LE MADRI HANNO SEMPRE TORTO

Come cominciare l’anno: per esempio, leggendo in
ritardissimo Tu non mi conosci di Joyce Carol Oates. In proposito, c’è
un passo di un’intervista rilasciata dalla scrittrice a Maria Vittoria
Vittori di Liberazione che riporta un po’ alle tematiche già affrontate qui.

C’è un dramma latente o in fase di esplosione in quasi
tutte le storie di famiglia che racconta. Come mai la vita familiare è
diventata così difficile?

Come tanti altri scrittori, non scrivo di persone felici.
Non mi interessano. Ma non mi sono mai occupata di guerre come invece fanno
tanti autori, soprattutto di sesso maschile. Io mi sono spesso occupata e
continuo ad occuparmi della vita familiare, ma la situazione non è poi così
diversa: in entrambi i casi, il conflitto è elemento essenziale e costitutivo.
Non era così negli anni Trenta e Quaranta, il periodo della mia infanzia. » a
partire dagli anni Sessanta che questo contrasto tra generazioni ha assunto un
carattere sociale: da quando i giovani si sono rifiutati di partire per il
Vietnam, di combattere quella guerra. » da quel momento che il concetto di
famiglia è cambiato e si è modificato sempre più rapidamente fino ad esprimere,
attualmente, un contesto pieno di conflitti.

Non c’entra nulla con Oates: ma curiosamente, insieme ai
suoi racconti, ero alle prese con un saggio che riguarda-anche- il modo in cui
la famiglia viene rappresentata presso i giovanissimi lettori. Bene, i conflitti
familiari sono presenti anche nei testi per i bambini: ma, dati alla mano, la
responsabilità dei medesimi viene attribuita nella maggior parte dei casi alle
madri. Anche nei testi scritti da donne, peraltro.

Ci torno.

15 pensieri su “LE MADRI HANNO SEMPRE TORTO

  1. Del resto nelle fiabe c’è la matrigna, il patrigno finchè non abbiamo scoperto gli abusi sessuali era assente.
    La donna è madre, la madre nutre, non si può rischiare che avveleni i cibi, se li avvelena non è più madre è matrigna (non per nulla uno degli avvelenamenti di Biancaneve è da mela).
    Sarei curiosa di sapere se le storie in cui la madre è fonte di conflitto son scritte da donne, penso di sì. E’ la madre il vero punto cruciale delle femmine, mi dispiace per Freud.

  2. Il problema, alcor, è proprio che il destino femminile viene tramandato dalle donne stesse. Il punto è: la psicanalisi ne ha consapevolezza, le pensatrici anche. Ma questa consapevolezza non si trasferisce nelle storie, scritte e no. Finchè questo non avviene, la questione rimane…

  3. Perché cambino le storie deve però cambiare la realtà. Intendo che deve cambiare non solo profondamente, ma in modo diffuso e capillare. E in modo capillare non è cambiata. Cosa fa il maggior numero di donne? Non le élites formate da donne cittadine, laureate e che lavorano, ma le altre, quelle che non conoscono le pensatrici né la psicanalisi e che se lavorano investono nel lavoro solo una parte di se stesse? Intendo la gran parte delle insegnanti e delle impiegate che pure lavorano in modo eccellente, ma il cui occhio è però rivolto verso casa. Anche solo una casa simbolica, ma profondamente incistata nelle loro inconsapevoli fibre. Conosco pochissimi uomini che non abbiano una specie di movimento estroflesso, che non pensino di dover trovare il riconoscimento di sé “fuori”, nel lavoro. Per le donne non è quasi mai totalmente così.
    Questo fa la nostra ricchezza, e anche sanità mentale, in un certo senso, ma certo è una zavorra nel momento in cui si vogliano creare nuovi mondi dell’immaginazione e del pensiero. La spinta non è abbastanza forte, e non è abbastanza supportata. E credo che sia anche in parte per questo che abbiamo così poche politiche, non solo per il maschilismo dei partiti, che pure è forte. In tutto, e anche in questo, donne e uomini fanno ognuno la loro parte.
    Anche se i cambiamenti sono così rapidi che forse tra vent’anni questi saranno discorsi obsoleti.

  4. Segnalo questo interessante articolo, dal quale estraggo un passo (ma andrebbe letto tutto):
    «[…] Si può continuare a pensare, se e quando serve, nei termini dei due stili di comunicazione, a patto però di non cadere nell’errore di collegarli al sesso biologico delle persone coinvolte.
    I due stili di comunicazione vanno piuttosto intesi come i due poli di un’opposizione stereotipata mediamente condivisa nella cultura occidentale, che come tale ha una rilevanza simbolica, e dunque un valore euristico, indipendentemente da ogni statistica sui suoi legami col sesso biologico. Secondo questo stereotipo, come sappiamo, gli uomini sarebbero più aggressivi e autoritari e le donne più gentili e collaborative, e ciò varrebbe in generale, non solo nella comunicazione.
    Ora, la ricerca deve innanzi tutto prendere atto dello stereotipo, quindi analizzarne i presupposti e le implicazioni concettuali, infine cercare di prevederne le conseguenze pratiche, ma non deve mai dimenticare che è uno stereotipo, altrimenti cadrà nella tentazione di orientare i dati in modo che lo confermino, come a volte fanno gli studi su gender and language.» (Giovanna Cosenza, 2003)

  5. Stereotipo non vuol però dire automaticamente falso.
    Mi aspetto molto dalle neuroscienze, ma dispongo anche di una piccola osservazione sul campo. Se un uomo sta apparecchiando la tavola e deve raccontare qualcosa, si ferma, e riprende ad apparecchiare quando ha finito, una donna no.
    Che sia natura o cultura non so, ma certo i cervelli qualche differenza la devono avere.
    E scusate se sono subito scesa sul brutale pratico, ma osservare aiuta.

  6. Grazie per la segnalazione, Giro: preziosissima.
    E, Alcor: mi soffermo su quel “Perché cambino le storie deve però cambiare la realtà”. In realtà il movimento è duplice: per essere franchi, a chi sosteneva che rivendicare diritti sul piano legislativo e sociale era sacrosanto, ma che sarebbe divenuto inutile se non ci si muoveva sul piano della rappresentazione simbolica, all’epoca si facevano spallucce.
    Ora quella mancata azione sul simbolico (attraverso: libri, libri di testo inclusi, moda, giochi, televisione, fumetti, film e tutto quanto può rientrare nella definizione di immaginario) fa sì che ci sia stato un evidente ritorno indietro. E guarda che vado sul pratico anch’io: un solo esempio possibile fra i molti, la rappresentazione dei ruoli maschili e femminili nella pubblicità. Facci caso…

  7. Son d’accordo, ma se si torna indietro così facilmente com’è successo, vuol dire che
    quella realtà che si era creduto di aver modificato era apparente, superficiale.
    Io per esempio mi sento umiliata dalle quote rosa, e diffido, perché di avere dieci donne sceme solo perché ce ne vogliono dieci, mi dà fastidio. Ma per ora le esigo. Visto come stanno le cose le voglio a tutti i costi. Poi, quando la realtà sarà cambiata, le toglieremo.
    E vorrei tante altre cosette istituzionali che non dirò qui, per non intasarti i commenti, ma che ogni donna che lavora sa. Prima facciamo la parte grossa del lavoro, poi sottilizzeremo. Ho sempre pensato che fosse un brutto metodo, scorretto, ma questo è un paese che negli anni cinquanta legava il fazzoletto sotto il mento alle donne con il vincolo del controllo sociale, e ce lo siamo dimenticato. Quanti sanno, in questo paese, quando è stato dato il voto alle donne? Mi piacerebbe saperlo, e sono sicura che per riprendermi dovrei bermi un gotto.

  8. Beh, per consolarti – o viceversa per amareggiarti e spingerti al gotto – ti posto quello che scriveva Elena Gianini Belotti nel lontano 1973:
    “La parità di diritti con l’uomo, la parità salariale, l’accesso a tutte le carriere sono obiettivi sacrosanti e, almeno sulla carta, sono già stati offerti alle donne nel momento in cui l’uomo l’ha giudicato conveniente. Resteranno però inaccessibili alla maggior parte di loro finché non saranno modificate le strutture psicologiche che impediscono alle donne di desiderare fortemente di farli propri. Sono queste strutture psicologiche che portano la persona di sesso femminile a vivere con senso di colpa ogni suo tentativo di inserirsi nel mondo produttivo, a sentirsi fallita come donna se vi aderisce e a sentirsi fallita come individuo se invece sceglie di realizzarsi come donna”.

  9. Mi permetto di inserirmi, come autrice dell’articolo citato da Giro (che ringrazio), e come estimatrice sia di questo blog che di quello di Alcor.
    Sono d’accordo con Lipperini sullo scambio continuo fra il piano simbolico e quello reale. Sono però d’accordo anche con Alcor sulla necessità che il cambiamento reale debba trovare sostegno e conforto (sempre reale), per poter produrre cambiamenti simbolici degni di rilievo.
    Io stessa, donna biologica e sociale, cerco continuamente di lavorare sul simbolico – come studiosa di comunicazione – per scovarli e neutralizzarli il più possibile, questi maledetti stereotipi, anche quando sono al lavoro senza che li vediamo. E anche quando paiono a nostro favore – dico nostro di donne – perché ci fanno belle gentili buone e piene di sentimenti.
    Perché è vero che stereotipo non vuol dire automaticamente falso, come dice Alcor, ma è pur vero che molti stereotipi creano in anticipo le condizioni per avverarsi (come le famose profezie).
    Ma per lavorare sul simbolico in un modo che sia un minimo interessante, mi tocca scegliere, tutti i santi giorni e con grande fatica, uno stile di vita che potremmo dire maschile, e cioè poco o nulla orientato alla casa (neanche simbolica). Con un certo costo personale, come immaginerete.
    Col che, non volevo parlare di me ma solo ribadire, con Alcor, che almeno in Italia “la spinta non è abbastanza forte, e non è abbastanza supportata”.
    Ma il discorso si fa lungo.
    Scusate l’ingombro.
    Ciao a tutti e grazie a Lipperini per le cose interessanti che sempre ci fa leggere,
    Giò

  10. …e a questo punto mi sento obbligata ad aggiungere che da ragazzina sono cresciuta a pane e “Dalla parte delle bambine”, letto di nascosto da mio padre, siculo retrivo trapiantato al nord con cui litigavo quotidianamente per ottenere il diritto di esistere.
    😉

  11. Che bello leggerti qui, Giovanna, oltre che su Golem!
    Solo una piccola chiosa a quello che giustamente scrivi: è che per lavorare efficacemente sul simbolico e sul reale bisogna cominciare da piccoli/e. O meglio, bisogna che qualcuno cominci a lavorare efficacemente in questa direzione.

  12. …ehm… grazie per l’accoglienza: sono pure diventata rossa.
    Molto femminile, no?
    🙂
    Ora però devo scollegarmi.
    Perché ho altro da fare, direbbe un uomo.
    Perché mi tocca fare la spesa, dico io…
    Ri-ciao
    Giò

  13. “Bene, i conflitti familiari sono presenti anche nei testi per i bambini: ma, dati alla mano, la responsabilità dei medesimi viene attribuita nella maggior parte dei casi alle madri. Anche nei testi scritti da donne, peraltro.”
    Mia cara, fino a quando l’editoria femminile sarà in mano al FUMER (Fronte Unito Megere Editoria per Ragazzi), i testi selezionati e pubblicati non potranno che restare corrivi e retrivi…:- )

  14. Ciao Loredana,
    Ciao Giovanna,
    Due bei nomi…. e la mia stereotipata galanteria inizia e finisce qui. 🙂
    Volevo solo dirvi che in ogni caso gli stereotipi (di qualsiasi tipo) devono essere sempre abbattuti; è vero che il simbolico ne crea di nuovi, ma confido in donne(poche) e uomini (forse meno) che sono pronti ad abbatterli di nuovo.

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