FARSI RAGGIUNGERE DAI FANTASMI: SULL'ONNIPOTENZA DIGITALE, E NON SOLO

Joel Stein è un giornalista americano che il 9 maggio 2013 firma l’articolo di copertina per Time, “The Me Me Me Generation”. Foto: una ragazza sdraiata sul pancino che si fotografa con lo smartphone. Con la rapidità del lampo, titolo e contenuto (la generazione nata tra gli anni Ottanta e la fine dei Novanta è narcisista, pigra e ambiziosa) diventano un meme, e in giro per la rete si trovano parodie e persino un intero Tumblr che si chiama The Millennials e che raccoglie tutte le versioni sbeffeggianti di Time: The Meow Meow Meow generation (gatti), The Pika Pika Generation (Pokémon), The Stupid Fucking Article Generation.  Stein dice di avere i numeri: l’incidenza dei disordini da personalità narcisistica nei ventenni è per questa generazione più alta del 58% in base al National Institute of Health. In poche parole, i giovani sono ossessionati dal successo e dal narcisismo, si considerano dei “brand” che misurano sul numero di “follower” o “friend” che hanno sui social network, è più probabile che convivano con i genitori che con un partner e non vogliono rovesciare il potere perché sentono, in fin dei conti, di non averne alcun bisogno.
Ma le cose non sono così semplici, non lo sono mai. Non è solo una questione di foto (i genitori dei millennials “guardavano sempre una loro foto in casa, in divisa o del matrimonio, mentre loro ne hanno 85 sul telefonino, e le guardano in continuazione”). Secondo Stein, il punto principale è l’onnipotenza, quello che viene subito dopo è che troppa autostima si scontra con una realtà che non può premiare tutti: “La conseguenza è nel fatto che il 70 per cento di loro controlla il cellulare ogni ora, molti soffrono la sindrome da vibrazioni – ovvero se nessuno gli scrive o li chiama vanno in agitazione.”
Roy Baumeister, docente di psicologia dell’Università della Florida, ritiene che i Millennials siano il frutto della combinazione fra l’imprevedibile sviluppo della tecnologia e la scelta dei baby-boomer di allevare i figli con il più alto senso di autostima: “Sono cresciuti nella convinzione di diventare tutti principesse o rock star” e gli smartphone gli consentono di continuare il sogno.”
Ora, possiamo anche star qui, otto anni dopo, a fare i conti con quel che è accaduto agli oggi trentenni di cui parlava Time. Possiamo rievocare quanto vogliamo, intendo. Personalmente, nel mio piccolissimo, mi ero posta qualche problema quando quei quasi-trentenni erano bambine e bambini. Una sciocchezza, se volete: ma l’immagine che mi torna in mente ora è quella di una selva di telecamere digitali, telefonini, macchine fotografiche professionali (treppiede-munite). Fila. Posti in piedi. Spintoni. Erano i saggi di fine anno delle quinte elementari. Alla fine, fiori e congratulazioni reciproche fra genitori: per le qualità artistiche della prole e soprattutto per quelle del mezzo di riproducibilità tecnica attraverso il quale erano state intraviste. Quel che intendo dire è che, se fosse corretta l’analisi di Time, c’è una gigantesca responsabilità adulta su cui i conti non sono stati ancora fatti (e che persiste quando le vite dei figli sono andate avanti, sui social stavolta: una valanga di feste di laurea, con votazione ben specificata, una cascata di foto di matrimoni e del primo nipotino, e via così).
Ma forse non bisognerebbe neppure essere troppo severi con quei boomer che hanno cresciuto i figli come re. Un giorno il mio vecchio amico Girolamo De Michele scrisse:
“Il bambino è un’invenzione della modernità: prima di Vico nessuno pensava che far giocare i bambini servisse a sviluppare la loro mente, prima di Froebel non era banale mettergli in mano una palla. Cappuccetto Rosso non gioca: lavora (trasporta pesi) tra la madre che lavora (impasta) e la nonna che lavora (raccoglie legna), mentre il padre forse è in guerra, forse lavora altrove, forse è morto. Nella versione originaria della fiaba (studiata da R. Darnton, “I contadini raccontano fiabe”, in *Il grande massacro dei gatti* – Adelphi: un gran libro, si legge come un romanzo) la bambina-contadina, non ancora dotata di cappuccetto e cacciatore buono da La Fontaine, viene stuprata dal lupo, e muore lì: questa era la vita dei bambini nei bei tempi antichi. Questo per ricordarci che la civiltà è una passata di smalto, e che basta scrostarla con l’unghia per vedere i bambini,nel terzo mondo come nei terzi mondi delle nostre periferie occidentali, ridiventare ninos de rua, baby-prostitute, microcriminali: cioè adulti in miniatura”.
Cosa voglio dire? Che sarebbe bello, ogni volta che si affronta un argomento, provare a inquadrare le motivazioni, il punto in cui si è e anche come ci si è arrivati. So di insistere molto, in questi giorni, su un argomento che a ben vedere è sempre quello. E’ che provo a trovare una strada per raccontare quel punto in cui siamo, ancora una volta, e provare a muovermi di conseguenza, senza annegare nell’acqua che ha invaso le strade tutte, e che ci inchioda a discussioni cicliche e velocissime e forse, chissà, non sempre utili. O forse bisogna soltanto aspettare, e continuare a guardare. Come scrisse, una volta, Stephen King:
“Così incrociamo i fantasmi che ci perseguiteranno negli anni futuri; siedono insignificanti ai bordi della strada come poveri mendicanti e, dovessimo accorgerci di loro, li scorgiamo solo con la coda dell’occhio. La possibilità che fossero lì ad aspettare proprio noi raramente ci passa per i pensieri. Invece aspettano e quando siamo passati raccolgono i loro fagotti di ricordi e s’incamminano sulle nostre orme e piano piano, metro dopo metro, guadagnano terreno”.
Forse bisogna soltanto farsi raggiungere, e provare a raccontare quel che siamo oggi anche grazie a loro.

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