LE FINESTRE DI WUHAN

“Sono invecchiati in un altro modo. Vivono in mezzo alle cose ereditate, ai regali, ed ogni mobile per loro è un ricordo. Pendole, medaglie, ritratti, conchiglie, fermacarte, paraventi, scialli. Hanno armadi pieni di bottiglie, di stoffe, di vecchi vestiti, di giornali, hanno conservato tutto. Il passato è un lusso da proprietari.
Ed io dove potrei conservare il mio? Non ci si può mettere il passato in tasca; bisogna avere una casa per sistemarvelo. lo non possiedo che il mio corpo; un uomo completamente solo, col suo corpo soltanto, non può fermare i ricordi, gli passano attraverso. Non dovrei lagnarmi: il mio solo desiderio è stato d’esser libero.”
La Nausea, Jean-Paul Sartre
Riscopro le parole di Sartre, lettura antica dei miei sedici anni, nella citazione di mia figlia a corredo di una sua fotografia, perché anche i libri passano da madre a figlia, con la diversità sacrosanta con cui tratteniamo le loro parole e le adattiamo a noi. Penso ai libri, in questi giorni. Penso, e qualcuno sorriderà per la banalità dell’accostamento già sfruttato in decine di corsivetti ed elzeviri, a La peste di Camus. Ci penso quando, come tutti, guardo il video che viene da Wuhan, con quelle finestre illuminate, non tutte peraltro, nei grattacieli, e le voci che si rincorrono e spezzano il silenzio, da una finestra all’altra, gridando Wuhàn jia yóu, Forza Wuhan, e salgono dal basso verso l’alto, e si inanellano e fanno eco, come per dire siamo qui, siamo vivi.
Come tutti, leggo le cronache con avidità che non mi riconosco, lascio che il distacco scivoli via. Perché ci sono paure antiche, che le storie (già, le storie fantastiche soprattutto) si incaricano di ricordare e alleviare. Ci sono le immagini. La peste di Azoth, di Nicolas Poussin. Gli appestati fuggono in avanti verso lo spettatore e dietro rimangono in pochi, accosciati sugli scalini, alcuni con la testa fra le ginocchia, altri lasciandosi andare all’indietro, perché infine lottare è inutile. E altri sperano ancora, invece, e una donna si guarda alle spalle per vedere se l’angelo della peste la insegue, mentre a terra c’è una madre giovane con i seni scoperti, e uno dei figli lattanti è già morto, e l’altro piange cercando di arrampicarsi su di lei, o forse di sostenersi, o infine piange perché non può fare altro. Non c’è fuga dal castigo di Dio, per i filistei che rubarono l’Arca dell’Alleanza.
E tutti quei racconti.
Sempre comincia con il cielo che schiaccia gli uomini. La caligine spessa, così la chiama Ovidio, che cala sulla terra. Le nubi che si saldano una con l’altra formando una morsa d’afa spossante. Comincia così, con l’aria che si ferma e diventa pesante per quattro mesi, e in quella cappa, diceva sempre Ovidio, migliaia di serpenti strisciano in campi desolati, e contaminano i fiumi con il loro veleno. Comincia con il non potersi muovere per il caldo soffio del vento, e nel non vedere la serpe che fra l’erba sparge quella che non è ancora morte, ma lo diventerà.
Sempre così, avveniva, e finiva con il silenzio, e poche voci. Così nella grande peste nera del Trecento, quando le campane non suonano più, e i cronisti seppelliscono da soli i figli, e intanto aggiornano le cronache, e persino c’è quel monaco irlandese, John Clyn, che è l’unico sopravvissuto e che, morente a sua volta, spera che al mondo sia rimasto almeno un uomo in grado di raccontare. La peste nera uccise i cronisti, e Giovanni Villani a Firenze muore a metà di una frase, e i medici e i sarti e i notai e i cardinali, tutti. Venticinque milioni di persone uccide la peste nera, un terzo degli abitanti d’Europa. E’ Dio a mandarla, diranno. Poi Dio si acquieta, ma tre secoli dopo la peste si ripresenta e ripulisce le città, specie dai poveri, e qualcuno dirà poi di nuovo che la strozzatura malthusiana era necessaria. Non era così vero. Dopo le epidemie di peste la mortalità non diminuì: altri flagelli intervennero, il tifo, e il vaiolo, e la tubercolosi che era semplicemente più lenta. La sconfitta di un flagello apre porte su altri orrori. E si può sconfiggere solo quando si è insieme. La natura è più forte degli uomini. Gli uomini possono sperare di batterla, momentaneamente, solo unendosi.
Questo penso, mentre leggo. E penso agli oggetti narrati da Sartre, e al lusso di quel passato cui rinunciare per la libertà. E penso anche che liberi non possiamo essere, se non riusciamo a maneggiarlo, a capirlo, a superarlo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto