L'APPRENDISTATO DI MIRTA

Se un
progetto narrativo, distribuito in tre libri, racconta il passaggio dalle
possibilità della prima giovinezza alla consapevolezza delle proprie effettive
capacità e alla, pur dolorosissima, presa di possesso della propria esistenza,
come va definito? La risposta corretta è probabilmente romanzo di formazione. Infatti. Il romanzo che esce oggi può essere
a pieno diritto definito così, anche se ne sentirete parlare soprattutto come
di un horror, o di un dark.

Parlo di Ti porterò nel sangue, terzo volume (dopo
Non mi uccidere e Strappami il cuore) della saga di Chiara Palazzolo dedicata a Mirta,
una ventenne che torna dalla morte e che
nella morte deve imparare a crescere e a mettere ordine nei propri sentimenti,
oltre che a combattere e a pianificare strategie.

Qui trovate notizie sul libro e una
breve intervista all’autrice. La vostra eccetera aggiunge che molto raramente
ha incontrato, dentro e fuori dai generi, una forza inventiva e una cura del
linguaggio come quella che caratterizza i tre libri.

E che, se
non si fosse capito, Chiara è una delle mie scrittrici preferite.

5 pensieri su “L'APPRENDISTATO DI MIRTA

  1. Crepi il lupo! Grazie, mio conterraneo… e poi dicono che le radici non sono importanti!
    E grazie a te, Loredana, per avermi pensata. Il giorno d’uscita del proprio libro è bello e ansiogeno insieme… Un saluto a tutti da Mirta

  2. Ho terminato alle 5 del mattino – dopo una maratona di lettura propiziata dall’attesa al prontosoccorso di Torvergata, la cui porta recita “io etterna duro” – “Ti porterò nel sangue”.
    Voglio ringraziare Madama Lipper per il consiglio e l’autrice per aver scritto questa appassionante trilogia horror.
    Io non sono propriamente un esperto, per cui parlerò per sensazioni e voli pindarici come mio solito.
    Ci sono due cose che ho letto in giro nei commenti di professionisti e fan: Chiara Palazzolo scrive “senza dialoghi” ed è “fortemente cinematografica”.
    E peraltro queste due affermazioni sarebbero perfettamente sequenziali.
    Trovo però che si tratti di due fraintendimenti.
    Formalmente sì, nei 3 romanzi non ci sono quasi mai i virgolettati (se non nei prologhi), e c’è grande presenza di azione e visionarietà.
    Ma in realtà, l’intera trilogia si basa – secondo me – sulla forma dialogica. Spesso strutturata a monologo, ma è di fatto un continuo parlare. Non solo voce dei pensieri. Certo non è un dialogo in senso classico del termine. Sfocia non poche volte nel racconto orale (riguardo alle “vite” passate dei sopramorti). E si inframmezza con osservazioni, descrizioni, idee.
    L’impressione che ho avuto è quella di una voce oracolare, una bocca della verità, da cui staturisse pian piano tutta la storia.
    La voce di Mirta\Luna. Una voce non sempre attendibile, che setaccia il tempo e lo deforma secondo le proprie esigenze. Che soprattutto interviene chirurgicamente nell’intreccio, decidendo con grande prepotenza cosa narrare e cosa tralasciare.
    Come il Cyrano veniva risucchiato dalle rime dello spadaccino, la trilogia dei sopramorti è totalmente aspirata dalla cadenza di Mirta. Quasi ipnotica. Segmentata, puntuta, spezzata in un ritmo quasi sincopato che però – e questo è sorprendente – ti arpiona senza lasciarti scampo.
    E qui c’è anche l’inganno dello stile “cinematografico”. Dipende tutto da che tipo di significato diamo a questo termine. Se si crede che da questi romanzi sia facile trarne un film, ecco io penso “povero lo sceneggiatore!”. Perché quella voce, questo stile di narrazione, sono così splendidamente letterari che diventa difficile tradurli al Cinema. Certo resta la storia, la fabula. Senz’altro ganzissima e sorprendente. Ed è vero che la visione di uno spettatore non assomiglia all’esperienza delle lettura. Ma temo, che su grande schermo tanto si perderebbe del valore del libro.
    Attendiamo Gianni Romoli al varco (pronti a divorarlo).
    *
    La cosa assurda è che dopo le prime 100 pagine, tu lettore inizi a chiederti: “porca miseria ma questa zombie è una crudele assassina! Come fa ad essere così bastarda?”. E quando scopri della sorte di Anno, il valoroso crociato che si è rifiutato di mangiare umani – perché sarebbe stata una violazione del codice (autocondannandosi alla peggiore delle sorti) -, dici: “Allora era possibile un’alternativa!”.
    Ma non puoi far altro che seguire ed incamminarti con Luna nella sua katabasi. Ho provato un’esperienza simile – come lettore – affrontando “L’educazione sentimentale” di Flaubert (a proposito di bildungsroman). Non riuscivo ad accettare Moreau, e al contempo sentivo che non ero in grado di giudicarlo perché probabilmente mi sarei comportato come lui.
    E Mirta fa lo stesso. Quasi tutte le sue scelte sono ben lungi dall’essere positive, eroiche, mitiche. Dettate spesso e volentieri da un irrefrenabile individualismo. Epperò difficile sfuggire alla sua logica (e non-logica). In questo, oltre alla mirabile scelta di scrittura, sta il grandissimo pregio di questo lavoro. Aver finalmente intagliato un ritratto giovanile lontano dagli stereotipi e dai finti buonismi, e soprattutto APPASSIONANTE. Mirta commette una girandola di errori, e quando la mentrice Sara dà il via al suo apprendistato non bastano certo due capitoli (o scene con la chitarra in sottofondo) a trasformare Luna in un’eletta. Precipita innumerevoli volte nel baratro e anche nel finale praticamente restano in piedi più dubbi che risposte.
    *
    Ma la trilogia dei sopramorti non spicca solo per questioni di “anticonformismo” rispetto al genere.
    Come nelle migliori storie la parte migliore è quella diretta alla pancia del lettore: la fetta di torta.
    Che in questo caso è buonissima (e di qui in avanti spoilero con piacere, cavete!).
    Come lovestory: a pagina 1, Robin e Mirta sono affiancati nelle loro tombe. O almeno così pensano. Si cercheranno per 1200 pagine, perché si sono promessi amore eterno (alla Romeo e Giulietta, versione punk). E quando si rincontrano, Mirta\Luna svuota il caricatore del mitra contro l’amato, per ucciderlo e vendicarsi. [Bisogna dire che Chiara Palazzolo non deficia di crudeltà!]
    Come ambientazione: finalmente, finalmente, finalmente il nostro violentato territorio diventa un setting perfetto. Non dobbiamo invidiare New York, Tokyo, né i tempi medievali. Abbiamo di tutto, di più. E mi sembra che sia il Subasio sia Roma abbiano fornito degli spunti perfettamente colti dalla scrittrice. Devo dire che questa tendenza ha già preso piede in alcuni autori nostrani, perché si sta diffondendo. (Solo al Cinema non se ne sono resi conto). Da questo punto di vista il primo dei 3 romanzi, “Non mi uccidere” è quello che più ha osato: più di quattrocento pagine ambientate su una montagna vicino Perugia. Con la protagonista totalmente ignara di tutto, sballottolata da una parte all’altra come una trottola.
    Come personaggi: ce n’è una schiera intera da mandare a memoria. Persino quello più a “rischio” in quanto boss, Gottfried, ne esce alla grande. Non so se giustamente ma quando svela il suo Graal nel finale, io c’ho rivisto una figura Christi. Scoprendo solo adesso che il buon bambin Gesù è stato uno dei primi trai sopramorti. E aveva un sogno anche lui. Gottfried nelle ultime pagine cresce a dismisura, diventa mastodontico, e io che fui amante scatenato della saga di Shànnara, ho subito pensato ad Allanon quando torna dalla morte per consegnare il testimone alla giovane Brin. Lui, imponente, distaccato dagli altri – per necessità – mostra finalmente uno spiraglio. E Luna accoglie la sua verità, ma fieramente oppone il suo desiderio di cercare delle alternative.
    Perché, alla base di tutta la letteratura (in quanto pietra angolare di qualsiasi personaggio complesso) è proprio quello: la lotta contro Ananke, e la scoperta sempre difficile e mai permanente che esiste un’alternativa. E anche Luna dopo tanti errori mi pare approdi a questo lido. Forse il personaggio meno ombroso è quello di Sara. Lei che cerca di darsi un’etica ferrea, l’obiettivo di lottare contro il male, perché evidentemente ci crede ancora. Luna cerca di capirla, di afferrarla, ma alla fine fugge, perché in quell’etica vede soltanto una gabbia. Quando brucia Helena sulla pira di morte, forse lì, si rende conto della tremenda debolezza anche di questi sopramorti. Debolezza, che non è solo umanità (o tornare ad esserlo), come pensa Sara.
    E poi i colpi di scena: mi sembra che tutti e tre i romanzi ne siano ben conditi, pur non essendoci continui mutamenti di fronte. Il dosaggio è pressoché perfetto. Il che senz’altro denota sapienza narrativa.
    *
    Ma anche questo non basta.
    Dagli anfibi con cui calpesta il denaro al mitico gatto selvatico, a Wittgenstein che purtroppo muore anzitempo, ai cavalli plananti dei vichinghi, alla lagrima sul viso (la prima e l’ultima?), a quei variegati rimandi che ho trovato dappertutto (omaggi e citazioni, mai pesanti o pletoriche), al cibo che non sa di niente, agli amplessi volanti tra Sara e Luna, alla perfetta sensazione che gli esseri umani qui siano semplicemente degli esseri un gradino più in basso nella scala alimentare, a Robin che si risveglia nel cemento armato, per finire con la cosa più esaltante di questi zombie sui generis: l’estrema leggerezza, anti-gravitazionale.
    Un horror anti-gravitazionale.
    *
    Sto diffondendo il verbo!
    E perdonatemi tanta prolissità – che in un blog del genere non aiuta – ma primo il post è di due anni fa, secondo devo riprendermi ancora dalla tragica uscita di Nadal dal quarto turno del Roland Garros. E avevo bisogno di un bel ricordo cui appigliarmi!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto