IL CORPO, IL DOLORE, LA PAURA, LA SCRITTURA: PARTE PRIMA

Il dottore ha detto la cosa non mi piace
mi ha detto è grave, anzi molto grave
ha detto ne ho contati trentadue su un solo polmone
prima di smettere
gli ho detto meno male, non avevo bisogno di sapere altro
mi ha detto sei un uomo che crede uno che si inginocchia
in un bosco e sa pregare
quando arrivi a una cascata
e un velo di pioggerellina che ti vola in faccia e sulle braccia
in quei momenti ti fermi a chiedere di trovare la forza
gli ho detto no ma da oggi voglio cominciare a farlo
ha detto mi dispiace molto ha detto
vorrei avere migliori notizie da poterti dare
ho detto Amen e lui ha aggiunto qualcosa
che non ho capito e non sapendo cos’altro fare
per evitare che lui dovesse ripetersi
e io dovessi digerire del tutto la notizia
semplicemente l’ho guardato
per un minuto e lui ha guardato me ed è stato in quel momento
che sono balzato in piedi e ho stretto la mano a quest’uomo
che aveva appena finito di propinarmi qualcosa
che mai nessun altro sulla terra aveva fatto.
Avrei potuto persino ringraziarlo, per pura abitudine
Raymond Carver scopre di essere malato di cancro al polmone nel settembre 1987. Morirà in meno di un anno. Non è il primo a scrivere del suo cancro, e ovviamente non l’ultimo, e oggi anzi la narrativa della malattia e del dolore è una fetta larghissima di mercato editoriale, e a volte persino di letteratura. Specie negli ultimi tempi, specie da quando Facebook o Twitter amplificano la confessione, la notizia della scoperta di avere un cancro, la foto su Instagram durante la chemio. La morte, anche. Non è che non si possa fare letteratura sul dolore. Lo ha fatto, per esempio, Philippe Forest, che in quel libro terribile e bellissimo che è Tutti i bambini tranne uno, compie un atto di impudicizia e di amore: racconta la morte della figlia bambina, per tumore. Non riuscirà a raccontare altro, nei libri successivi, e lo fa consapevole di essere parte di uno “spettacolo raro”: la morte, e la morte di una bimba di pochi anni. Certo, una storia diversa da quelle che abitualmente si raccontano sul cancro:
“Success stories, happy ends… E così via, fino alla nausea… Se la malattia colpisce ciecamente, per lo meno saprà rispettare quelli che le resistono, risparmierà quelli che le tengono testa. La società vuole che la paccottiglia dei suoi valori regni fin nel chiuso dell’ospedale. Nella vita, come nella morte, ci vogliono i combattenti, i vincenti. Il paradiso della riuscita è loro. Meglio, l’ospedale diventa il luogo esemplare in cui la società intende verificare la giustezza dei principi che fondano la sua logica di schiacciasassi. La lotta perpetua per la sopravvivenza non è una finzione politica. Guardate come la medicina ne conferma la verità: i deboli muoiono, i forti trionfano. Ha dunque una morale la favola sanguinosa dell’esistenza. Bisogna essere caritatevoli, pietosi, nei confronti di chi sprofonda ma i veri eroi positivi che la società reclama sono quelli che escono vincitori, hanno fornito la prova che la stessa morte poteva essere sconfitta, che non esisteva. Hanno raccolto ciò che avevano seminato. I loro sforzi sono stati contraccambiati. Tutto questo è giusto. Ognuno ottiene ciò che gli spetta. Ma che cosa spetta ai morti?”.
Ogni libro, o quasi ogni libro, porta con sé la ferita di chi lo ha scritto, e anche i libri che dichiaratamente esaminano e restituiscono il dolore possono assolvere alla funzione consolatoria che non sempre l’autore, forse, ma di certo l’editore mette in conto. Dipende dall’onestà di quel libro, dal modo in cui si maneggia quella materia terribile che si è deciso di raccontare. Ecco cosa scrive, ancora, Forest nel suo romanzo:
“La morte di un bambino è uno spettacolo raro. Riempite la sala. Fate il tutto esaurito. Si spintonano in platea, si spintonano in galleria. Dietro le quinte, il direttore di scena batte i tre colpi. Il sipario si alza, stupore. Non credete ai vostri occhi. In un batter d’occhio, la commedia è diventata tragedia. (…) Però non siete nella tragedia. Siete nella vita, e sono gli altri che chiamano la vostra vita: tragedia. Il disastro che vivete è al di là delle parole. Non se ne può dire niente. Non si scompone in atti, in scene”.
Forest è consapevole del ruolo che si assumeva durante la malattia di Pauline e di quello che si assume mentre racconta la sua morte. Questa consapevolezza e questa autocritica, anche, possono fare la differenza. E sono rare.
Poi c’è un’altra cosa. Siamo stati abituati per anni al dolore altrui esibito in televisione. Ora ci abituiamo al dolore narrato sui nostri social, spesso con ottime intenzioni e persino con ottimi risultati. Come scrive, ancora, Forest:
“La maggior parte degli umani pensano che esista nel mondo una quantità limitata di fortuna. Di qui l’espressione di contentezza che passa sul loro volto quando vedono un morente. Credono che il morente, con la sua disgrazia, liberi così la parte di fortuna che gli era riservata e che questa possa reintegrare il totale a disposizione dei vivi”.
E il fantastico cosa c’entra? Di questo, domani.

2 pensieri su “IL CORPO, IL DOLORE, LA PAURA, LA SCRITTURA: PARTE PRIMA

  1. “La maggior parte degli umani pensano che esista nel mondo una quantità limitata di fortuna. Di qui l’espressione di contentezza che passa sul loro volto quando vedono un morente. Credono che il morente, con la sua disgrazia, liberi così la parte di fortuna che gli era riservata e che questa possa reintegrare il totale a disposizione dei vivi”.
    Non ci avevo mai pensato e ora mi spiego tante cose (degli altri ma soprattutto di me, anzi, della mia parte più nera e oscura).
    Grazie infinite, Loredana.

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