LE PAROLE (DENSE) DI BENIAMINO

Ci sono momenti in cui ho bisogno delle parole degli altri. Succede quando ne usi troppe per troppo tempo, o quando il brusio da social network ti stanca o ti fa cadere le braccia. E’ accaduto giusto poco fa: ieri sera ho scritto uno status sugli uffici stampa editoriali – donne, d’abitudine-, e su come si tenda troppo spesso a considerarle cameriere anziché colleghe, al servizio del fulgido critico alpha – maschio, d’abitudine – e ne risultano commenti sulla (troppa) femminilizzazione della letteratura.
Pazienza.
Dunque, in questi casi, mi rivolgo a Beniamino Placido, indimenticato per me, forse dimenticato da troppi. Questo è il suo Nautilus del 21 aprile 1996, quasi vent’anni fa. Sbuffa, da par suo, sulla critica e la leggerezza calviniana. Amatelo

Per carità di Dio, che la si smetta. Che si sospenda per una pausa salutare. Che la si faccia finita. Non se ne può più di questa mania della «leggerezza», del «leggero». Non l’ avesse mai fatto, Italo Calvino, di mettere in circolo questi termini, nelle sue bellissime Lezioni americane. Le quali stanno ormai purtroppo diventando – come ha scritto l’ italianista Carlo Ossola – la nuova «bonaccia delle Antille» di ogni epilogo beneaugurante. Da allora, uno straparlare, uno stracitare. Si prende uno scrittore qualsiasi, uno dei tanti che non hanno niente da dire ma vogliono per forza scriverlo, e lo si carica di elogi, spropositati. Sì, da dirci non ha molto, veramente. Ma lo stile è così ricercato. Le parole sono scelte – hai notato? – con tale accuratezza. Non ti dico i punti e le virgole, poi. E gli ampi spazi bianchi, fatti apposta per meditare. E il risvolto di copertina? Un capolavoro di grazia «leggera». Qui siamo – non c’ è dubbio – nel solco delle Lezioni di Calvino.
No, qualche dubbio c’ è. E rimane. Non si fa differenza fra lo scrittore che è leggero, perché provvisto di ali – è il caso del primo Calvino, quello del Barone rampante, del Visconte dimezzato -, e uno scrittore che è, o sembra, leggero, solo perché non ha niente in corpo. Ma lo dice così bene, così bene! La moda si è rapidamente estesa. L’ aggettivo «leggero» ha assunto un valore ontologicamente positivo, assoluto. Si narra di madri un tempo premurose della salute dei figli, che li mandano a scuola adesso senza cappotto né giacca. Le conseguenze si vedono, nel ritorno delle influenze e di altre affezioni polmonari, in questi giorni. Sì, ma mio figlio deve vestire leggero, l’ ho imparato da Calvino. Si favoleggia di robuste massaie abituate a trattare in modo cauto con il macellaio del mercato, che lo pregano di farglielo leggero adesso, il pacchettino con le salsicce. Sa, io seguo la lezione di Calvino. E quello, che mai si sarebbe sognato di rubacchiare sul peso, ora ne approfitta. Ma chi sarà ‘ sto Calvino che mi dà una mano? Si racconta di energici giovanotti, avviati alla nobile arte del pugilato, che si trovano (si mettono) in difficoltà per via delle categorie. Dovrebbero candidarsi per la categoria dei pesi mosca, visto che sono piccoli e agili; dovrebbero candidarsi per la categoria dei pesi massimi, dato che sono forzuti e monumentali. Macché, vogliono tutti entrare nella categoria dei pesi leggeri. Hanno sentito parlare di un certo Calvini (o Calvino?), campione dei pesi leggeri nel passato. «Leggero» è l’ aggettivo qualificativo che va bene per tutto, che viene usato dappertutto. Come sarà la nuova manovrina di primavera? Leggera, come sempre. Come sarà il progettato ministero per la Cultura? Leggero, speriamo. È il trionfo della fatuità letteraria (nessuna cosa era più estranea ad Italo Calvino) nella Letteratura e in tutti gli altri campi della vita. E pensare che non sempre l’ aggettivo «leggero» ha avuto questa valenza assolutamente, arbitrariamente positiva. Nell’ ebraico del Vecchio Testamento per indicare il concetto di «gloria» – con tutto quel che leè connesso: la gloria delle buone opere, la gloria meritata, la gloria del benevolente Dio onnipotente – si adopera il termine «kabod», che ha la stessa radice del termine «pesante». La «gloria» è data dalla densità, dall’ intensità di una persona: dal peso della sua presenza e delle sue azioni. Per fare un esempio più modesto, più alla nostra modesta portata, spostiamoci ai bordi di un campo da tennis. Degli anni Sessanta, al Foro Italico, a Roma. Vi troveremo i nostri valorosi tennisti che si allenano per un incontro di Coppa Davis. In quegli anni i nostri valorosi campioni erano giovanotti ben preparati, bene intenzionati, ricchi di grazia e di stile, ma poveri di sostanza. Finché si trattava di competere fra di loro, in casa, tutto bene. Benino. Ma non appena si andava sul terreno internazionale, e si trovavano di fronte un tennista australiano, puntualmente cedevano. Il nostro commissario tecnico di allora, un romanaccio brusco e spiccio, scrollava il capo sfiduciato, mentre ne seguiva gli allenamenti. Ma perché mai? gli chiedevano i tifosi ammassati intorno. Perché lei pensa che il nostro bravissimo Tacchini non ce la farà? Che il nostro bravissimo Di Maso non ce la farà? Che il nostro bravissimo Maioli non ce la farà? Lapidario rispondeva il nostro commissario tecnico, con pesante inflessione romanesca: «Perché è leggero». Dopo di che, si rifiutava di profferire altro verbo. Ma ci si poteva facilmente immaginare quello che avrebbe voluto dire. Perché non dispongono di quella «palla pesante» che è propria dei grandi tennisti. Che mette l’ avversario in difficoltà e lo costringe dopo un po’ alla resa. Sono leggeri. Per fortuna non erano ancora state scritte né pubblicate le Lezioni americane di Italo Calvino. Non si era cominciato a farne un uso così facile e così letterariamente fatuo. Così leggero.

Un pensiero su “LE PAROLE (DENSE) DI BENIAMINO

  1. fra un pacco e l’altro ho pensato che ho voglia di leggere Placido con più calma e ora me lo stampo assieme a Tabucchi
    un grande abbraccio Loredana, radio eccellente con te al timone, grazie
    Nicoletta

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