Lo so, qualcuno si aspetta, giustamente, che parli di quella parte del Rapporto Istat sulla povertà dei pensionati italiani. Il punto è che, leggendo ieri le agenzie e questa mattina i giornali, non ho potuto fare a meno di pensare che quei dati, gravissimi, erano già noti da un anno: giugno 2010, per l’esattezza, quando Istat e Inps diffusero un rapporto congiunto. Che ho riportato in “Non è un paese per vecchie”. Quello che mi fa riflettere, dunque, è l’attenzione a singhiozzo dei media. E’ già capitato con la questione femminile, capita con quella anagrafica. Quando riusciremo ad avere approfondimenti e informazione continuativi, saremo già un passo avanti.
Dedico dunque il post di oggi alla memoria, intrecciando personale e politico, come si diceva ai tempi. Il personale riguarda i venticinque anni dalla morte di mio padre, 25 maggio 1986. Ma si incrocia con la questione della memoria sociale e con il rapporto fra generazioni grazie a un meraviglioso intervento di Barbara Spinelli pubblicato oggi su Repubblica. Ve lo porgo.
Che eredità lasciamo a chi viene dopo? E cosa significa precisamente: lasciare, e eredità? Cominciamo con l´atto del lasciare: è la parola chiave nel passaggio da una generazione all´altra, dalla vita alla morte. Rimanda al latino laxus, e indica quel che s´allenta, si fa spazioso. Laxus è il contrario di teso, è la distensione che fa seguito alla tensione. Implica capacità di abbandonare, allontanarsi. Si lascia ad altri quel che non si porta con sé, dunque lasciare è anche un dischiudere, permettere. È una messa in libertà. Un capovolgere valori costituiti. Ricordo la bellissima triade di Alexander Langer: al precetto olimpico citius, altius, fortius (più veloce, più alto, più forte), che secondo lui rappresentava «la quintessenza dello spirito della nostra civiltà», egli contrappose un comandamento alternativo: lentius, profundius, suavius. Nel lascito avviene questo: si fa posto alle generazioni successive. Con lentezza, profondità, mitezza.
Viene in mente l´esperienza della corsa a staffetta. Ciascun concorrente (detto frazionista) deve percorrere una frazione, e trasmettere un bastone al subentrante. Il bastone si chiama, guarda caso, testimone. La regola vieta di lanciare al compagno il testimone nelle zone di passaggio, e fissa regole precise sulla sua caduta (se cade può raccoglierlo solo chi l´ha perduto: l´incapace di tramandare). Anche nel passaggio tra generazioni è così: la consegna del testimone avviene in seguito a tocco, con la mano, del corpo del concorrente in partenza da parte del concorrente in arrivo.
Il testimone è l´eredità: è quello che lasciamo all´altro, perché inizi la sua corsa. L´eredità non è lanciata per aria, ma bisogna toccare con mano, pensare, l´umanità dopo di noi. La trasmissione avviene in speciali zone di scambio, creando quel particolare alternarsi di distensione e tensione che caratterizza la gara di staffetta. Comunemente, ereditare rinvia alle cose di cui ci si impossessa, per amore o avidità. Altro è tuttavia il significato di eredità. La parola rinvia a chèros, che in greco significa vuoto, privo, deserto. Di conseguenza ereditare non è impossessarsi, ma un esperire il vuoto, la separazione, la vedovanza. Un ereditare spirituale, come quello del profeta Eliseo che chiede a Elia, prima che questi sia rapito in cielo: «Due terzi del tuo spirito siano in me». Ed Elia risponde che anche questi due terzi sono «cosa difficile», ottenibili a una condizione: che Eliseo colga l´Occasione, quando si presenterà, e guardi Elia strappato verso il cielo. Che si faccia veggente di cose che vengono tenute nascoste, che dica quello che altri non dicono.
Perché si possa «ereditare», occorre aver sentito il vuoto come terribile cesura, senza nascondere il trapasso, e aver «visto», in anticipo, l´inizio di una nuova corsa. Occorre che nel passaggio l´erede sia stato toccato, designato, perché questi non si senta un diseredato. Si parla con timore e tremore, sempre, del conflitto fra generazioni. Ma tale conflitto è evento naturale e necessario. Non ci sarebbe passaggio del testimone se non esistesse una differenza radicale, fra chi termina la corsa distendendosi e chi nell´irrequietezza la comincia.
Difficile la condizione dell´erede, del frazionista. Perché nulla si eredita, se non sostiamo pieni di discrezione ma anche inquietudine davanti al vuoto lasciato dalla persona amata, che vive in noi quando muore ma non entra mai completamente in noi, dandoci la serenità che tanto viene incensata. Non di serenità c´è bisogno ma di malinconia, ricorda Jacques Derrida, perché solo la malinconia resiste all´impossessamento-oblio del morto. Questi permane in tutta la sua diversità, chiedendo che ferita e vuoto rimangano aperti, anziché chiusi in fretta come facciamo quando il lutto è vissuto come appropriazione, non come chiamata e preparazione. Infatti c´è una preparazione alla morte e anche una preparazione al sopravvivere (in psicologia si chiama lutto anticipatorio). Il trapassato chiede di vivere in noi, non in fusione con noi. Preservare il vuoto che deposita ai nostri piedi, dargli un posto e una dignità, significa riconoscere che l´alterità della persona dura oltre la vita. Non a caso il testamento non è un trasmettere cose ma un´alleanza con chi se ne va: presenza, voce, firmatario di un patto tutto da provare.
Il patto non si limita a preservare la memoria: suscita l´erede, lo mette di fronte a prove che lo schiacciano o lo arricchiscono. L´erede può riempire questo vuoto con il potere (sopravvivere è sempre una presa di potere sul morto: una colpa, secondo Lévinas). Può incorporarlo fino a soffocarne l´alterità: vivere il lutto è spesso trasformare la sua morte in mia esperienza. Dal vuoto bisogna dunque partire, ma non fermarsi lì, perché altrimenti identifichiamo il morto con il nulla e uccidiamo lui e quello che tramanda. Non ci resta solo il vuoto, ma anche la scoperta dell´Occasione, e l´invito a farsi veggenti, a dire l´indicibile. Resta l´obbligo di trasformare la colpa del sopravvivente in debito, in responsabilità. Per questo l´immortalità è una felice invenzione, che ci si creda o no. Felice è il pensiero che la sottende: esiste un aldilà dell´Io. Il bello, nell´idea di immortalità, è che essa è un freno contro la cannibalizzazione del morto e la passività dell´erede.
La parola defunto è insidiosa: chi è defunto smette letteralmente le proprie funzioni, le consegna a altri. Invece lasciar vivere l´alterità del morto è dare una permanenza alle sue funzioni: che si esercitano in altro modo, che hanno bisogno di aiuto per non sparire, e non sono però mai del tutto catturabili, trasferibili. Spesso diciamo: il trapassato che ci era caro «direbbe oggi…». È esaltante parlare in sua vece. Ma dobbiamo saper discernere il limite rappresentato da un´alterità non uccisa dalla fine della vita, e non utilizzabile.
Mi soffermo sulla morte perché è un´esperienza forte di amicizia, fra persone e generazioni: l´eredità crea un intreccio di obblighi, una reciproca malinconica messa in libertà. Si trasmette col testamento una tensione, la propria: e la trasmissione è un lasciare la presa, un passaggio dal «più veloce, più alto, più forte» al «più lento, profondo, mite». Se affronti la morte dell´altro con questo motto, senza prevaricazioni o identificazioni, puoi salvare quel che sì, puoi interiorizzare: non la sua persona ma la relazione tra io e l´altro. Se non ci si riesce, sarà difficile sfuggire al destino che Rilke descrive nella settima Elegia Duinese: «Ogni cupa svolta del mondo ha tali diseredati, cui non appartiene il passato né ancora il futuro più prossimo. Poiché anche il più prossimo è lontano per l´uomo. Non confonda noi questo; ci rafforzi nel conservar la figura, che ci fu dato di riconoscere ancora».
Il tema della condivisione dell’eredità che ci viene lasciata dalle generazioni precedenti è particolarmente drammatico qui a Venezia, dove l’arrembaggio di poche lobby private (grandi navi da crociera, moto ondoso, cacciata degli abitanti in terraferma, stravolgimento della laguna destinata a trasformarsi in un braccio di mare eccetera) finirà per sperperare il patrimonio di cultura e di bellezza alla cui fruizione in teoria avremmo diritto tutti. Qui al Lido di Venezia la Est Capital la fa da padrone, siamo addirittura commissariati, e il commissario Spaziante, che non ne azzecca una, può scavalcare qualunque altra autorità. A nulla sono servite le mobilitazioni, le raccolte di firme… L’adorazione del Dio Danaro ha ormai raggiunto livelli che nemmeno i talebani più borderline… E sì che si nasce nudi e altrettanto nudi poi si va via. Povera Venezia!
Molto bello, molto denso il pezzo della Spinelli. Tutti siamo stati figli e temo che sia la morte di chi ci ha preceduto a permetterci di mettere in prospettiva il loro mondo e il loro messaggio.
Dopo la morte dei genitori si è spesso di fronte al concetto di resistenza. Resistenza e coerenza. Cioè la forza e la costanza di quanto hanno portato avanti e come. Però il lascito va rielaborato, gli va data una direzione e dobbiamo accettare quanto invece non sopravvive, perché ognuno di noi ‘cura’ e fa crescere in modo diverso.
A me sono stati lasciati un grande giardino e una biblioteca. Bell’affare: i libri si accumulano e stanno lì, non so come si fa a leggere tanto, ma stanno lì, e mi posso raccontare di poterli leggere tutti quando voglio.
Un giardino è effimero, futile, ma era la cosa pratica che avevo di fronte, ed era stato fatto senza mai un aiuto esterno. C’è stata subito una moria di piante, uno stillicidio di ‘lutti’ nonostante i miei sforzi. Ogni nuova pianta un tradimento, l’inadeguatezza, l’impossibilità di mantenere le cose com’erano e rendere omaggio alle capacità di chi l’aveva costruito. Poi la spiegazione più semplice: io potevo fare solo quello che sapevo fare, non potevo ripetere lo sguardo e la cura di chi aveva seguito con attenzione anche le piante più deboli. Ho dovuto accettare la trasformazione, l’ignoranza, e la diversità. Poi ho capito esattamente quel che faceva vivere piante e libri: il progetto, l’impegno costante, il lavoro.
E’ incredibile guardandosi indietro, quanta forza e costanza ha caratterizzato la vita di certe persone.
Una lettura intensa. Con altre parole (non poi così tanto diverse), da raccontare anche ai bambini.
Liz
Un’eredità è anche qualcosa da rifiutare, se non ci sembra acconcia ai tempi.
L’intreccio di personale e politico mi fa pensare a un libro di Roth che ho molto amato anche per il senso malinconico di un lutto anticipatorio che continua a darmi (per quello che mi riguarda personalmente), Patrimonio. Mi è venuto in mente subito in relazione all’idea di eredità non come impossessarsi ma come “esperire il vuoto”. Penso alla scena in cui Roth pulisce il padre in bagno:
“Ero terribilmente dispiaciuto per la lotta eroica e sfortunata che aveva sostenuto per ripulirsi prima che io lo raggiungessi nel bagno, e per la vergogna che aveva dovuto provare, il disonore di cui sentiva il peso, eppure, ora che la cosa era finita e lui era immerso nel sonno, pensai che non avrei potuto chiedere niente di più, per me stesso, prima della sua morte: anche questo era giusto ed era come doveva essere. Si pulisce la merda del proprio padre perché deve essere pulita, ma dopo averlo fatto tutto quello che resta da sentire lo senti come mai prima d’allora. […] E perché questo era giusto e come doveva essere non avrebbe potuto essermi più chiaro, ora che il lavoro era finito. Questo, dunque, era il mio patrimonio. E non perché pulire fosse il simbolo di qualche altra cosa, ma proprio perché non lo era, perché non era altro, né più né meno, della realtà vissuta che era.
Era il mio patrimonio: non il denaro, non i tefillin, non la tazza per farsi la barba, ma la merda.”
Le altre parole che mi restano impresse sono: “Non devi dimenticare nulla.” C’è un nesso profondo tra passato e futuro attraverso la realtà vissuta. Come avverto che c’è nelle parole di Barbara Spinelli.
Da un punto di vista politico ciò che mi spaventa di più, ciò che mi manca, è un padre di cui sentirsi orfani come l’America descritta da Roth orfana di Roosevelt, un padre politico da ricreare (da voler ricreare) in modo che il futuro non sia segnato dal lutto per ciò che non sapremo a nostra volta lasciare ai nostri figli. La morte come “reciproca malinconica messa in libertà” è come cerco di vivere il mio personale, nella speranza che incida, insieme a quello di altri/e, sul politico.
Bellissimo. Bellissimo e basta.