LO SCAFFALE DI JEP: CONTRO LE DICOTOMIE

Va bene, semplifichiamo tutti e più andiamo avanti e più semplifichiamo. Se volete, questo è un mio chiodo fisso: lo accetto, continuo a batterci sopra col martello. Nelle ultime ore mi è capitato di sentirmi attribuire due pensieri: uno, lo scandalo sulla biografia di Roth mandata al macero che mi avrebbe indignata al punto da suscitare la giusta reazione di Portelli sul politicamente corretto che ci fa inorridire per alcune cose e per altre niente affatto.
Solo che io non ho mai pronunciato una sola parola sulla biografia di Roth. E non l’ho fatto perché, al solito, mi prendo il tempo per pensarci su.
La seconda attribuzione è di essere una fan sfegatata di Bianco di Bret Easton Ellis,  Ora, io sono una fan sfegatata di American Psycho, semmai, l’ho sempre considerato il miglior romanzo in grado di raccontare gli anni Ottanta, e subito dopo di Lunar Park. Su Bianco ho scritto solo una piccola cosa, invitando a fare un parallelo fra la nostra situazione e quanto Ellis raccontava sugli intellettuali americani dopo l’elezione di Trump. In particolare: “Non mi va che dei dannati bifolchi ignoranti decidano chi debba essere il presidente – ringhiò – Sono orgoglioso di essere un progressista dell’élite che vive sulla costa e ritengo che tocchi a noi scegliere il presidente perché noi la sappiamo più lunga“. In particolari, freschi di risultati elettorali in Umbria, mi sembrava e mi sembra potesse essere utile capire che accusare gli elettori di essere brutti e sporchi e ignoranti non solo non serve, ma denota un sentimento di superiorità morale ingiustificato. La politica, e il vivere insieme, presuppongono che ci si sappia mettere nei panni degli altri: non  per porgere l’altra guancia, ma per capire. Per capire, ripeto, cosa che nessuno sembra aver voglia di fare.
Però non sono mai stata una fan di Bianco, non sono mai svenuta davanti ai disclaimer della Disney, non ho fatto o detto nessuna di queste cose. Eppure nel sentire comune le avrei dette perché se si fa un distinguo, come ho fatto ieri su Fedez, automaticamente si è inquadrati in una schiera che agisce e pensa e parla in quel modo.  Così come automaticamente se sei femminista farai e dirai determinate cose (non so se sia ancora in uso l’accusa di non radersi le ascelle, ma ai tempi era quella roba là, e molte altre).
Io sarò anche di un altro tempo (il modello Pannella non funziona più, mi ha scritto ieri un’amica, la stessa che citava la biografia di Roth su cui non ho mai detto un fiat). Ma non sono convinta che essere in questo tempo significhi accettarne non le contraddizioni (oh, magari ci fossero le contraddizioni) ma la dicotomia. Per cui se non ti esprimi subito sul caso del momento automaticamente sei infilata in uno stereotipo, come se non ci potesse essere un miliardo di sfumature su cui ragionare.
Ultima cosa, e poi smetto. Ho notato che le ultime vicende hanno ritirato fuori un argomento sempreverde: gli intellettuali blaterano inutilmente. Argomento usato quasi senza soluzione di continuità da Mussolini, Berlusconi, Renzi, Grillo e altri leader politici. E non è un bell’accostamento.
Approfitto per ricordare una cosa: sette anni fa ho partecipato all’unica campagna elettorale mai fatta nella mia vita da candidata (mento: ce ne fu un’altra, a vent’anni, per il consiglio comunale, con il Partito radicale – quello che non si usa più, proprio quello), con L’Altra Europa per Tsipras. Ho imparato un sacco di cose, da quell’esperienza. Perché prima di allora non sai come funziona davvero.  Non sai cosa sia un comitato elettorale, un mandatario, unochetitienelagenda, una testadilista. Non sai da dove si comincia, letteralmente, e scopri che tutti coloro che con il meccanismo hanno dimestichezza hanno cominciato da mesi, mentre tu sei ancora là con l’agendina aperta davanti. Non sai che in un incontro elettorale, che spesso si chiama apericena con il candidato, ti troverai di fronte a una richiesta inespressa, che  esige che tu piaccia,  e tu questa problematica non te l’eri mai posta, perché pensavi di dire le cose che hai sempre detto e nel modo in cui le hai sempre dette, e invece no, c’è questa aspettativa, in ottima fede, affinché tu metta l’accento su una parola o su un’altra perchiamarelapplauso, e il tuo pensiero si torca fino a un obiettivo che è dunque sempre quello, piacere.
Poi finisci col non pensarci più e continuare a fare come hai sempre fatto, ma questa è un’altra storia.
La storia che non cambia, come mi disse una volta una meravigliosa persona come Alessandro Giammei, è che anche se si cerca di usare la complessità come una spada, ti ritroverai nello stessa casella: gli intellettuali-che-non-sanno-niente-degli-operai/minoranze/altro-e-sono-privilegiati, perché non basta osservare, ma vivere. Puoi anche obiettare che la tua storia è diversa, che le cattedre universitarie sono roba che non ti riguarda, e pure i dannatissimi salotti (tranne quello di casa tua col copridivano Ikea perchè ha i cuscini sventrati): non servirà. Sei in un altro scaffale, quello con l’amaca di Jep e i trenini e un bel po’ di gossip da twittare dall’amaca medesima, e la spada, facci un favore, usala per un seppuku.
Non lo trovo un bel segnale. E comunque, non mi piacciono le spade.

2 pensieri su “LO SCAFFALE DI JEP: CONTRO LE DICOTOMIE

  1. Non dimenticherò mai il surreale viaggio in treno sulla tirrenica in cui, a una qualche stazione tra Toscana e Lazio, fumai una tua Reynolds che uscì da un pacchetto futuribile che si apriva di lato. Ho dimenticato invece se fosse stato Fortini o Pasolini a sottolineare, con san Paolo, la questione evangelica del portare la spada (non vengo a portare pace ma spada), la spada che divide nel senso di separare, distinguere le cose e farne appunto *cose* e non casino—”critica” etimologicamente è quella cosa lì, ecco il mestiere degli intellettuali. Di certo Fortini, pur privilegiatissimo in fondo, sapeva tutto, soprattutto quello che non viveva. Distinguere giustamente lo usiamo anche per dire di vederci bene.

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