LINEE D'OMBRA

L’estate del nostro scontento scivola nel mese di agosto. Dunque, è proprio al numero di agosto-settembre de Lo Straniero che vi invito a dare un’occhiata. Per esempio, a questo editoriale di Vittorio Giacopini (dove c’è anche, naturalmente, Fortini).
Dieci autunni, per parafrasare Fortini, in chiave minore. Dieci stagioni – anche belle e affascinanti – di foglie morte. Nel 1983, quando esce il primo numero di “Linea d’ombra” (è l’anno del primo governo Craxi, per capirci), le invettive pasoliniane sulla grande Mutazione e il Genocidio da oscure profezie si stanno facendo cronaca ordinaria. L’Italia si prepara al decennio più stupido e insulso del Novecento e i collaboratori della nuova impresa di Fofi lo sanno e non la sanno, lo vedono e non lo vedono: è normale. Erede dei “Quaderni Piacentini”, di “Ombre Rosse”, “Linea d’ombra” avrebbe potuto essere ancora un’incarnazione del mandato tutto critico e politico di quelle esperienze se non fosse per un dettaglio, ma decisivo.
A trent’anni di distanza si può anche semplificare, farla breve. La fine della lunga fase dei “movimenti” trasformava per sempre il rapporto tra cultura e politica. Se le riviste avevano potuto pensarsi come “voci” di qualcosa, di qualcuno (arrischiati tentativi di “intellettuale collettivo”, per così dire), l’amara consapevolezza di non avere più niente e nessuno in nome di cui parlare faceva la differenza, e all’improvviso.
C’era di che restare raggelati e “Linea d’ombra” scelse la battaglia culturale, il lavoro di scavo, di scoperta, come frontiera mobile per sfuggire dalle more del “riflusso” nel privato, del successo a buon mercato, dell’edonismo. Rivista milanese, era il contrario della “Milano da bere”. Non parlando a nome di (quasi) nessuno e di (quasi) niente, poteva anche permettersi di non assomigliare a niente e nessuno (neanche a un anno dall’esordio, una finta lettera al direttore registra la differenza, ironicamente: “non è sgargiante, non è corporativa, non è ‘adelphiana’… non somiglia ad ‘Alfabeta’ o alle pagine culturali della ‘Repubblica’, di ‘Rinascita’, del ‘manifesto’”). Ma già dall’inizio, Fofi e i suoi collaboratori sapevano che serviva osare di più, alzare il tiro.
Nella stessa (finta) lettera al direttore, c’è anche un programma segreto mascherato da recriminazione impaziente, insofferenza. “Se un limite la rivista ha è, secondo me, quello di non dare fastidio a nessuno. Non mi pare una bella cosa…”. Non era vero ma toccava porsi il problema e chiedere di più a se stessi, non impigrirsi (del resto è ancora così, poco da fare: la reazione sono almeno trent’anni che è un muro di gomma). Eccezionale laboratorio di cultura e di critica della cultura, “Linea d’ombra” è stata, almeno da quel momento, anche una voce di intervento politico, o quasi politico. L’attenzione al “contesto” si è fatta con gli anni sempre più intensa e gli “editoriali” raccolti in questa breve “antologia” stanno a provarlo. Dieci anni, dieci autunni dopo, siamo già alla Seconda Repubblica, alla Bolognina di Occhetto, a Mani Pulite. Come vedrete, chi faceva la rivista questo cambio di fase l’aveva intuito benissimo, stavolta. Si aprivano altre stagioni (…dieci inverni?). L’ultimo editoriale che presentiamo parla di “bonaccia e tempesta”, lucidamente. Siamo ancora dalla parti di Conrad e forse c’è una morale o qualcosa che ci assomiglia, quantomeno. C’è sempre una linea d’ombra da attraversare. Non è un gioco di parole: vale anche oggi.

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