LE 343 E #SAVE194

“Ogni anno in Francia, abortiscono un milione di donne.
Condannate alla segretezza, sono costrette a farlo in condizioni pericolose quando questa procedura, eseguita sotto supervisione medica, è una delle più semplici.
Queste donne sono velate, in silenzio.
Io dichiaro di essere una di loro. Ho avuto un aborto.
Così come chiediamo il libero accesso al controllo delle nascite, chiediamo la libertà di abortire”.
Cinque aprile 1971. Le Nouvel Observateur pubblica quello che passerà alla storia (la piccola storia delle donne, di cui si fornisce menzione in misura molto minore rispetto a quella degli uomini) come le manifeste des 343, ribattezzato dopo pochi giorni come le manifeste des 343 salopes (le 343 puttane, più o meno). Scrive il testo, e firma,  Simone De Beauvoir. Lo firmano, fra le altre, Catherine Deneuve e Marguerite Duras, Violette Leduc e Ariane Mnouchkine,  Jeanne Moreau e Françoise Sagan.
Dopo quasi quattro anni, la Francia ebbe una legge che permetteva l’interruzione di gravidanza.
L’autodenuncia è stata una prassi fortissima anche in Italia.  Nel 1975  furono molti a essere arrestati dopo aver pubblicamente annunciato di aver procurato aborto: Adele Faccio e Emma Bonino, fra i molti altri.
Ora, però, a quella prassi ne va unita un’altra. Alla passione, deve unirsi la razionalità. Per questo, riporto qui integralmente l’intervento di Chiara Lalli apparso su giornalettismo. Riflettiamoci.
“Come si difende una legge o una posizione morale? Costruendo argomenti non fallaci e che resistono alle obiezioni, un po’ come un avvocato costruisce la difesa del suo assistito.
A contare è l’argomento e non chi lo sostiene. L’argomento d’autorità (“X è vero perché lo dice Y”) non funziona. Nemmeno appigliarsi a qualche fonte superiore, come un dio o una legge morale universale fissata da qualcuno. Già da secoli il dilemma di Eutifrone ha bloccato questi tentativi. La razionalità è il nostro dominio di scontro e il criterio per decretare il vincitore.
Offrire un argomento ha dei vantaggi, ma è più faticoso del dire “io c’ero”. Non esclude la presenza di testimonianze o di argomenti emotivi, che possono essere utili e magari facilitare l’empatia nell’uditorio. I vantaggi stanno nel potere di persuasione – anche le testimonianze possono averlo, ma è un potere molto più fragile. Per questa ragione la difesa di Lella Costa della 194 è una testimonianza e non una difesa in senso forte, anche se potrebbe sembrare il contrario dall’attacco: “La legge 194 è una buona legge”. E per questo è pericolosa, perché facilmente impugnabile dagli oppositori. Potremmo dividere gli uditori della testimonianza della 194 di Costa in 3 tipologie. Chi è già convinto che la 194 vada difesa: la lettura sarà superflua, magari avrà voglia di scrivere che è meglio argomentare che limitarsi a testimoniare.
Chi è indeciso, perché non sa e perché non riesce a costruire ragioni forti per una posizione o l’altra: la lettura sarà scarsamente utile a tal fine, o meglio potrebbe servire a convincere ma non a difendere (vedi tipologia 3). Chi è contrario: costui potrebbe demolire facilmente la difesa della 194 se messa in questi termini. Sarebbe come entrare nell’accampamento nemico mentre tutti dormono. Costa non tira fuori una sola ragione forte per difendere la possibilità di abortire legalmente: che sia doloroso o che serva rispetto sono descrizioni emotive, ma un detrattore della 194 potrebbe agilmente demolire la liceità dell’aborto. Perché? Perché molte altre azioni sono dolorose e meritano magari rispetto, ma non potremmo aspirare a farle essere legali o moralmente ammissibili. Perché nulla si è detto sullo statuto embrionale e nulla sui diritti e sui conflitti che dobbiamo affrontare quando una donna decide di interrompere una gravidanza.
Fermarsi sul piano emotivo (“ci sono passata due volte”) è rischioso. Se non segue una difesa razionale, il castello di carta crolla al primo sospiro. Ecco perché è necessario costruire argomenti razionali da poter difendere di fronte a chi la 194 vorrebbe eliminarla, a chi vorrebbe rendere l’aborto illegale e farlo affondare in una condanna morale senza appello. A chi in nome della difesa della vita (prolife) vuole cancellare la scelta (nochoice) rianimando argomenti che puzzano di muffa. Il diritto è una protezione formale (una donna può interrompere la gravidanza in determinate circostanze), le motivazioni e le ragioni di ogni donna non si possono appiattare e ridurre alla tua, offerta come esempio universale, accompagnata da un sorriso paternalistico. Gli stati mentali e i vissuti delle donne non coincidono solo perché hanno abortito, cioè hanno compiuto la stessa scelta. E questo è il punto da difendere: la scelta.
Ogni donna deve poter scegliere. Judith Jarvis Thomson lo ha spiegato molto bene 40 anni fa in un articolo che ancora in molti non hanno letto (A Defense Of Abortion, 1971, Philosophy & Public Affairs, 1, 1).
Caterina Botti, molti anni più tardi, scrive (Sull’aborto, 2009, Iride): “la questione dello statuto morale dell’embrione è mal posta, se posta in modo indipendente dalla donna, e che uno dei pochi modi che abbiamo di risolvere la questione dello statuto morale dell’embrione sia quello di volgerci alla donna che lo porta in grembo. In questa ottica, l’aborto non è dunque un atto immorale, ma al contrario un gesto o una scelta che nasce da un contesto di inevitabile e peculiare responsabilità”. Anche la Corte nel 1975, nella sentenza che ha depenalizzato l’aborto e ha preceduto la legge 194, aveva centrato il bersaglio: il bilanciamento tra diritti nella peculiare e unica situazione che è la gravidanza. “La scriminante dell’art. 54 c.p. si fonda sul presupposto d’una equivalenza del bene offeso dal fatto dell’autore rispetto all’altro bene che col fatto stesso si vuole salvare. Ora non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare.”
Se una donna è incinta non è moralmente possibile costringerla a portare avanti la gravidanza. Sarebbe anche di fatto difficile farlo: la si controlla a vista? La si mette in una clinica o in prigione? Non ci si può dimenticare che la protezione dell’embrione o del feto passa sopra all’autodeterminazione della donna e le sue decisioni non possono essere ignorate. Significativo, al riguardo, il caso di Samantha Burton sul New England Journal of Medicine di pochi giorni fa (Court-Ordered Care — A Complication of Pregnancy to Avoid, june 14, 2012): “why should pregnancy diminish a competent adult woman’s right to refuse care? Citizens have no legal duty to use their bodies to save one another; even parents have no such legal duty to their children. It follows, then, that “a fetus cannot have rights in this respect superior to those of a person who has already been born” (In re A.C.).”. Prima di tutto quello rimane il corpo su cui abbiamo la possibilità di scegliere. Si può scegliere in molti modi diversi. Anche di non curarsi e di lasciarsi morire pur di portare avanti una gravidanza. Anche di interrompere una gravidanza.
Avere la presunzione di parlare a nome di tutte le donne – dal punto di vista emotivo e non giuridico, quello si deve fare perché dovremmo essere tutti uguali sul piano dell’accesso a un servizio – somiglia alla negazione della scelta, la cui diversità deriva precisamente dalle differenze individuali. Differenze che valgono anche sulla reazione all’aborto.
Assumere che tutte le donne che abortiscono vorrebbero quel figlio è cieco paternalismo, è una forma di quella stantia identificazione tra donna e madre. Madre sempre e comunque. Leggere farebbe bene: si scoprirebbe che molte donne scelgono. A volte è doloroso, inconsolabile, a volte conflittuale, altre è una liberazione. Se si è così ciechi da non vederlo, si continua a sventolare il fantasma del dramma sempre e comunque. Del dramma intrinseco, cancellando tutto il resto”.

3 pensieri su “LE 343 E #SAVE194

  1. Il tentativo di Chiara Lalli è apprezzabile, ma non va oltre la critica alla testimonianza della Costa.
    La petizione di principio della Botti non risolve il problema, né possono farlo tutte le altre ricostruzioni che si basano sulla libertà di scelta della donna.
    Il problema serio è a monte: la libertà di scelta di un individuo preesiste alla società o è il frutto di una scelta politica e morale di questa? La prima tesi – diciamo giusnaturalista – è destinata a cadere sotto le stesse obiezioni che Chiara Lalli muove nell’apertura dell’articolo (ipse dixit, giuspositivismo etc.). La seconda, invece, costringe ad ammettere che la socetà ha il pieno diritto di concedere, revocare e subordinare a condizione l’esercizio della libertà della donna e di ogni altro individuo in base a criteri da essa stessa stabiliti.
    La sentenza della corte costituzionale non solo non può risolvere questo dilemma, ma non può nemmeno spiegare perché e in che misura l’interesse alla salute della madre e quello alla vita dell’essere prenatale sono confrontabili.
    Il nodo è qui.
    Ammettendo che siano interessi confrontabili – perché probabilmente lo sono -, il diritto alla salute comunque non ha sempre la stessa intensità: il taglio di un dito è certamente una lesione al diritto alla salute diversa da quella provocata da una fucilata in petto. E probabilmente anche la vita non ha sempre lo stesso valore – anche se la dimostrazione in questo caso è molto meno intuitiva e facile.
    E allora quello che bisogna sforzarsi di dimostrare è che il danno che la madre avrebbe dalla gravidanza e dalla nascita sarebbe ragionevolmente maggiore di quello che l’essere prenatale subirebbe dal non nascere.
    Se si riesce a dimostrarlo la 194 – e in generale l’ammissibilità legale dell’aborto – diventa inattaccabile.
    Ma se non ci si riesce, è meglio rassegnarsi a combattere casa per casa l’affermazione di un principio che non ha altro valore di una scelta morale ritenuta universale da alcuni membri della società, con la speranza che chi ascolta non si ricordi delle obiezioni che Chiara Lalli ha mostrato così lucidamente nell’inicipit dell’articolo.
    (chiedo ancora scusa per l’indirizzo mail temporaneo ma il mio non è stato ancora ripristinato)
    p.s.: nessuno deve ragionevolmente preoccuparsi per la 194: la Consulta respingerà fermamente la questione – che peraltro penso legittima – del giudice di Spoleto; speriamo la motivazione sia basata sui diritti fondamentali e non sulla legalesca distinzione fra fini commerciali e fini “terapeutici”.

  2. Esiste una disparità, un’asimmetria non colmabile: un feto non sopravvive al di fuori dall’utero di sua madre. Per per quando si parla di aborto entro i 90 giorni. E non è possibile costringere una persona, una donna, a proseguire una gravidanza non desiderata. In realtà ci sono riusciti – storicamente – solo i gesuiti che gestivano le case dei catecumeni. Se una donna incinta veniva denunciata perché poteva aver espresso il desiderio di convertirsi o veniva offerta da un familiare già convertito, veniva trattenuta oltre i quaranta giorni di legge previsti, alla fine dei quali se il soggetto non manifestava alcun desiderio di convertirsi avrebbe dovuto essere liberato. Le donne gravide, invece, venivano trattenute fino al parto – il bambino o la bambina era battezzato (contro il parere dei parenti) e alla sventurata si poneva la scelta se abbandonare la prole o se convertirsi anche lei. Spogliato dai suoi aspetti religiosi, non mi pare un buon modello da seguire.
    Per quanto riguarda l’aborto terapeutico – particolarmente doloroso perché si tratta di gravidanze cercate e volute – nessuno può imporre o valutare se una coppia è in grado di gestire o reggere gravi malformazioni del loro bambino. Forse i “pro life” dovrebbero darsi pace su questa asimmetria biologica. Una donna che non vuole una gravidanza – trova comunque un modo per abortire e mette a rischio la sua vita e la sua salute.
    Storicamente, l’obiezione di coscienza – a qualunque legge dello stato – passa per un patteggiamento: io stato ti permetto di non adempiere a questa legge in cambio di qualcosa. Quando esisteva l’esercito di leva, gli obiettori dovevano lavorare nel servizio civile qualche mese in più della normale ferma militare.
    Gli obiettori all’aborto nulla danno alla società, non sono sanzionati in alcun modo, non devono coprire più turni ecc. ecc.
    In ultimo – nessuno costringe chi non vuole ad abortire. E la democrazia è anche lasciare agli altri la libertà di scelte che non farebbero per se stesse.

  3. La sentenza della Corte Costituzionale citata dalla Lalli [n. 27 del 1975]si legge qui
    http://www.giurcost.org/decisioni/1975/0027s-75.html
    .
    L’argomento preso dalla sentenza:
    “[…] non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare.”
    che serviva alla Corte per escludere l’applicabilità dell’art 54 c.p. (causa di giustificazione dello stato di necessità) è pertinente non soltanto circa l’aborto terapeutico ma anche nel caso di ‘diritto alla procreazione cosciente e responsabile’.

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