L'ESTATE DEL NOSTRO SCONTESTO (E NON E' UN REFUSO)

Sto pensando ai due uomini di cui molto si parla in queste ore: Vittorio Sgarbi e Raffaele Morelli. In molti casi, se ne parla al di là del contenuto delle loro parole e del loro pensiero: sono diventati, insomma, virali, Sgarbi per l’atteggiamento simile a una delle deposizioni della storia dell’arte con cui viene portato via dai commessi, Morelli per le sue sconcertanti affermazioni sulle donne e soprattutto, mi sembra, per il suo “Sta’ zitta” rivolto a Michela Murgia.
La mia riflessione non è, ripeto e sottolineo, sul loro pensiero ma sulla loro percezione. Sono, in modi diversi, due figli della televisione. Uno, Sgarbi, l’ha persino tenuta a battesimo, quella televisione dell’insulto.
Ricordate? E’ un giorno di primavera e gli anni Ottanta stanno per finire: è, per l’esattezza, il 23 marzo 1989, un mese e mezzo dopo la fatwa di Khomeini contro Salman Rushdie, un mese meno tre giorni dall’assoluzione di Stefano Delle Chiaie al processo per la strage di piazza Fontana, tredici giorni dopo l’assoluzione degli imputati per la strage di piazza della Loggia a Brescia, tre prima (a volte le coincidenze sono davvero meravigliose) della presentazione del World Wide Web: Summary da parte di Tim Berners-Lee (che fu, in pratica, l’atto di nascita della rete). Dunque, nella puntata del Costanzo Show di quella sera c’è un’insegnante che legge una sua poesia. Vittorio Sgarbi, presente come “polemista”, la definisce orribile, riceve in cambio un “lei è un asino poetico” e replica “e lei è una stronza”. La prima parolaccia della televisione, che emozione. Sgarbi venne querelato e condannato a pagare 60 milioni di risarcimento. Sarà la prima di una lunga serie di condanne e l’inizio di una folgorante carriera: in quello stesso anno, Sgarbi augura la morte a Federico Zeri, più avanti prenderà a secchiate Roberto D’Agostino durante un programma di Giuliano Ferrara, tirerà un tapiro in testa a Valerio Staffelli, darà della “scoreggia fritta” a Scalfaro, del “mafioso” a Peter Gomez, dell’”ateo bastardo” a Cecchi Paone, del “cornuto” a Mughini, della “puttana” a Irene Pivetti, della “troia irachena” a Zaha Hadid.
Lo “stronza” di Sgarbi e la popolarità che gliene deriva aprono un varco: la televisione degli anni Novanta gioiosamente provoca la rissa, incoraggia i toni che coprono le parole degli altri. Vuole sangue. Vuole audience. I politici si adeguano, naturalmente: ma quando, con l’inizio degli anni Zero, viene il tempo della “gente comune”, dei partecipanti ai reality, dei tronisti di Maria De Filippi che sostituiscono il pubblico scampanellante e muto della Corrida che improvvisamente può prendere la parola e trasformarsi a sua volta in protagonista, tutto cambia. Anche la più oscura delle comparse diventa una star se insulta, aggredisce, ferisce: Tina Cipollari, la bionda opinionista di Uomini e Donne, viene gratificata con una rubrica su VIP dove può ricoprire di contumelie i concorrenti anche su carta. Danielona Ranaldi, che nello stesso programma inveiva come una baccante contro tronisti e corteggiatrici fu, prima di venir arrestata per spaccio, una stella.
Sì, ma siamo nel 2020. Oggi Sgarbi, ma anche Morelli, ma anche gli e le equivalenti di Cipollari e Ranaldi, vengono soprattutto fruiti come meme, come frammento che circola in rete e viene non rielaborato, ma diventa figurina, gif animata da piazzare nelle risposte su twitter, un tempo si sarebbe detto che vengono campionati come un brano musicale. Colpiscono noi che siamo cresciuti o che ci siamo imbattuti da adulti nella mutazione di quella televisione, che peraltro neanche muta più e si accartoccia su se stessa, ma per chi è più giovane di noi perdono significato. Non hanno più, ammesso che ne avessero davvero, la carica eversiva della loro prima vita. Quindi, chi urla oggi in televisione, al massimo viene viralizzato qua e là.
Quel che intendo dire, e su cui sto ancora pensando non essendo affatto una sociologa o una studiosa dei media, ma una curiosa dei medesimi, è che per quanto ci sforziamo a dare una catalogazione o una definizione a quel che vediamo, quella ci sfuggirà, perché il nostro contesto è diverso da quello dei nostri figli o fratelli minori dei nostri figli, che un solo contesto non hanno e li miscelano, semmai, e a cui probabilmente Sgarbi e Morelli o chi vi pare fanno un altro effetto. Il che non significa che non bisogna rimandare al mittente le corbellerie sulle donne affermate da Morelli, evidentemente. Ma che bisogna sforzarsi di capire come vengano percepite da una generazione che sta crescendo diversamente da noi, con altri punti di riferimento, e a cui sicuramente fa molto più danno uno youtuber misogino, o un gamer misogino, che un vecchio frequentatore di talk show televisivi che ragazze e ragazzi non guardano, nella stragrande maggioranza dei casi.
Nel 2002 Tommaso Labranca scrisse un saggio, bellissimo, che si chiamava Neoproletariato. Pensate un po’, dedicava un intero capitolo alla  “schiscetta”, quella che Italo Calvino chiamava pietanziera. Labranca non ha fatto in tempo ad assistere al ritorno della schiscetta per motivi salutisti (mi porto in ufficio un’insalata, i mirtilli, tre fette di avocado), ma allora ne sottolineava la sparizione, perché al suo nascere la schiscetta era destinata a mantenere al caldo un pranzo  prevalentemente operaio, e nel 2002 i proletari erano già stati sostituiti dai neoproletari, i quali usavano semmai la  vaschetta di alluminio dei take away cinesi o giapponesi, che consentono a chi li utilizza di fare il percorso inverso: anziché conservare in un luogo altro (la fabbrica) la familiarità del luogo domestico, portarsi un Altrove immaginato per lo più attraverso la televisione in una casa che si percepisce come estranea rispetto al mondo rappresentato.
In quell’amarissimo e acutissimo saggio, Labranca descriveva un popolo che sognava  non tanto le tre I berlusconiane di Inglese Internet Impresa ma le più accattivanti tre F di Fashion Fitness Fiction, e che sostituiva il plusvalore marxiano con un meno astratto pluscool, difficile da definire quasi quanto il nobile termine di paragone: pluscool è la macchina ipercavallata, multiportierata, doverosamente fornita di accessori inutili e soprattutto ratealizzabile tasso zero, ma anche la spiaggia che si presume esclusiva, il muscolo sodo, il vestimento etnico. Elementi che non indicano l’ appartenenza a una classe ma una trasversalità fra quel che resta delle classi: meta bramata, non un capovolgimento di condizione, ma l’ acquisizione di un apparente stato di benessere. Non intellighenzia, ma eleghanzia. Non sostanza, ma apparenza.  Questo scriveva Labranca all’inizio degli anni Zero: il neoproletariato non è più massa, ma una somma di individualismi restii a scambi con l’ esterno. Perché è pur vero che il sistema industriale produce oggetti di massa: ma, come ricorda Labranca, «li riveste di sogni individualizzanti». Accanto alle rovine del popolo, i disastri degli intellettuali. I quali, lungi dal riproporre la passione pedagogica che fu dei predecessori gramsciani, si rivelano divisi fra il disgusto istintivo e la più redditizia attività che Labranca definisce «ipnomediatica», ovvero di guida suprema al pluscool dalle pagine di quotidiani e dai salotti televisivi. Oppure,  smettono semplicemente di ricordare, come un tempo, che la differenza tra operai e padroni sta nel numero di parole conosciute, ma ammoniscono a snobbare i marchi e disertare i McDonald’ s in favore del lardo di Colonnata. Senza capire, probabilmente, che anche il neoproletariato disdegna l’ hamburger per andare in cerca di sushi, perché ha letto che fa tendenza, e perché è molto più facile lottare per il totano crudo piuttosto che trovare casa o un contratto di lavoro che non sia ai limiti della legalità.
Sono passati 18 anni, moltissimo è avvenuto evidentemente. Ma ci sono nodi che ancora non riusciamo non a sciogliere, bensì a vedere. Uno dei momenti giusti per cominciare a farlo è esattamente questo. Buon weekend.

Un pensiero su “L'ESTATE DEL NOSTRO SCONTESTO (E NON E' UN REFUSO)

  1. Poi va in onda in televisione una trasmissione “Che ci faccio qui”programma di Rai 3 di Domenico Iannaccone, una trasmissione che con toni pacati , poetici e riflessivi e che rende grande la nostra televisione pubblica….che succede???”leggete Questa storia di Franco Arminio su fb
    Incredibile! Si arriva a inviare una lettera alla rai cercando di bloccare “censurare” la messa in onda della seconda parte senza averne vista la prima, trasmissione _ Da casa tua a casa mia.
    Sono indignata
    Cari saluti Loredana e grazie.

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