L'IPOCRISIA SUI BORGHI E LA STORIA DI ENZO RENDINA

Notizia Ansa del 15 febbraio.
“Il Tribunale di Ascoli Piceno ha condannato a cinque mesi (pena sospesa) Enzo Rendina, il terremotato di Arquata del Tronto arrestato dai carabinieri il 30 gennaio 2017 nel campo base dei vigili del fuoco a Pescara del Tronto che non voleva abbandonare, volendo tenacemente rimanere nel suo territorio terremotato. Era accusato di interruzione di pubblico servizio e resistenza a pubblico ufficiale, accusa che all’epoca lo fece finire per un paio di giorni in carcere.
Secondo l’accusa quel giorno i carabinieri avvicinarono Rendina che aveva trovato riparo nella tensostruttura riservata ai vigili del fuoco, cercando di convincerlo a trasferirsi nell’albergo messogli a disposizione dal Comune di Arquata. All’ennesimo rifiuto i militari avevano cercato di portarlo via fisicamente e l’uomo avrebbe reagito cercando di divincolarsi, finché i carabinieri non riuscirono a immobilizzarlo e portarlo via per arrestarlo e tradurlo in carcere. L’accusa ha chiesto la condanna ad un anno. Ha concluso chiedendo l’assoluzione l’avvocato Francesco Ciabattoni sostenendo che “Rendina non ha infastidito nessuno, i vigili del fuoco lo hanno assistito al contrario degli psicologi che lo hanno abbandonato invece di aiutarlo. Doveva essere aiutato e non arrestato”. Il penalista ha già annunciato ricorso in Appello. ”
Quando un amico ha linkato la notizia ho dovuto rileggere. Di cosa stiamo parlando? Di un uomo che non voleva lasciare la sua terra ed è stato condannato a cinque mesi. Sfuggono a tutti noi tante cose, non solo le iniziative no-choice di cui si parlava ieri. In compenso, siam pronti a farci cullare dall’ipocrisia sui borghi: questo non ci è sfuggito. Tutti quegli articoli sognanti su come, in tempi di pandemia, nei borghi si vive così bene, lontani dai pericoli o dalla solitudine spettrale delle città.
Vero. Peccato che quei borghi sono in molti casi spettrali a loro volta. Non si parla che occasionalmente di ricostruzione e di stato delle cose nel centro Italia dopo il terremoto di ormai quasi cinque anni fa. State certi, se ne riparlerà in agosto.
Oh, gli anniversari. Quanto sono ghiotti quando fanno cifra tonda. Quanto ci coinvolgono, sia pure per un giorno, quanto siamo disposti a commuoverci, ad andare indietro col pensiero a quando sotto i nostri piedi tremava il pavimento delle nostre case -perché noi si era a Roma, spaventati ma tranquilli (Suave, mari magno turbantibus aequora ventis, e terra magnum alterius spectare laborem).
L’Aquila, dodici anni fa, per esempio. Mi resta in mente l’intervento di Alessandro Chiappanuvoli su Artribune, in occasione del decimo anniversario, che terminava così:
“Le uniche cose che invece sono nate, le uniche che hanno arricchito il territorio rispetto a ciò che era dieci anni fa, sono legate a iniziative private o individuali. Tanti aquilani, nel terremoto, in quello stato d’indeterminatezza, si sono come trovati, hanno scoperto la propria passione e l’hanno seguita raggiungendo ottimi risultati. Oggi sono fotografi, scrittori, editori, cantanti, musicisti, o insegnanti, professori, ricercatori, e medici, avvocati, ingegneri, architetti, o hanno aperto un bar, un pub, un ristorante, un negozio in un centro commerciale, hanno fondato associazioni, cooperative che lavorano nel sociale o mirano al rilancio del territorio. Molti, purtroppo, sono andati via per cercare la propria strada altrove. Altri, una minoranza, sono rimasti, siamo rimasti – chissà poi perché – e resistiamo con le nostre idee in una città senza idea di se stessa dove per altro le idee dei suoi cittadini faticano indicibilmente ad attecchire. Sopravviviamo, tanto è, in attesa di un ritorno alla normalità che però già sa di beffa, già odora di vecchio, stantio, già incarna i medesimi difetti che c’erano dieci anni fa: «com’erano-dov’erano». Se questa narrazione, che è solo il punto di vista di un cittadino, scrittore e sociologo, pare essere eccessivamente negativa, se non dà sufficiente conto ai tanti sforzi fatti anche in buona fede, che ci sono stati non lo nego, me ne rammarico. Ma solo in parte. In realtà, la mia è una provocazione mirata. Da chi si sente chiamato in causa e offeso mi piacerebbe essere smentito. Vorrei, prove e fatti alla mano, essere attaccato, demolito, colpevolizzato, perché, a essere onesto, ritengo insopportabile, a dieci anni dal terremoto, vivere ancora in una città senza identità, in una città che fatico a riconoscere, in una città che ha avuto, e a carissimo prezzo, la più grande opportunità possibile di rilancio e l’ha sprecata. E spero infine con tutto il cuore che i tanti e differenti territori devastati dal terremoto del Centro Italia, che oggi, a oltre due anni, tra disinteresse politico e rallentamenti burocratici, si trovano nella nostra stessa situazione di allora, non prendano da noi esempio e che, prima di iniziare la ricostruzione delle loro case, sappiano mettere a fondamento della loro rinascita un’idea e un senso identitario profondo di comunità”.
Non celebrate i borghi o le piccole città se le dimenticate. Non dico prendersene cura, dico almeno ricordare. E tutta la solidarietà a quell’uomo condannato a cinque mesi perché voleva restarci, in un borgo.

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