Non ho voglia di rispondere a Ceronetti, a Feltri, alle polemiche di a da in con su per tra fra femminismi. Ho voglia, invece, di postare qui l’articolo di Mario Di Vito apparso ieri su Il Manifesto. Parla di lavoro, e di come lo sfruttamento prenda sempre più le forme di “siamo una grande famiglia”. E sorridi.
La cosa importante è ricordarsi di sorridere. Sempre. Ti spiegano addirittura come fare: tendi gli angoli della bocca verso le orecchie, lascia scoperti appena i denti davanti, guarda il cliente sul mento, così non lo metti in imbarazzo fissandolo negli occhi. Tutto questo sempre, in ogni momento delle infinite giornate di lavoro nei fast food McDonald’s. Non è un’impresa facile, c’è sempre qualcosa da fare: quando la sala è piena ogni richiesta va soddisfatta nel tempo limite di tre minuti e mezzo, dall’ordinazione alla consegna. Quando non c’è nessuno c’è da pulire, mettere a posto la cucina, dare una botta di straccio al bagno, svuotare i secchi dell’immondizia, le sedie in ordine, i tavoli disposti in base a una calcolatissima asimmetria. E il «dress code», uguale per tutti: pantaloni, camicia e cappello.
Devi essere l’archetipo dell’efficienza: il cliente deve essere solo soddisfatto, ma non deve accorgersene troppo. L’anonimato brillante del McDonald’s: tutto studiato per non dare troppo nell’occhio, per essere sempre uguale, caldo e rassicurante come una casa; dai sapori alle facce, tutto deve essere com’è sempre stato. I fast food ormai fanno parte dell’arredamento urbano, soprattutto in provincia tutti sanno dov’è il McDonald’s, che spesso diventa un punto di riferimento: «Abito sulla Nazionale, duecento metri dopo il Mac». Non puoi sbagliarti.
L’offerta di lavoro ha un che di allettante. Ed è facile. Ti colleghi al sito, mandi il curriculum e ti chiamano quasi subito. Ti spiegano cosa gli serve, come devi fare, buttano qua e là qualche metafora sportiva sulla «squadra» a cui dare tutto, ti fanno sentire importante, un ingranaggio di una macchina che corre più veloce della luce. Chi scrive ci ha provato, ma il tentativo è stato goffo oltre che vano. Ai responsabili delle risorse umane è bastato cercare un po’ su Google per capire che non si trattava di una sincera richiesta di lavoro, e che il curriculum era in tutto e per tutto fittizio: «Non credo abbia senso fare un colloquio, a questo punto», ha detto una voce inspiegabilmente gentile dentro il telefono.
Non restava che fare il percorso inverso: andare alla ricerca di chi al fast food ci ha lavorato davvero. Sono tanti: provate a chiedere ai vostri amici, scoprirete che in molti ci sono passati, per quelle cucine. E i racconti sono un po’ tutti uguali.
Riannodiamo i fili: compili la scheda sul sito, mandi il curriculum – oppure ci arrivi tramite un’agenzia di lavoro interinale –, ti richiamano e ti dipingono davanti agli occhi un mondo bellissimo, una famiglia in cucina che fa felici grandi e bambini di tutto il mondo. E poi buttano lì i particolari più interessanti: McDonald’s paga tutti i mesi. E le mensilità sono quattordici. E il 94 percento del personale è assunto a tempo indeterminato. Sullo sfondo l’idea di una vita finalmente normale: uno stipendio vero, un contratto, una collocazione sociale, qualcosa da poter sventolare in famiglia quando ti chiedono cosa fai nella vita.
All’inizio sei tra i crew: 24 ore alla settimana e 814,35 euro lordi di stipendio minimo al mese (più bonus). Alla lunga puoi diventare manager (1.600 euro) e alla fine direttore (2.036 euro). La carriera è veloce, dicono, se sei sveglio in un paio d’anni puoi passare da ultima ruota del carro a padrone del vapore. Mentre firmi il contratto stai già pensando di ricomprare il computer.
La voce del direttore del personale ripete le solite parole, sempre uguali, frutto evidente di un qualche corso d’aggiornamento: «Chi lavora da McDonald’s deve avere voglia di darsi da fare, di imparare a fare diverse cose in modo impeccabile, di sostenere la pressione nei momenti di picco, di rendersi disponibile quando c’è bisogno di una mano, di seguire tutte le regole imposte dagli alti standard di sicurezza, efficienza e qualità che McDonald’s si è data e dà ai suoi dipendenti». Ovvero: potranno chiederti di lavorare di notte, o tutti i week-end, o di prolungare il tuo turno. È la cara vecchia «flessibilità», termine arrivato in Italia un decennio fa direttamente dalla reaganomics: la «flex security», che in realtà è tanta «flex» e poca «security».
Il collega più esperto – sorride anche lui, ma i suoi occhi sono pieni di disillusione – ti spiega anche qualche trucco del mestiere: le bibite sono meno gassate rispetto ad altrove, serve a riempire meno, così il cliente è più portato a ordinare un altro hamburger. Segue una strizzata d’occhio complice.
Ma è importante anche «attenersi ai tempi prestabiliti» e sapere che c’è un tempo pure «per andare in bagno, come avviene in tutte le attività professionali in cui il rispetto coordinato dei tempi è un fattore chiave per la qualità del lavoro». Tradotto: da quando ottieni l’autorizzazione per andare a quando tiri l’acqua devono passare al massimo 58 secondi. Ogni azione è cronometrata: dopo i tre minuti e mezzo di tempo massimo per servire il cliente, la cassa comincia a illuminarsi per segnalare che si è fatta ora di chiudere i conti. In cucina, anche i macchinari hanno lucine di diversi colori, e quando la cottura è ultimata cominciano i «bip». Ogni attrezzo ha il suo, di «bip». Alla lunga impari a distinguerli uno per uno: acuto e prolungato è il toastapane, grave e secco è la piastra degli hamburger, intermittente vuol dire che devi cambiare l’olio alla friggitrice. E così via. Anche quando sei in mezzo a una sinfonia di «bip», immerso tra le luci, con la friggitrice che va e il pane che comincia ad abbrustolirsi troppo non devi dimenticarti di sorridere.
Sembra la famosa scena di «Vieni avanti cretino», quando Lino Banfi, ormai reso pazzo dal continuare ad accendere e spegnere interruttori vari, continua a sentirsi ripetere da un memorabile Alfonso Thomas che «la sua soddisfazione è il nostro miglior premio». E infatti quando da semplice crew combini qualche danno, il tuo superiore non si arrabbia, ma assume un tono affranto e paternalistico allo stesso tempo mentre ti spiega che hai fatto del male a te stesso. Te lo dice davanti a tutti, mentre i tuoi colleghi scuotono la testa con aria contrariata. Qualcuno ti dà anche una pacca sulla spalla: evidentemente vuole fare carriera in fretta.
L’azienda ti ama e tu devi amare l’azienda: è per questo che la pausa pranzo (o cena) consiste in un McMenu a tua scelta, senza la possibilità di andare al bar di fronte o di portarti qualcosa da casa.
I più convinti chiamano questo spettacolo «cultura del lavoro» e serissimi aggiungono che «il lavoro rende liberi», dimenticando come e perché questa frase è passata alla storia. E alla fine viene il dubbio che questa macchina possa funzionare solo a queste condizioni.
D’altra parte i numeri sono quelli di un esercito: 16mila dipendenti, 140 milioni di panini, 2 milioni di porzioni di frutta e 8 milioni di insalate preparate e vendute ogni anno. Questi i numeri ufficiali. Ogni piatto ha una vita massima di otto minuti, superata questa soglia chi sta al banco deve buttare via tutto. In fondo, al McDonald’s un hamburger costa appena 40 centesimi. Quando finisce la giornata, torni a casa ed emani un inconfondibile odore di fritto. Se sei molto bravo, però, sai benissimo cosa fare anche in questa situazione.
Sforzati. E ricordati di sorridere.
Alienazione. Proprio nel senso descritto da Marx. Pescando da Wikipedia, alienazione per Marx è “quel processo che estranea un essere umano da ciò che fa fino al punto di non riconoscersi in se stesso”. Preciso preciso. Qui, poi, il meccanismo che scatena l’alienazione è più subdolo di quello che tormentava gli operai dell’ottocento: quelli erano sfruttati in modo feroce, e basta; questi camerieri-lavapiatti-pulitori-tuttofare, invece, sono espropriati della loro identità dalla pretesa che la stessa (l’identità) venga disciolta nell’organizzazione.
Mutatis mutandis… Considerazioni simili sono comparse sui media in merito ad altre macro organizzazioni a basso costo. I trasportatori Ikea, gli addetti al confezionamento di Amazon, per citare i casi più noti.
Non so quanto possa valere la disaffezione dei consumatori “impegnati” (qualcuno l’ha valutata?), ma se la normativa non impedisce certe condizioni di lavoro e impone controlli efficaci, non vedo migliorie possibili. La banale riflessione è sui soggetti politici cui il tutto compete.
ma la cosa più triste è che McDonald, fino a qualche anno fa considerato come lo sfruttatore per eccellenza, sarebbe da considerare ormai un dilettante dello sfruttamento se paragonato a un qualsiasi studio legale o a quacun’altra di queste situazioni assurde che si trovano solo in Italia
In poche parole questo pezzo ridisegna alla perfezione lo “stile manipolatorio” di coinvolgimento aziendale benissimo descritto da Michela Murgia in “Il mondo deve sapere”, in quel caso riferito alla Kirby.
E nel caso di McDonald’s.. c’è l’aggravante che questo mondo da sogno (ancorché depressivo) viene alimentato dall’incubo di un’invasione planetaria dal grave impatto ecologico e di salute – per non parlare dell’ecatombe di animali e della crudeltà loro riservata.
https://www.youtube.com/watch?v=Cbf_pmT6duA
Senti falafel, e tutte e tutti. Se avete storie da raccontare, il blog è aperto. Forse sarebbe il caso di cominciare a raccoglierle. Anonimato, ovviamente, garantito.
Questo articolo è un salto nel passato, nella puzza di fritto, nell’alienazione, nelle (purtroppo inutili) lotte sindacali, nel tirare avanti per portare a casa la mia laurea e nell’incredibile soddisfazione di essermi licenziata un’ora prima di passare l’esame di stato e cambiare la mia vita.
Ma ad oggi, dopo tanti anni, è ancora uno dei miei peggiori incubi ricorrenti.
Troppo scaltra la L.L. per cadere nella “mousetrap” della “oggettività del caos”, dunque conviene annodare le fila analogiche del discorso rileggendo “Marionette, che passione !” di Rosso di San Secondo. Per disdegnare onorevolmente la Miseria del “bestiale commercio “.
da anni cerco di capire come fare per declinare con le sanguisughe il metodo dei contadini della steppa russa quando si ritrovavano le blatte in casa.Avendo accumulato ancestrali esperienze in tal senso queste persone dal carattere evidentemente reso ruvido dalla disillusione spegnevano le stufe e se ne andavano in giro per un paio di giorni bivaccando dove meglio gli era congeniale. Al loro ritorno scoprivano puntualmente che i blattoidei sfiniti dai rigori dell’inverno erano tornati al campo base(con le zampe conserte presumo)
http://www.youtube.com/watch?v=ys89gzpNHTY
Tanta puzza di fritto, ma anche un po’ di puzza sotto il naso, in questo articolo, ( e commenti) dove si raggruppano puzzolanamente un po’ troppe cose diverse tipo ecologismo, alimentazione sfruttamento del lavoro e anche appunto un po’ di puzza sotto la naso. Perché va detto che in qualsiasi ristorante ognuno abbia lavorato, l’odore di fritto sui vestiti a fine turno è assicurato, così come il tempo per pisciare nelle ore di punta, è molto ma molto meno di 58 secondi. è zero. si piscia dopo. Per il trattamento economico, temo che in gran parte dei ristorantini radical chic, il “crew” prenda anche molto ma molto meno di 800 euro per 24 ore a settimana. E poi esprimo rispetto, ( e non disprezzo) per gli uomini e le donne che lavorano al mac, magari anche con impegno, mentre danno da mangiare a basso costo ai tanti che non si possono permetterzi altro.
Ciao,k.
K. sei impagabile 🙂 Ti pare che qualcuno disprezzi chi lavora al Mac? Semmai si chiede rispetto per loro, da parte di chi ne decide le condizioni. Quanto ai ristorantini, radical o no, chic o no, sono d’accordo: Eataly non è di certo meglio. Anzi.
C’è un racconto intitolato “Esortazione” in “Dieci dicembre” di Saunders che di fatto è una email di un direttore di divisione di un’azienda che esorta i dipendenti. Sembra riportare le parole del direttore del personale dell’articolo.
McDonald’s è un esempio ma certo, gli altri non sono da meno.
a lipperini,
almeno siamo d’accordo sul rispetto per le persone, ma rilancio perchè il fatto è che mi pare ci sia un trasudamento di disprezzo per il lavoro in sè: per lo sparecchiare, buttare la monnezza, spazzare dare il cencio, pulire i bagni, sforzarti di sorridere a chi ti sta di fronte, anche se costa un po’ di fatica. come se il fare queste cose fosse umiliante di per sè. Io penso di no, che non sia umiliante di per sè. diffido delle persone che non hanno le unghie sporche.
ciao,k.
Questo nelle tue fantasie e nei tuoi pregiudizi, K. Penitenziagite.
…l’archetipo di essere tutto tranne che me stesso. Con la “durezza” d’affrontarMI e di affrontaRE le prove e le sfide della vita,di “sentire” e dire la “realtà” dalle mille sfaccettature e volti (una sola quello che percepisco),la “visibilità del buio” senza che altri provino ad inglobarlo,l’urlo,soffocato da altri, che la “MIA” vita è troppo preziosa per essere così cinicamente tritata dai “controllori” della nave su cui (casualmente) mi trovo e dalla quale non posso fuggire perchè ho la catena al piede.
Bellissimo umanissimo realissimo articolo che ho letto quasi con le lacrime agli occhi. Bianca 2007
Che bello essere (quasi) vegana!
Purtroppo non sono fantasie e pregiudizi; il lavoro manuale, in genere tende ad essere sprezzato un po’ da tutti. Mi viene in mente anche un cretino a zelig, che prendeva in giro gli operai con le dita amputate al tornio, a suo dire nuovo archetipo del cretino che non sa usare un ipad. ( tutti a ridere!!) si perché l’ Operaio adesso ha sostituito il contadino nel modello dell’ignorante tipo, siccome giornalistotti e industrialotti hanno venduto la fabbrichetta e investito nel casale, adesso i contadini sono diventati intelligenti. Ma non divaghiamo troppo. L’articolo non lo farei leggere a un giovanotto, perché come già detto utilizza strumentalmente questi pregiudizi sprezzanti verso il lavoro, per puntare a un obiettivo anche giusto come la massificazione, ma a mio pregiudizio facendo danni pedagogici perché il lavoro è un valore da non sprezzare mai, non da sfruttare a piacimento.
A sostegno della mia ipotesi sul disdegno, basta vedere e leggere anche qui su lipperatura, le tante testimonianze di lavori culturali davvero, sotto, o nientepagati, anch’io nel mio piccolo conosco una ragazza che ha lavorato a gratis per mesi e anni in un azienda internet. Ma allora perché tantiragazzi accettano di lavorare gratis o a 200 euro al mese come giornalisti, e tanti altri poi ( o magari gli stessi!) si scandalizzano perché al mc ne prendono 800euri per 24 ore la settimana? Lavorerebbero aggratis una sera in pizzeria? giammai.
invece quell’occupazione alla scrivania gli permetteva con l’immaginazione di sedersi senza sforzo apparente accanto alla nobiltà di sex and the city di vanity fair, della mondadori. e i veri nobili si fanno mantenere, non lavorano, e non puzzano di fritto.
-ooo000OOoLèèè!!!
ciao,k.
ciao a tutti,
scusate se intervengo con tanto ritardo, seguo i commenti da giorni, ringrazio chi ha rilanciato l’articolo (e ammetto che un po’ mi lusinga essere finito qui) e chi l’ha commentato.
Per k, mi spiace se nel pezzo tu ci veda una dose di disprezzo per chi lavora da McDonald’s, ti assicuro che non era mia intenzione, anzi, ho tanti amici che ci hanno lavorato e che mi hanno aiutato a mettere insieme il servizio raccontandomi le loro storie.
Ammetto di non essere un grande sostenitore della cultura del lavoro «in quanto tale» e starei molto meglio senza fare niente nella vita, anche se ammetto che per vivere non devo spaccare le pietre tra le nevi della Siberia né estrarre zolfo dalle miniere di Satanasso.
Le condizioni di lavoro (comunque pessime, a mio giudizio) da McDonald’s possono anche essere simili, o addirittura migliori, di quelle del ristorante dell’angolo, ma – e questa differenza mi pare fondamentale – il ristorante dell’angolo non è una multinazionale che dà lavoro a migliaia di persone, non è un brand di dimensioni mostruose, insomma non è McDonald’s.
Il concetto che volevo far passare – e forse non ci sono riuscito – è che McDonald’s è una fabbrica, non tanto diversa da una Electorolux o da una Merloni, per dire. Una fabbrica di panini, ma una fabbrica è una fabbrica è una fabbrica. Chi ci lavora, posso portare diverse testimonianze a proposito, lo fa per vivere, non perché consideri tutto questo un orizzonte di vita: ed è una posizione a mio modo di vedere nobile, quella di dare via un tot di ore della propria giornata per finanziarsi le altre (cosa, ahimé, necessaria: il compagno fornaio vuole i compagni quattrini per il compagno pane, e ha ragione lui). È anche vero, tuttavia, che non ho mai avuto in gran simpatia l’operaismo come corrente politica e di pensiero.
Nessun pregiudizio radical chic, dunque: ho 24 anni e so benissimo che 800 euro per 24 ore settimanali sono uno stipendio non disprezzabile. Per vivere scrivo in una cronaca locale, e posso assicurare che, per una cifra simile, bisogna lavorare molto di più. O ”sempre meglio che lavorare” molto di più, se si preferisce.
Buona vita a tutti,
mario
Per Mario di Vito.
Leggo che hai scritto “nobile” riguardo la condizione di consegnare le proprie ore di vita ad un lavoro che si tiene in considerazione per il solo ritorno economico. Non ho capito in quale senso usi la parola nobile. Forse nel senso del sacrificio, per contribuire all’economia della propria famiglia?
Da parte mia userei pure questa parola, guardando sia all’aspetto sacrificale verso la famiglia sia all’aspetto sacrificale più esteso. Ossia valoriale della fabbrica, dove si trova la sorpresa di molti esseri umani che cooperano per il bene materiale del nostro mondo, in senso più o meno libero: ogni fabbrica è realmente a sé in quanto a organizzazione e attenzione verso le persone operaie e le persone impiegate d’ufficio. In questa prospettiva, da decenni, abbiamo in realtà una fabbrica ben più articolata della sola produzione di beni materiali, tant’è che pure tu, con il tuo lavoro – non ti arrabbiare per questo, sei un operaio. Un operaio sociale. Sottopagato, credo di non sbagliare, e sfruttato – su questo non so se con il sorriso.
Meno nobile penso invece che sia consegnare le ore della propria vita senza rispondere a quello spirito critico che fa domandare: “il mio contributo a chi serve di più: agli esseri umani che godono concretamente del mio operato e che si rapportano con me felicemente o agli esseri umani ‘altri’, quelli che vedo arricchirsi sulle mie fatiche e che di queste hanno soltanto i resoconti del ‘sentito dire’ e i cospicui resoconti in banca?”, che forse è cosa propria delle multinazionali.
A parte questo, confido anch’io nell’affrancamento dal lavoro – pur non negando quel sentimento che il lavoro stimola nell’uomo e che si comprende bene quando si lavora. Altrimenti ho paura che si finisca come Accattone.
Benvenuti nel mondo delle aziende. Quelle della retorica “siamo tutti sulla stessa barca” quando si tratta di chiederti di sacrificare i tuoi spazi e che poi ti “sacrificano” loro quando le esigenze di mercato chiedono di “tagliare” (ops, si dice “ristrutturare”).
Quelle del cartellino da timbrare, delle 8 ore (o più), della convivenza coatta con colleghi con cui nulla si ha a che spartire se non l’incarceramento quotidiano, del rumore, delle parate, delle frasi fatte ad effetto, dei manager che si commuovono perché va di moda l’intelligenza emotiva etc etc
E ci si chiede: è per questo che hanno lottato le donne? L’autodeterminazione tradotta in schiavitù fuori casa. Coi governi che innalzano sempre più la soglia per la pensione (e riducono l’importo) e aziende che non ti vogliono più dopo una certà età (anche perché cominci a subodorare la fuffa e non ci caschi più). E i giovani che dovrebbero sbattersi per una paghetta. Come se lo scopo fosse il lavoro per il lavoro (o per tenersi occupati) – ma allora il volontariato lo faccio dove dico io, non per un’azienda – e non per avere un reddito che consenta di realizzare i propri progetti (non necessariamente mettere su famigghia).
Sorridi, la vita è bella (il lavoro molto meno)