno traumaticamente.