LINFA

Se si legge “Partigiano inverno” di Giacomo Verri (Nutrimenti) ci si fa incantare dalla lingua. Perché per raccontare la Resistenza, essendo nato nel 1978 e non potendo avvalersi dell’esperienza, la via scelta da Verri è quella di un linguaggio che si impasti con quello di chi c’era, e ha raccontato, e con chi ha preceduto, letterariamente, chi ha raccontato.
Una storia, e una lingua.
E dal momento che la riflessione condotta nei post precedenti cercava proprio di riunire storie e lingua, oggi più che mai separate, l’esempio mi sembra calzante.
Così come lo è questo estratto, anticipato da Repubblica, della lectio magistralis che Andrea Camilleri terrà a Urbino. Leggete attentamente: non si tratta della lamentazione “autarchica” sulla lingua italiana. Ma di una riflessione sulla perdita di peso e memoria della medesima.

Se all’estero la nostra lingua è tenuta in scarsa considerazione, da noi l’italiano viene quotidianamente sempre più vilipeso e indebolito da una sorta di servitù volontaria e di assoggettamento inerte alla progressiva colonizzazione alla quale ci sottoponiamo privilegiando l’uso di parole inglesi. E c’è di più. Un esempio per tutti. Mi è capitato di far parte, quale membro italiano, della giuria internazionale del Premio Italia annualmente indetto dalla Rai con sede a Venezia. Ebbene, il regolamento della giuria prevedeva come lingua ufficiale dei giurati quella inglese, senza la presenza di interpreti. Sicché uno svedese, un russo, un francese e un giapponese e un italiano ci trovammo costretti ad arrangiarci in una lingua che solo il rappresentante della BBC padroneggiava brillantemente.
Va da sé che la lingua ufficiale, in Francia, del Festival di Cannes è il francese, la lingua ufficiale in Germania del Festival di Berlino è il tedesco.
E il Presidente del Consiglio, parlando di spread o di spending rewiew è il primo a dare il cattivo esempio. Monti però non fa che continuare una pessima abitudine dei nostri politici, basterà ricordare parole come «election day», «devolution», «premier» e via di questo passo. Oppure creando orrende parole derivate tipo «resettare». Tutti segni, a mio parere, non solo di autosudditanza ma soprattutto di un sostanziale provincialismo.
Piccola digressione. Il provincialismo italiano, antico nostro vizio, ha due forme. Una è l’esaltazione della provincia come centro dell’universo. E valgano i primi due versi di una poesia di Malaparte, «Val più un rutto del tuo pievano / che l’America e la sua boria»…, per dirne tutta la grettezza. L’altra forma è quella di credersi e di dimostrarsi non provinciali privilegiando aprioristicamente tutto ciò che non è italiano. Quante volte ho sentito la frase: «io non leggo romanzi italiani» o più frequentemente, «io non vado a vedere film italiani». Finita la digressione.
Se poi si passa dalla politica al vivere quotidiano, l’invasione anglosassone appare tanto estesa da rendersi pericolosa. Provatevi a saltare da un canale televisivo all’altro (mi sono ben guardato dal dire «fare zapping»), vedrete che il novanta per cento dei titoli dei film o addirittura di alcune rubriche, sono in inglese. La stessa lingua parlano le riviste italiane di moda, di architettura, di tecniche varie. I discorsi della gente comune che capti per strada e persino al mercato sono spesso infarciti di parole straniere. In quasi tutta la strumentistica prodotta in Italia i sistemi di funzionamento sono dentificati con parole inglesi.
(…) A questo punto non vorrei che si cadesse in un equivoco e mi si scambiasse per un sostenitore dell’autarchia della lingua di fascistica memoria. Quando il celebre brano jazz «Saint Louis blues» diventava «Tristezze di san Luigi», il cognac «Arzente» e i cognomi della Osiris o di Rascel si dovevano mutare in Osiri e Rascele. Benvenuto Terracini sosteneva, e a ragione, che ogni lingua nazionale è centripeta, cioè a dire che si mantiene viva e si rinnova con continui apporti che dalla periferia vanno al centro. Un amico russo, molto più grande di me, andatosene via nel 1918 dalla sua patria e tornatovi per un breve soggiorno nel 1960, mi confidò, al suo rientro in Italia, che aveva incontrato molte difficoltà a capire il russo che si parlava a Mosca, tanto era infarcito di parole e di locuzioni operaie e contadine che una volta non avrebbero mai ottenuto cittadinanza nei vocabolari. Ma erano sempre e comunque parole russe, non provenienti da lingue straniere. In sostanza, la lingua nazionale può essere raffigurata come un grande, frondoso albero la cui linfa vitale viene risucchiata attraverso le radici sotterranee che si estendono per tutto il paese. È soprattutto dal suo stesso terreno, dal suo stesso humus, che l’albero trae forza e vigore. Se però il dosaggio e l’equilibrio tra tutte le componenti che formano quel particolare terreno, quell’unico humus, vengono alterati attraverso l’immissione di altre componenti totalmente estranee, esse finiscono con l’essere così nocive che le radici, esattamente come avviene in natura, tendono a rinsecchire, a non trasmettere più linfa vitale. Da quel momento l’albero comincia a morire.
Se comincia a morire la nostra lingua, è la nostra stessa identità nazionale che viene messa in pericolo. È stata la lingua italiana, non dimentichiamolo mai, prima ancora della volontà politica e della necessità storica, a darci il senso dell’appartenenza, del comun sentire. Nella biblioteca di un mio bisnonno, vissuto nel più profondo sud borbonico, c’erano La Divina commedia, l’Orlando furioso e i Promessi sposi tutti in edizione pre-unitaria. È stata quella lingua a farlo sentire italiano prima assai di poterlo diventare a tutti gli effetti. Una lingua formatasi attraverso un processo di assorbimento da parte di un dialetto, il toscano, vuoi dal primigenio volgare vuoi da altri dialetti. Dante non esitava a riconoscere il fondamentale apporto dei poeti «dialettali» della grande scuola siciliana, e ricordiamoci che è stato il siciliano Jacopo da Lentini l’inventore di quella perfetta macchina metrica che è il sonetto. E in Boccaccio, in certe novelle geograficamente ambientate fuor da Firenze, non si coglie qua e là un’eco di quel dialetto parlato dove la novella si colloca?
Perché da noi è avvenuta, almeno fino a una certa data, una felice coesistenza tra lingua nazionale e dialetti. Il padovano del Ruzante, il milanese di Carlo Porta, il veneziano di Goldoni, il romano di Belli, il napoletano di Di Giacomo, il siciliano dell’abate Meli hanno prodotto opere d’altissimo valore letterario che hanno arricchito la nostra lingua. La guerra che subito dopo l’Unità d’Italia si cominciò a combattere più o meno scopertamente contro i dialetti, e che raggiunse il suo apice negli anni del fascismo, è stata un’insensata opera di autodistruzione di un immenso patrimonio. Si è scioccamente visto il dialetto come un nemico della lingua nazionale, mentre invece esso ne era il principale donatore di sangue. Oggi paghiamo lo scotto di quell’errore. Abbiamo abbattuto le barriere e quei varchi sono rimasti pericolosamente senza difesa.
La mia riflessione termina qui. Coll’augurio di non dover lasciare ai miei nipoti non solo un paese dal difficile avvenire ma anche un paese la cui lingua ha davanti a sé un incerto destino.

13 pensieri su “LINFA

  1. Io non penso che l’identità nazionale sia un concetto da abbandonare, se intesa come identità di popolo e non in chiave nazionalistica e sciovinista. E’ semmai un concetto evolutivo in quanto permeabile alle influenze esterne, è destinata a cambiare nel tempo grazie al contributo linguistico e culturale dell’immigrazione e al contatto con gli altri, sempre più facile con i veicoli informativi di cui dispone la società attuale. Una ricchezza da preservare che, come tutti gli organismi che vogliono sopravvivere, lo può fare solo cambiando, evolvendosi. In questo c’è ovviamente, come in tutte le cose, una questione di misura: un conto è aprirsi a contributi nuovi, anche esterni, che possono aiutare a dire o a dire meglio cose altrimenti non ben esprimibili; un altro conto è rinunciare alla propria ricchezza espressiva in favore di costrutti linguistici e culturali più rigidi, in nome di una presunta sprovincializzazione. Io credo che sia questo, il concetto espresso da Camilleri. Sempre grandissimo, peraltro: ho avuto la fortuna di poterlo ascoltare dal vivo due volte, e sono state esperienze esaltanti. Ne avessimo, di vecchi così: ottanta e passa anni di gioventù allo stato puro.

  2. Cammilleri illumina un angolo che trascuriamo. La linfa perde vita, perchè i dialetti che sono gli affluenti migliori si svuotano. Nel contempo la linfa passa attraverso discariche che si chiamano reality, talk show e malafiction i cui liquami… avvelenano.

  3. Tutto tristemente vero, ma volevo puntualizzare che forse il caso di Monti non è scelto bene, perchè Spending review e soprattutto spread sono termini tecnici che hanno un significato ben preciso in economia proprio se enunciati in inglese, e tradotti in italiano probabilmente acqusterebbero un significato diverso.
    Fa danni irreparabili invece la boria vergognosa degli ipiegatini di medio livello nelle grandi aziende che non facendo una benemerita cippa dalla mattina alla sera danno importanza al loro ruolo infarcendolo di termini inglesi. “Facciamo un brainstorming per il problem solving” lo mando a quuel paese. Per uno scambio di idee per risolvere un problema sono sempre disponibile. Dei palinsesti televisivi meglio non parlare, vorrei tanto incontrare il giornalista che per la prima volta ha dichiarato che “llo scopriremo settimana prossima” e che “gli piace vincere facile” per spiegargli in faccia cosa penso di lui.

  4. “L’attuale low yield environment contribuisce a rendere i returns left skewed, essendo l’upside return limitato dallo zero lower bound”…. arrivata adesso sulla mia scrivania.

  5. Scusate, io faccio la tradutrrice e l’ interprete da quasi 30 anni e in gioventù ho persino studiato linguistica. Faccio una gran fatica a non trovare vecchio, vecchio, noioso e poco interessante quasi tutto quello che dice questo articolo, senza neanche sprecare tempo a indicare punto per punto dove e perchè, perché è un testo che parla da solo (e potrei almeno spezzare una lancia sul budget per interpreti e attrezzature professionisti e professionali a quello che si definisce un evento internazionale che dovrebbe stare fisso in bilancio, mentre in genere ci sta fisso quello della hostess che deve porgere i fiori – a volte i clienti italiani me la mettono per contratto una cosa del genere, pare si usi).
    Meglio quello che dice la Covito in questo articolo del 1997. http://www.carmencovito.com/italiano.html
    Ma se vogliamo cominciamo a togliere dall’ italiano parole come guerra, perché di radice germanica, sospettosamente simile a war, cominciamo a togliere zucchero e infinite altre parole. Tutte le lingue si arricchiscono continuamente con gli apporti da fuori rielaborati in modo che diventino di dentro. Aspettiamo di capire se, come mi hanno detto, lo “scialla” di Fiorello derivi davvero da insciallah. E invece di lamentarci, capiamo cosa queste integrazioni ci stanno dicendo sul nostro paese, chi ci abita, e la nostra lingua e chi la parla.
    L’ unica cosa che sottoscrivo è quella la citazione di Capellidargento, perché quella non è evoluzione linguistica ma pigrizia mentale che si maschera da linguaggio settoriale.

  6. Trovo il prestito linguistico , il forestierismo arricchente per la lingua che lo adotta. Mi piace pensare alle lingue che si scambiano parole tra loro dando vita a calchi linguistici che, in alcuni casi, veicolano anche un processo creativo. Certo, sarebbe auspicabile che il processo non sia univoco e che una lingua considerata portatrice di prestigio non ‘colonizzi’ totalmente le altre portandole alla morte. A volte per la lingua italiana è una necessità prendere in prestito parole, soprattutto per i tecnicismi nei linguaggi specialistici .. dove spesso manca un lessico nostrano e quindi bisogna importare parole per colmare il vuoto. Altre volte, invece, un prestito viene usato per sentirsi più ‘fighi’. Ultimamente mi pare ci sia stata una rivalutazione del dialetto in Italia, usandolo in alcune fictions ( ops, ho importato ehehe) e pubblicità. Sarebbe bello riuscire a tramandare la ricchezza che i dialetti aggiungono alla nostra lingua rimanendo aperti verso le importazioni straniere quando necessario. Credo che riusciamo anche ad esportarla qualche nostra parola e non solo quelle riguardanti l’ambito culinario.. per gli anglosassoni fa figo utilizzare un termine francese e anche italiano, certo, magari non risulterà comprensibile a tutti però mi piace vedere questa elasticità ed evoluzione nelle lingue, è anche per questo, suppongo, che si chiamano lingue vive! L’inglese tocca impararlo, è ancora suo lo status di lingua globale sebbene (forse) per poco ancora.

  7. Io credo che abbiano ragione sia Camilleri sia Mammamsterdam. Erigere pareti contro lo strapotere dell’Inglese, che è lingua dominante, sarebbe inutile. E la storia (non solo della linguistica) ce lo insegna.
    Però Camilleri è nel giusto, secondo me, quando fa notare che alcuni fenomeni arricchiscono la lingua altri la depauperizzano. Lo sterminio dei dialetti è stata un’operazione cieca e poco saggia.
    Sono il primo a favorire gli incontri, le fusioni linguistiche. Ma richiedono da parte dei parlanti una competenza maggiore.
    E la lingua con cui un popolo si esprime, il numero di parole usate, la precisione dei termini, sono aspetti fondamentali.

  8. Come non essere d’accordo con Camilleri, tanto che nel post precedente avevo nel mio piccolo indicato nei dialetti le fonti con cui rinsanguare la lingua e tempo fa ne scrissi pure in un commento a Michela Murgia, che da questo punto di vista mi sembra un caso interessante, proprio rilevando che nell’alfabetizzazione del dopo guerra i dialetti erano stati penalizzati.
    Cero che la lingua per restare viva deve evolvere ma non dobbiamo mai dimenticare le radici e la prospettiva storica.
    E’ invece più da discutere il rapporto con le lingue straniere: certamente gli eccessi e i gerghi sono da evitare ma una lingua viva, in questo Mammasterdam, sarà creativa e saprà, come è accaduto nel passato, ricreare e reimpastare vocaboli ed espressioni anche stranieri.

  9. Non è possibile controllare oi proteggere la lingua. Non è possibile “rinunciare all’identità della lingua” o rafforzarla.
    La lingua italiana è fatta delle parole e delle frasi usate dagli italiani, sgrammaticature incluse, dialettismi inclusi, inglesismi inclusi.
    Insomma, è come se un orso bianco dicesse: ehi, la nostra VERA IDENTITÀ è essere bruni! Vogliamo rinunciare alla nostra VERA IDENTITÀ solo per il fatto di vivere in antartide?
    Concordo pari pari con Mammasterdam, lamentarsi non serve a niente. Studiamo come si evolve la lingua, come si studia un qualunque fenomeno evoluzionistico (possibilmente evitando l’assurda pretesa di decidere dove DOVREBBE andare l’evoluzione): ci dirà chi siamo e come cambia il mondo.

  10. Quanto ha ragione Camilleri. Che è solo l’ultimo, di una serie illustre, a lamentarsi del pericoloso volontario asservimento all’inglese (cito solo, tra gli illustri, gli italianisti Gian Luigi Beccaria e Maria Luisa Altieri Biagi). Non è passatismo quello di Camilleri, non è chiusura preconcetta agli apporti linguistici esterni: è consapevolezza lucida del rischio insito nell’uso gratuito di un inglese povero e standardizzato.
    E il rischio è ben evidente quando al posto di quelle parole inglesi tanto di moda non sapremmo quale termine italiano usare. In questo abbiamo tutto da imparare dai Francesi, per esempio, ben lontani dall’accettare acriticamente che termini inglesi vengano usati indiscriminatamente sostituendosi addirittura al vocabolario nazionale. I cugini d’Oltralpe hanno l'”ordinateur”, noi solo il “computer”. Loro hanno “la souris”, noi solo il “mouse” (salvo le generazioni più giovani, più indifese di fronte al linguaggio pubblicitario e modaiolo). Ed è solo un esempio.
    Come non capire che trascurando la nostra lingua, sostituendo a dieci termini nostri (sinonimici tra loro ma mai tra loro equivalenti) un solo termine di un inglese povero e modaiolo, perdiamo la possibilità di esprimere distinzioni concettuali sottili, perdiamo la possibilità delle sfumature semantiche? E a volte in un dettaglio c’è tutto.
    E come si potrà poi articolare un pensiero complesso se il nostro vocabolario sarà stereotipato e povero? Perché, ripetiamolo, l’inglese modaiolo non è mica quello di Melville o di Dickens. E’ un inglese povero, standardizzato, il cui uso gratuito nuoce alla nostra lingua e cioè al nostro pensiero.
    Stupisce che a fraintendere Camilleri siano persone che con le parole vivono, nel senso più nobile dell’espressione.

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