IL VOTO, LE NOCCIOLE, LE MARCHE

D. Crede anche nella letteratura come mezzo per informare l’opinione pubblica?
R. Sempre meno, per come vanno le cose: ma ci credo.
D. Qual è il posto e il compito di uno scrittore nella società moderna?
R. Per quello che mi riguarda, quello di guastare il giuoco. L’enorme giuoco a incastro in cui il potere, in ogni parte del mondo, si realizza.
Panorama, 8 novembre 1973
Colui che risponde è Leonardo Sciascia. Lo abbiamo evocato, nei tre Giorni della merla che si sono conclusi ieri a Macerata, in grande bellezza, perché Giacomo Papi, Stefania Auci e Marcello Fois sono stati portatori di storie che sanno guardare al presente.
Poi c’è stata la notte elettorale, ed è andata bene, grazie al cielo. Però, a costo di guastare non “il giuoco” ma la giustissima festa, qui si vuol ricordare che in primavera si vota nelle Marche. E che sarà durissima. Per il semplice motivo che quel territorio ferito, lo Sconfitto di ieri lo ha battuto fin dai primi giorni dopo il terremoto del 2016. Ha assaggiato ciausculi, certo, ha indossato felpe con su scritto Visso, certissimo. Ma è anche andato nelle case di chi veniva sfrattata, ultranovantenne, per un cavillo.
Certo, durante il suo governo poco o nulla ha fatto per mantenere quelle promesse di ricostruzione e vicinanza che ha così facilmente elargito. Ma c’è stato. Ha frequentato le famigerate sagre che tanto vengono schifate, laddove sono le eredi delle antiche feste dell’Unità, dove chi è solo può stare con gli altri e chi è povero mangia con pochi spicci. Il tutto mentre dal governo della Regione veniva freddezza, sarcasmo contro chi protestava per il freddo e la muffa nelle Sae o per la perdita di una casa di famiglia, e nel contempo si rilanciava il turismo sulla costa, nelle zone non toccate dal sisma.
La lezione dell’Emilia Romagna dovrebbe insegnare questo: non si perde quando c’è comunità, e calore. Si perde quando (e sono certa che la tentazione è forte) si è gelidi e distaccati si cerca il candidato immagine: magari, dai, un imprenditore della zona, come è avvenuto in Umbria. Si perde quando non si parla con le persone.
Si perde quando non si dà attenzione pubblica, e pubblica discussione, su quel che nella Regione avviene. Per esempio. Il 28 novembre 2017 la Fondazione Aristide Merloni promuove, in collaborazione col Censis, la conferenza Salvare l’Appennino, nella quale si avanza la proposta, tra le altre, di “un progetto per la coltivazione delle nocciole, che punti alla qualificazione, alla modernizzazione e all’aggregazione dell’offerta, da sviluppare in collaborazione con Ferrero”. Nei mesi scorsi la Ferrero ha stipulato un ‘contratto di filiera’ nell’area di Potenza Picena, mentre la Loacker si sta muovendo nell’area di Matelica e di Loro Piceno, entrambe con referenti imprenditoriali locali e con l’interesse di Coldiretti.
Cosa buona? Tutto da vedere, davvero. Se ne discuterà a Tolentino sabato 8 febbraio, e vi darò notizie del programma esatto. Qui, per pensarci su, la lettera di Alice Rohrwacher a Repubblica, di un anno fa.
(E comunque, evviva, sì)
“Caro direttore, voglio lanciare sul suo giornale un appello alla presidentessa della Regione Umbria, Katiuscia Marini, al presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, e al presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi. Scrivo nella speranza di trovare sia un’istituzione che abbia a cuore il proprio territorio e chi lo abita, sia una politica desiderosa e capace di pensare uno sviluppo vero e comunitario, sostenibile per tutti. Vivo e lavoro nell’altopiano dell’Alfina, tra Orvieto e il lago di Bolsena, là dove il confine tra Umbria, Lazio e Toscana è quasi invisibile, e per questo mi rivolgo ai tre governatori.
Qui ho realizzato due film, Le Meraviglie nel 2014 e Lazzaro felice nel 2018.
È un territorio con cui ho un legame molto intenso, un paesaggio che porto con me come una spada fatata, come un talismano. Eppure oggi, ad appena pochi anni – o addirittura mesi – di distanza, mi sarebbe difficile immaginare tali film in questo luogo. Non qui. Che cosa è successo? Ebbene, nell’ultimo anno sono stata spesso lontana da casa per motivi legati al mio lavoro, e al mio ritorno ho assistito a quello che, senza esagerare, definirei come uno dei più drastici cambiamenti del territorio da quando sono nata: un paesaggio nuovo, del tutto trasfigurato, dove campi, siepi, alberi scompaio-no per lasciar posto a impianti di nocciole a perdita d’occhio.
Niente, sia chiaro, contro le nocciole: non credo che di per sé questa sia peggiore di altre monocolture. Ma sono sgomenta di fronte alla vastità e alla pervicacia di un fenomeno che tutto ha invaso, dal bacino del lago di Bolsena all’Affina e alla Maremma. Il cuore del paesaggio italiano si sta trasformando in una monocoltura perenne, che sta cancellando ogni cosa. Non sto parlando della somma di tanti piccoli ettari dove economie familiari investono per integrare i propri redditi agricoli ma di grandi multinazionali che plasmano e trasformano interi territori. Addirittura, molti piccoli contadini e allevatori con cui mi sono confrontata durante le riprese hanno sempre più difficoltà ad accedere alla terra per svolgere le loro attività, perché tutto il suolo fertile viene venduto a caro prezzo per questa unica grande monocoltura.
Loro stessi vengono corteggiati su più fronti ad entrare a fare parte di questo processo di trasformazione con il miraggio di lauti guadagni. Sono preoccupata. Non è la preoccupazione estetica del cittadino che vuole la bella campagna per rilassarsi la domenica. Fenomeni di tale vastità non possono non avere un impatto sull’ambiente e sull’assetto socio-economico di un territorio. Mi rendo conto che è una preoccupazione difficile da condividere perché non ha l’evidenza di un ecomostro su una spiaggia, ma si tratta di una trasformazione subdola che aggredisce un equilibrio complesso e che non si può cancellare con un po’ di dinamite.
Gli esempi del degrado esistono: l’impatto di queste monocolture si è già palesato proprio nella Tuscia e nei Cimini, dove tra tanti tragici eventi l’eutrofizzazione del lago di Vico ha compromesso l’intera vita delle sue acque. Mi sembra chiaro che siamo davanti a un fenomeno che trasforma il bene di pochi nella maledizione di tanti. Quali saranno i contraccolpi di un cambiamento così radicale del paesaggio, quali saranno le conseguenze dei trattamenti, dei fertilizzanti, dei diserbanti di una coltura così intensiva? Sono state fatte le dovute valutazioni di impatto ambientale, sulla salute pubblica, sulle preziose falde acquifere, sulle relazioni socio-economiche, sul turismo, per trasformazioni di tali vastità? Sono state coinvolte le istituzioni competenti, le Università, i comitati, la società civile per valutare se questa trasformazione sia davvero positiva per il territorio nel suo insieme? Se ritengono positivi tali cambiamenti, invito i tre presidenti a spiegarli a me e alle tante persone come me che assistono attonite a questa trasformazione. Se invece condividono le nostre preoccupazioni, agiscano guarito prima nel riprogettare le politiche di sviluppo di un territorio che appartiene a tutti noi.”

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