LO SPOPOLAMENTO IRREVERSIBILE: IL PIANO GOVERNATIVO PER LE AREE INTERNE

Le piccole solidarietà di quartiere si vedono quando manca la luce da dodici ore e tu devi, almeno, ricaricare il telefonino per poter comunicare col mondo: saltellando tra un ufficio e il bar con il mio caricatore, ho avuto modo di leggere l’articolo di Alfonso Scarano per Il Fatto quotidiano. che dice una cosa terribile quanto, ahinoi, prevedibile.
Scarano è andato a spulciare un documento pubblicato silenziosamente all’inizio dell’estate, ma consultabile integralmente. Si tratta del nuovo Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne 2021-2027 (PSNAI), che all’Obiettivo 4 (pagina 45 del pdf) recita:

Obiettivo 4: “Accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile Un numero non trascurabile di Aree interne si trova già con una struttura demografica compromessa (popolazione di piccole dimensioni, in forte declino, con accentuato squilibrio nel rapporto tra vecchie e nuove generazioni) oltre che con basse prospettive di sviluppo economico e deboli condizioni di attrattività. Queste Aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma non possono nemmeno essere abbandonate a sé stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le possa assistere in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita”.

Naturalmente ci sono gli altri tre, che parlano di inversione di tendenza relativamente alla popolazione (ma, specifica, “non esistono margini per realizzare tale obiettivo a livello nazionale. La popolazione può crescere solo in alcune grandi città e in specifiche località particolarmente attrattive”), di inversione di tendenza relativamente alle nascite (ma aggiunge: “una parte del Paese potrebbe riuscire ad avvicinarsi a tale scenario, ma verosimilmente non gran parte del Mezzogiorno e la maggioranza delle Aree interne”) e contenimento della riduzione delle nascite, ovvero dell’aumento “del numero medio di figli per donna” (ma non ci credono troppo).

Quello che il documento dice che le Aree Interne (i circa quattromila comuni italiani , 23% della popolazione, e , come dice Scarano, “quella che custodisce boschi, pascoli, acque, borghi storici, comunità coese”) vengono già date per perse. Perché nel documento si distingue fra territori recuperabili e quelli da buttare a mare, il che significa, “che non si investirà più per trattenere i giovani o attrarne di nuovi. Che non si costruiranno più servizi in quei luoghi. Che si pianificherà una dignitosa decadenza: un welfare del tramonto che fornisca badanti e medicine, ma non opportunità né speranza”.
In violazione, peraltro, dell’articolo 3 della nostra Costituzione.

Detesto dire che l’avevamo detto, che lo stiamo dicendo da anni, in pochi, molto spesso scherniti come luddisti (eh già), mentre il vero luddismo è quello di chi concentra ogni impegno sulle città (peraltro cementificandole).

Ma era tutto annunciato.

Quattro anni fa  è apparso sul Corriere Adriatico, e non so quanti, fuori Regione, lo abbiano letto. Lo firma Donato Iacobucci, docente di Economia alla Politecnica delle Marche e coordinatore della Fondazione Merloni. Fondazione Merloni, nelle Marche e non solo, significa un rilevantissimo potere economico, politico, di influenza, tenetelo a mente. Cosa sostiene il professore? In poche parole: in alcune zone delle Marche la popolazione è diminuita ed è invecchiata. C’è stato il terremoto ed è naturale, più o meno: ma, dice il professore, qui bisogna rimboccarsi le maniche, mica vorremo rimanere attaccati ai vecchi modelli?
I vecchi modelli lui li chiama “silvo-pastorali”. Un termine poetico, virgiliano, sembra quasi di sentire i vecchi versi latini che abbiamo imparato a scuola: Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi. silvestrem tenui musam meditaris avena; nos patriae finis et dulcia linquimus arva; nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra, formosam resonare doces Amaryllida silvas.
Macché selva e selva, espone pratico il professore. Questo, e scusa tanto Titiro, è
“un modello insediativo non più adatto alle nuove condizioni di produzione del reddito e, soprattutto, alle nuove esigenze di accesso ai servizi pubblici e privati che sono considerati irrinunciabili nelle scelte localizzative di individui e famiglie. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione possono risolvere solo in parte il problema: si può fare una transazione bancaria da qualunque punto purché si disponga di una connessione ad internet ma non si possono garantire complesse operazioni chirurgiche in modo decentrato. Non è solo una questione di costi ma anche di efficacia: una scuola elementare con pochi alunni non ha solo un costo maggiore per alunno ma determina anche un peggiormente della qualità del processo educativo. Non è pensabile l’idea di adattare l’organizzazione sociale ed economica del ventunesimo secolo su un modello insediativo che si è strutturato e consolidato per un’economia e una società pre-industriali”.
In altre parole: non siete al passo con i tempi, cari bucolici dei borghi marchigiani. Siete costosi e improduttivi. Dunque, bisogna “spopolarvi”:
“gli insediamenti della popolazione vanno ripensati in funzione delle nuove esigenze economiche e sociali e, in particolare, dell’accesso ad una gamma diversifica di servizi, da quelli essenziali a quelli di svago, che è nelle attese di gran parte dei cittadini. Occorre una strategia che definirei di ‘spopolamento programmato’ di alcune aree a favore di altre nelle quali è possibile conseguire livelli di densità compatibili con le attuali esigenze sociali ed economiche”.
Lo sostiene, dice il professore, anche Romano Prodi “nel suo intervento conclusivo al convegno di Save The Apps tenutosi a Fabriano nel giugno 2019 e che riporto: «L’idea che si possano far vivere persone isolate come un tempo ci deve passare dalla mente… gli insediamenti vanno organizzati dove può vivere la gente, dove si può fare fronte alle esigenze delle famiglie, dove ci può essere una comunità abbastanza grande per andare a scuola e per divertirsi». E condivido anche la considerazione generale riguardo a tante proposte di nuovi modelli di sviluppo: «Operando in modo velleitario, anche se con grande passione, buttiamo via risorse». Le alternative ad uno “spopolamento programmato” rischiano di farci continuare nel circolo vizioso già sperimentato di spopolamento, declino economico e ulteriore spopolamento.”
Tutto quel che ho riportato è stato evidentemente scritto così come lo leggete. Sul punto c’è moltissimo da dire, e spero tanto che tutti gli studiosi che, come Vito Teti e molti altri, stanno parlando dell’esatto contrario di quanto sostenuto dal professore (che, ripeto, non è l’ultimo arrivato), si facciano vivi. Intanto vi riporto anche qualche risposta di un attivista e conoscitore del territorio che si firma Phil Connors, e che evidentemente condivido:
“I servizi nell’entroterra non ci sono più non perché da decenni vengono smantellati sistematicamente guardando solo al risparmio e non al territorio ma perché siamo ostaggio di questo cazzo di modello silvo-pastorale che ci attanaglia”.
“Chi lo dice che una scuola elementare con pochi alunni determina un peggioramento della qualità del processo educativo? Cosa intende Iacobucci per processo educativo?”
“mi limito a dire che questo considerare gli abitanti delle aree interne come pecore (ma come? Il modello silvo-pastorale non era obsoleto?) senza una volontà proprio e senza diritto di scelta che vanno “spostate” in maniera selettiva senza lasciargli alcun diritto di determinare la propria vita in un senso o nell’altro è veramente da pazzi. Ma d’altra parte è lo stesso approccio che a livello politico mainstream (e ahimè non solo) si ha verso tutte le categorie “a scatola chiusa” come i gggiovani, gli immigrati, etc. Poi, si può parlare di spopolamento programmato e di grandi centri abitati mentre in Canada ci sono 50 gradi ed il riscaldamento globale è qui e ora e non una teoria da ecologisti fanatici? Sarà il caso di ragionare su altro?”
Come si vede, tutto questo non riguardava solo le “obsolete” Marche.

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