L'ODORE DEL SANGUE

In un libro che non mi stancherò mai di consigliare, “Deumanizzazione- come si legittima la violenza”, Chiara Volpato spiega come si riducono gli esseri umani a oggetti, privandoli di storia e nome.  Ora, dei quattro (su molti) bambini morti a Gaza sono pochi a conoscere il nome. Perché dell’attività di informazione svolta dalla mediattivista Rosa Schiano da Gaza, quel che è passato su Facebook sono le foto dei corpi di Ibrahim Al Dalu, 11 mesi, Jamal Al Dalu, 6 anni, Yousif Al Dalu, 5 anni. Sara Al Dalu, 3 anni. I loro corpi senza vita, con le labbra dischiuse, uniti in un abbraccio su un piano d’acciaio, allo Shifa hospital.
Da due giorni, su Facebook infuria la polemica su quelle fotografie, che dopo il blocco dell’account di Rosa Schiano si sono moltiplicate su infinite bacheche.  Per informare, viene detto. Per indurre il mondo a indignarsi alla vista del pallore e del sangue di quattro bambini morti. Quattro su decine, e forse di più.
La domanda va al di là dell’orrore del conflitto, attenzione: e riguarda la liceità e la stessa valenza delle parole informazione e indignazione. Il corpo senza vita di un bambino merita o no rispetto? Se quel bambino avesse genitori ancora in vita (non è così) e in grado di opporsi all’uso di quelle immagini (non è così) ci comporteremmo allo stesso modo? Pubblicheremmo il primo piano di quei volti, quelli – ricordiamo i nomi, diamo i nomi, diamo storie a chi è stato ucciso, non vale solo quando parliamo di donne ammazzate – di Ibrahim Al Dalu, Jamal Al Dalu, Yousif Al Dalu,Sara Al Dalu?
E’ informazione, ci viene detto. Io non so rispondere, ma credo che no, non sia l’informazione di cui abbiamo bisogno. Perché le più celebri immagini che documentano il male, quelle che hanno testimoniato dell’orrore dei lager e di tutte le guerre che abbiamo alle nostre spalle e accanto a noi, avevano un contesto. Invece, gli occhi vuoti di Ibrahim, Jamal, Yousif, Sara, scorrono nella home di Facebook accanto alla ricetta dei cup cakes, alla foto del gatto di casa, alla copertina del romanzo da promuovere. E’ legittimo? Io non so rispondere, ma credo che umanamente non sia legittimo: e non – come pure è stato detto a chi si opponeva – per perbenismo da anime belle, da intellettuali da strapazzo che preferiscono guardarsi un film invece che sporcarsi (le mani? gli occhi?) su una strage che continua. Ma perchè Facebook stesso, per come è concepito, spinge sul pedale della pornografia emotiva, spinge a volere di più, a cercare l’immagine più violenta, cani squartati, bambini massacrati, non importa cosa. Di più.
Leggete, per favore, “Nell’acquario di Facebook” del collettivo Ippolita. Leggetelo tutto o almeno limitatevi a questo brano:
“La spinta alla trasparenza, combinata alla frammentazione convulsa dei messaggi online e al calo tendenziale delle capacità di attenzione, favorisce l’emergere di messaggi estremistici, per loro natura semplificatori, e rende più difficile articolare ragionamenti complessi. La dura legge delle masse, amplificata a dismisura dai media di massa, è che fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce. Le cattive notizie ottengono ascolti maggiori delle buone notizie. Le barzellette volgari hanno più successo del teatro drammatico. Dopotutto, gli spettatori vogliono intrattenimento, ma intrattenimento facile e non impegnativo. Come ben sapeva già la politica imperiale romana duemila anni fa, la risposta a tutte le tensioni sociali si riassume nella formula panem et circensem (pane e giochi da circo), dove i giochi da circo erano sanguinari massacri fra gladiatori, animali selvaggi, schiavi e oppositori del regime. I telegiornali di oggi, così come i blog, i video di Youtube e i tweet, sono il circo contemporaneo globalizzato, un modo comodo e de-corporeizzato per vivere la realtà in presa diretta senza alzare un dito, senza polvere, senza sangue, toccando solo con gli occhi la tragedia. Conosciamo molti particolari degli tsunami che sconvolgono luoghi lontani e non sappiamo quasi nulla di quello che succede intorno a noi. Quello che non è su Google non esiste, e ciò che non lascia nemmeno un tweet dietro di sé non è degno di nota. Ma anche quando il voyeurismo si eleva a politica dell’indignazione, l’afflato di protesta lascia il tempo che trova e si riduce presto a sterile rivendicazione, spesso ancora prima di subire la repressione”.
E sappiate che postare le immagini dei fratellini morti accanto a una frase di Moni Ovadia o a una di Vittorio Arrigoni non fermerà la guerra. Non è così che funziona. Così, semmai, ci fermiamo noi.

32 pensieri su “L'ODORE DEL SANGUE

  1. Dopo giorni in cui ho assistito alla polemica su facebook, restando in standby, ora posso dire di essere completamente d’accordo con te.
    merito anche di un libro, che, per quei fortuiti casi magici che a volte accadaono, sto leggendo proprio ora.
    In “Questo è un paese che non amo” Antonio Pascale parte dai concerti di Live Aid degli anni Ottanta per criticare l’uso di immagini del tipo che abbiamo visto girare su Fb.
    il libro non l’ho ancora finito, ma mi pare molto a fuoco su questo argomento. e verso metà, Pascale sulla critica di Rivette a un film di Pontecorvo, e riflettendo sul ruolo dello scrittore e sulle modalità “giuste” della narrazione scrive – cambio i tempi verbali – “non riusciamo per davvero a identificarci nella vittima, proprio perché invadiamo il suo corpo”.
    non mi sembra una citazione a sproposito, e quello mi pare un libro da leggere.

  2. Da quando sono comparse quelle fotografie e le vedo sulle bacheche dei miei amici ho avuto subito la sensazione di qualcosa di stridente. Vedere quei corpicini senza vita mi toglie il respiro ma allo stesso tempo fatico a credere che pubblicare quelle immagini possa essere un atto di protesta e anche rispettoso nei confronti di quei poveri corpicini. Una protesta quanto mai comoda (se protesta deve essere). Grazie per le sue parole che hanno messo un po’ di chiarezza nei miei pensieri offuscati dall’orrore dell’assurdità della guerra. Nadia

  3. Grazie anche da parte mia per aver messo un po’ di ordine ai dubbi e tormenti per quelle immagini “vomitate” nella cloaca di facebook. Io, tanto per chiarire, facebook lo uso eccome e credo anche che le immagini siano importantissime e molto spesso necessarie ma è il contesto che fa la differenza, passare da una ricetta a dei cadaveri innocenti di una guerra scellerata non ti da il tempo di pensare, di renderti conto dell’orrore che rappresentano, non so se mi spiego ma è come se ci si abituasse a questo orrore senza più sentirne intimamente l’orrore stesso.

  4. Condivido il pensiero del collettivo Ippolita, anche se credo che noi non ci fermeremo. Le immagini choccanti sono un disperato modo per farsi vedere, farsi ascoltare in un mondo troppo pieno di immagini e voci “ordinarie”. É tutto mescolato perchè non abbiamo più occhi educati a questo o a quello, non seguiamo più i cartelli stradali, noi viviamo solo di strada e paesaggio e se qualcuno vuole farsi notare deve mettersi proprio davanti alle nostre ruote, possibilmente nudo o ucciso. É questo il cinico gioco del web, non lo chiamo nemmeno più voyeurismo, sembrerebbe un vizio, qualcosa di curabile. Invece è il pane quotidiano di milioni di persone.

  5. Io comprendo profondamente ciò che leggo qui Loredana a firma tua e a firma di Laura, Nadia, Elena. Proprio perché profondamente comprendo ciò che dite su un piano umano provo ora a dire la mia, con cautela, anche perché scrivendo a voi ci ragiono su con me.
    Parto dal libro del caro amico Antonio Pascale.
    Che ho letto, come tutti i suoi libri – mentre lui non legge i miei, molti di meno e molto meno incisivi sicuramente, ma lui dice che non gli devo rompere le scatole e l’amicizia non dev’essere un’arma di ricatto.
    Ma questi sono altri discorsi che qui non c’entrano.
    Proprio l’argomentazione di Pascale sul film di Pontecorvo e sulla, a suo dire, giusta critica di Rivette (altri tempi, altre meravigliose polemiche, altra profondità e sostanza, altro rapporto di verità col mondo, con la realtà, con la storia) sull’espropriazione dei corpi e delle persone nel momento in cui si mostra lo scempio operato su di loro, mi fa orrore perché è una arguta manovra intellettuale che non rende giustizia alcuna di un cinema che oltre a essere il cinema di un maestro è un cinema civile, impegnato, in cui non si gioca affatto a fare gli intelligenti ma con invidiabile e forse perduta umanità si prova a mostrare la verità, che è il cuore delle vere opere d’arte –> non la bella confezione secondo dettami di scuola, ma la rivelazione di ciò che è vero attraverso moduli e modalità che quella stessa verità detta e richiede.
    E proprio da qui vengo A NOI.
    Su FaceBook dicevo in replica a Loredana Lipperini e Simona Vinci che quei bambini morti mostrati così, senza preamboli e senza cautele, apparentemente in offesa alla loro dignità di piccole tenere e violate persone, sono appunto BAMBINI MORTI, ed è questo lo scaldalo vero. Sono bambini morti in un contesto di morte e violazione continue, di pericolo perenne cui i loro genitori non possono porre argine, e contro cui non c’è difesa, né per i bambini, né per gli adulti, né per i vecchi –> non c’è riparo per nessuno. E questo è un fatto! Che la foto riassume esemplarmente! E scrivevo lì che certo possiamo scriverne… ma anche Shakespeare ne ha scritto: Romeo e Giulietta, tragedia in cui due poco più che bambini sono sacrificati dai propri genitori, dal mondo pazzo degli adulti, ai loro odi alle loro rivalità alle loro faide – solo dopo la morte dei due ragazzi le famiglie rivali compongono la loro assurda vicenda di odio cieco.
    Questo ha impedito che altre repliche e variazioni di un simile orrore si ripetessero? Non sembra proprio.
    Invece mostrare quell’orrore e quel paradosso si deve! Perché pur nella miscellanea matta degli status di FaceBook o Twitter in cui quella foto capita tra un gattino un bel cane da adottare o una ricetta del cheesecake pure essa include, tant’è che ne stiamo scrivendo e parlando. E su FaceBook e Twitter oltre a quella foto orrenda e paradossale fioccano manifestazioni spontanee di partecipazione e di adesione umanissima al problema acuto, attualmente, del conflitto tra Palestina e Israele, allo strazio di questa sanguinaria prepotenza di uno Stato armato e forte del consenso delle Potenze internazionali, quale è Israele, su uno pseudo stato, sostanzialmente disfatto, quale è la Palestina.
    Se dobbiamo usare proprio una metafora ebraica tratta dalla Bibbia, in questo caso è Golia che schiaccia inesorabilmente Davide – eppure non è così che deve andare!
    Infine, con i miei ragazzi di VB Infirmatica, ci stiamo proprio occupando di una questione identitaria al momento cruciale, sul piano sociale e politico, e in termini sociologici dopotutto: il passaggio da CITIZEN (cittadino degli Stati geograficamente e politicamente definito) a NETIZEN (popolo del Web, della rete), identità molto più trasversale, capace di superare e barriere dello spazio fisico, e che ha prodotto proprio questo “giornalismo dei cittadini” (CITIZEN Journalism) che con interventi in rete sui social networks e anche attraverso i social media, da youtube al photoreportage, supera ogni barriera per documentare direttamente ciò che realmente accade…
    Siamo sempre lì: dobbiamo prendercela con Cassandra perché ci dice cose che ci urtano, o con quelle stesse cose che sono scandalose in sé?
    Quei bambini sono morti! Anche in Grandi Speranze, Pip racconta d’averla visto i cadaverini dei suoi fratellini allineato su un tavolo come maialini sul banco del macellaio: era una denuncia! Non pornografia. È pornografico ciò che il mondo a volte con leggerezza permette che accada…

  6. Daniela, ma mostrare non è informare e non è narrare. Non basta essere cittadini per fare giornalismo dei cittadini. Occorre porsi le stesse domande di chiunque narri e informi: domande etiche, invece degli automatismi. E spesso di automatismi si tratta. Rosa Schiano sta informando. Dickens narrava, e si dotava degli strumenti necessari per farlo. Pubblicare la foto a freddo accanto al tutorial delle decorazioni natalizie non informa. Aizza. E non servono tifoserie, nella tragedia di questa lunga guerra.

  7. “Daniela, ma mostrare non è informare e non è narrare. Non basta essere cittadini per fare giornalismo dei cittadini. Occorre porsi le stesse domande di chiunque narri e informi: domande etiche, invece degli automatismi. E spesso di automatismi si tratta. Rosa Schiano sta informando. Dickens narrava, e si dotava degli strumenti necessari per farlo. Pubblicare la foto a freddo accanto al tutorial delle decorazioni natalizie non informa. Aizza. E non servono tifoserie, nella tragedia di questa lunga guerra.”
    Brava Lipperini, così si parla. Ora però lo vada a dire al giornale con cui collabora sovente, e dal quale magari trae buona parte delle sue informazioni riguardo il conflitto israelo-palestinese. Lo vada a dire a loro che hanno censurato ieri un post critico verso Israele scritto da Odifreddi, di fatto obbligandolo a terminare il suo rapporto con la testata, ma questo è il meno.
    Quello non era un post con la foto del bambino morto. Era un post narrato che poneva analogie logiche e incontrovertibili. Non è questo che un intellettuale deve fare? Non deve forse indurre a pensare il suo lettore oltre la prosa banalizzante che gli ottunde la mente?
    E nel momento in cui un logico fa logica, e induce a far riflettere anche doloramente il suo lettore, tu lo censuri e non dai nemmeno spiegazione del perché?
    Se questo è l’etica del giornalismo allora preferisco la foto muta. Almeno chi la vede – se la vede – potrà comunque avere l’opprtunità di pensare col proprio cervello, limiti inclusi.
    Ps
    O forse anche lei la pensa in questo modo e questo è il suo modello: informare è narrare, non è mostrare; e informare implica una voce da una parte e l’uditorio dall’altra; e chi informa in modo diverso da come informo io lo banno, con la solita foglia di fico dei toni inaccettabili. E non mi giustifico nemmeno coi lettori.
    Da oggi il metodo Repubblica, sputtanato a imperitura memoria dopo aver blaterato quotidianamente di libertà di opinione qui e di espressione là. Lei condivide? O ritiene che sia ora di prenderne le distanze?

  8. U, o comunque lei si chiami. Io sono Loredana Lipperini e questo è il mio blog. Non è Repubblica. Questo non la autorizza a ipotizzare da dove io traggo le informazioni sul conflitto israelo-palestinese dal momento che, fino a prova contraria, lei non spia da dietro le mie spalle mentre leggo e cosa leggo. Non sono d’accordo, evidentemente, con la censura a Odifreddi. Ma questo non autorizza, di nuovo, lei, ad attribuirmi modelli informativi uno a molti. Se ha avuto la santa pazienza di leggere prima di venire a sbraitare qui, non sto dicendo che i molti non devono informare. Ma che devono imparare a farlo. Perchè schizzando fiele, o postando sangue, non si informa e non si narra. Si dà sfogo alla pancia, e non certo al cervello. E comunque, sì: certi toni qui non sono ammessi, se ne faccia una ragione.

  9. Condivido ogni parola sulla diffusione di quelle immagini. Nonostante ciò apprezzo il lavoro di Rosa Schiano e lo trovo necessario.
    Trovo oramai insopportabile invece questa continua strumentalizzazione di ogni notizia da parte dei pro-Israele o pro-Palestina. Questa gara sul numero dei morti. Questa incapacità di vedere nell’altro un essere umano ma solo di identificarlo con il nemico.
    Come diceva Grossmann entrambi i popoli sono chiusi in una bolla, piegati dai loro governi e da anni di paura in una continua spirale di vendette, guerra e violenza.
    Ma noi che viviamo fuori dalla bolla perché fomentiamo questo odio? Perché non siamo in grado di sottrarci alla logica della violenza? Della deumanizzazione appunto? Quanti fra quelli che in questi giorni hanno postato la foto dei piccoli negli anni scorsi si sono occupati o anche solo interessati del problema? Il nostro “presenzialismo all’evento” è davvero diventato così superiore a qualsiasi etica, al rispetto alla pietà?
    Molti amici, ebrei o arabi, atei o praticanti, in questi giorni chiedono solo, proprio come Grossmann, che qualcuno fuori dalla bolla li aiuti a trovare la pace.
    Qualcuno. Ma chi?

  10. Grazie Loredana, condivido in pieno.
    L’associazione mentale che mi viene è: posto le foto su Fb così come mando un sms da 2 euro per il terremoto in abruzzo o simili…
    E’ tutto così spudoratamente superficiale!

  11. Strano. Hp dovuto cambiare IP e nome per postare questo commento che spero si visualizzi in quanto il mio IP usato per il precedente mi mette in sospensione. O è colpa di un bannaggio da parte sua, ma non lo voglio credere nel modo più assoluto, o ha evidenti problemi col server.
    Il tuo commento è in attesa di approvazione.
    Se certi toni non sono ammessi – questo essendo mi pare sua intima convinzione – non crede che porsi il problema della qualità, sopratutto etica, dell’informare parta già con il piede azzoppato?
    Tra l’altro la sfido a dimostrare che io abbia sbraitato. Vede, è per questo motivo che mostrare è spesso assai più efficace del narrare. Almeno, mostrando, ci si fida della capacità del lettore di porsi le domande giuste e di interrogare l’immagine per quel che è. Invece narrando si rischia di attribuire al testo cose che no ci sono, o di veder lucciole per lanterne. O, per chiudere il cerchio, di vedere sbraiti in calme e argomentate parole. Ma forse è che la lingua batte dove il dente duole.
    Postato mercoledì, 21 novembre 2012 alle 12:01 pm da U

  12. Non sono un professionista dell’informazione e quindi non ho la capacità di proporre analisi di un qualche interesse, ma sono assolutamente contrario all’uso di quelle foto e di tutte le immagini che banalizzano le tragedie con il pretesto della testimonianza. Non so dove altro esternarlo, questo mio disgusto, e quindi lo faccio qui. Con le parole di Loredana, che l’ha detto meglio di quanto saprei fare io: “mostrare non è informare e non è narrare. Non basta essere cittadini per fare giornalismo dei cittadini. Occorre porsi le stesse domande di chiunque narri e informi: domande etiche, invece degli automatismi. E spesso di automatismi si tratta. Rosa Schiano sta informando. Dickens narrava, e si dotava degli strumenti necessari per farlo. Pubblicare la foto a freddo accanto al tutorial delle decorazioni natalizie non informa. Aizza. E non servono tifoserie, nella tragedia di questa lunga guerra.”

  13. c’è anche un uso propagandistico di quelle foto, te ne rendi conto leggendo i post di uomo che ride, ritenere che le tesi di Odifreddi siano logiche ed incontrovertibili, ritenere che la visione del conflitto debba essere univoca porta di conseguenza ad usare quelle foto, ma qui si parla di noi, e non del conflitto mediorientale.

  14. Qui si parla di noi, infatti è proprio così. L’equivoco è separare i piani, la questione delle foto riguarda il nostro comportamento nei confrontid el conflitto e non le cause del conflitto.
    Non sono il solo a riconoscere l’uomo che ride, noto.

  15. Vorrei solo dire una cosa, non sono un’esperta di comunicazione e molto probabilmente la subisco meno consapevolmente di quanto vorrei, ma sono certa di non essere anche altre cose, tra quelle qui sopra elencate, dopo aver visto le foto dei bambini uccisi: non mi sento aizzata, non mi sento la coscienza scaricata, e nemmeno sento il desiderio voyeuristico di vederne di più; non sto meglio o peggio se conosco il nome dei bambini, non mi sento scandalizzata, o irrispettosa, o eticamente od umanamente ambigua. Vedo solo, sovrapposto ai visetti dei bimbi, il viso di mia figlia, e sento urlare nella testa e spingere dietro gli occhi tutto il dolore del mondo.

  16. condivisibilissimo quello che dici. spettacolarizzare non è fare informazione. sta di fatto che la ns tv passa notizie unicamente di parte. enfatizza i morti di una parte ed ignora ripeutamente le morti palestinesi, come se fosse normale che quest’ultimi vengano massacrati, tanto sono un popolo senza terra e senza diritti, e magari non vengono considerati neppure un popolo. è per questo che faccio fatica a prendere le distanze da un articolo che ti sbatte in faccia la morte di chi viene costantemente ignorato. per il resto penso tu abbia ragione, per fare informazione occorre volare più alto.

  17. L’immagine forte punta sull’emotività e rende più vulnerabili, chi in queste ore ne sta approfittando lo sa bene. Ho notato proprio su facebook il proliferare di immagini scioccanti con slogan confezionati ad arte per puntare sull’emozione, e sono soprattutto pagine di complottisti, nazistoidi, integralisti cattolici, e roba simile.
    Personalmente tendo a essere dalla parte dei palestinesi (se non altro per l’evidente disparità delle forze in campo), ma questi tentativi di portare acqua al proprio tremendo mulino sono preoccupanti. Anche per questo è meglio fare un minimo di fatica e cercare di capire cosa c’è dietro una foto.

  18. Devo essermi spiegata male, visto anche il tono di chi ha reagito su Facebook in questi minuti, che è violentissimo. Porre il problema non significa dire che Israele ha fatto bene, non so che in lingua dirlo. Io sono CONTRO l’azione di Israele. Ma questo non significa approvare la pubblicazione delle fotografie: proprio perché il contesto, ripeto, il contesto in cui vengono postate le oggettivizza. Oggettivizza QUEI bambini.

  19. Cara Loredana,
    Cercavo di dire, sommessamente, che c’è stato un passaggio, ormai avvenuto, una transizione già compiuta: dall’informazione solo giornalistica a una informazione, disseminata e spezzettata e persino decontestualizzata, finché si vuole, ma informazione, e proviene dai cittadini che poi la riversano, cruda, grezza, non selezionata (tutto vero) nel web, perché la gente comune è popolazione del web. Questo passaggio è già avvenuto, ci stiamo dentro – in pieno. Bisognerà farsene una ragione. Chi ha pubblicato e chi ha condiviso e fatto girare quelle foto, il cui contenuto è tremendo, ha reso un servizio. Pur nella brutale promiscuità di quell’immagine con altri contenuti non attinenti.

  20. Vediamo – alcune osservazioni.
    1. Il post mi piace molto e mi trova molto d’accordo. Ci sono delle domande che dobbiamo rivolgerci, da cittadini prima di tutto eventualmente anche da informatori. Le domande riguardano quale politica vogliamo avere quando parliamo di politica, a prescindere dagli oggetti che utilizziamo. Il nostro modo di comunicare politicamente di Israele potrebbe essere il nostro modo di comunicare politicamente riguardo le cose nostrane. Il nostro modo di pensare è uguale ovunque. Questo tipo di comunicazione – questo tipo di foto, educano gagliardi servi della dittatura. Esercitano cioè una comunicazione che mira al calcio nelle budella, alla reazione emotiva, e bypassano la lettura critica degli eventi, la complicazione delle cose, la valutazione razionale di quello che succede. Mettere le foto dei bambini morti per conquistare un assenso e come mettere le donne nude sulle copertine delle riviste che parlano di economia: equivale a sostenere che tu utente sei un povero coglione, che o reagisci carnalmente alle cose o per via intellettuale è meglio che lasci perdere. Ed è pericolosissima questa cosa, perchè l’esperienza emotiva è forte, ti sbatte e tu ci cadi con tutte le zampe. E pensi che ora devi fare qualcosa di buono e reagire. Ma non è che ci sei arrivato con il pensiero – sei stato manipolato dal pensiero di un altro.
    Sei stato depoliticizzato.
    2. Sulla questione Odifreddi. Il post conteneva delle inesattezze storiche piuttosto gravi che un blog d’autore non dovrebbe contenere: si può discutere che si diffonda il cattivo, ma non si ammette che si diffonda il falso. Per quanto riguarda il cattivo, il post sfiorava i rischi della legge Mancino, e io vi ho sentito una sorta di istigazione all’odio. In considerazione di queste due questioni penso che a rimetterci le penne sarebbe stato Ezio Mauro – il caso Sallusti lo dimostra. Ora: se Mauro non ha mandato neanche una richiesta di rettifica, una telefonata, una cosa il gesto è stato eccessivo. Ma se lo avesse fatto, e Odifreddi non se ne sia occupato, oppure se questa è l’ennesima stronzata scritta da Odifreddi che a Mauro ha causato dei problemi (perchè Mauro non ha deciso da solo ci sono state delle lettere di protesta) eh beh. Ci ho ben altro per cui piagne di sti tempi.

  21. Daniela, non mi stancherò mai di dirlo: essere cittadini non è condizione sufficiente ad essere assolti e non giudicati. Essere cittadini non significa automaticamente fornire informazione corretta. Essere cittadini non significa automaticamente fornire un servizio. Questo è l’equivoco più pericoloso in cui si possa incappare. Essere “la gente” non significa stare dalla parte della ragione. In questo paese “la gente” ha condiviso le leggi razziali. Per fare informazione, non serve il tesserino, non serve essere (uh!) “Kasta”: occorre interrogarsi eticamente sulla medesima. Non sentirsi giusti solo perchè si è “popolo della rete” o presunto tale.

  22. Una fotografia è già una narrazione, perchè qualcuno, in un momento preciso, ha scattato la foto e se ha dimistichezza col mezzo ha pure scelto l’inquadratura più efficace per ciò che si propone di raccontare attraverso l’immagine.
    Poi in rete c’è gente che prende la foto, ci fa i collage col paint e aggiunge gli slogan che più gli piacciono manipolando la narrazione, che era comunque scelta dal fotografo.
    L’unica immagine teoricamente priva di narrazioni e manipolazioni personali è quella di una telecamera a circuito chiuso.

  23. La mattanza mediatica fa comodo ai pigri di testa. Invece sarebbe meglio trattenersi e approcciarsi alle cose ragionando coi sentimenti. cerchiamo di essere meno italiani possibile, così magari diventiamo qualcosa di meglio.
    Comunque concordo con il tono e i contenuti del post di Loredana Lipperini.

  24. Giobix, le fotografie e le immagini in genere sono oggetti pericolosi.
    E’ vero che c’è sempre un punto di vista a monte che le decide, a meno che non ti cada la macchina fotografica e scatti per errore; anche nelle immagini a circuito chiuso, il punto di vista è quello dei controllori; oppure, quando sono utilizzate da altri per altri fini ad esempio artisti, diventano il punto di vista di questi ultimi.
    Ma il contesto, come già detto da Loredana, è fondamentale e influenza di volta in volta il significato che l’immagine viene ad assumere. Quelle foto possono narrare gli eventi in un “discorso” articolato, ma in un medium come facebook fanno altro.

  25. Trovo che l’analisi critica di “Regarding the Pain of Others” (“Di fronte al dolore degli altri”, traduzione italiana del 2006) di Susan Sontag su come ci poniamo di fronte alle immagini di violenza e di morte sia illuminante: crediamo che l’immagine parli da sè, lo diamo per scontato e invece – a seconda della biografia, della storia personale, dell’inclinazione politica, delle opinioni personali e altre variabili ancora, l’immagine non rimanda assolutamente ad una lettura/interpretazione univoca. Rimane però vero che l’immagine della sofferenza e della morte altrui può stimolare in chi guarda una risposta empatica: non è detto che ciò accada, troppe ideologie in senso lato intervengono nella nostra epoca storica andando a interferir con la nostra risposta empatica. L’empatia, intesa non solo come moto emotivo ma anche come comprensione intellettiva e intellettuale, è una facoltà dell’animo umano e può essere insegnata e quindi appresa. Dall’empatia così intesa si formula dunque un quesito: perché? Chi è responsabile di quella sofferenza, di quelle morti? E dalla ricerca di risposte, dallo spirito critico che l’empatia contribuisce a formare, nasce la coscienza non solo etica, ma anche politica. Non è tanto quindi la memoria che permette la formazione della coscienza etico-politica ma lo spirito critico che è profondamente nutrito dall’empatia. Anche dall’empatia che immagini come quella dei bambini ammazzati – o di agnelli dissanguati per una festa della tradizione – possono stimolare in noi.

  26. C’è da dire che nel mondo Palestinese l’esposizione di corpi morti di bambini e non è parte importante della propaganda, non c’è nessuna remora morale. é giustificata l’esposizione, semplificando con l’accetta, per scopi politici di esseri umani. Ci sono almeno un paio di articoli di antropologia che lo illustrano molto bene. Il problema è quando si legge tutto in termini Occidentali, sommergendo di preoccupazione etiche liberal e ragionamenti pseudo-filosofici tip Sontag un argomento caldo senza tenere conto DI cosa pensano davvero i genitori di quei bambini: “la penseranno come noi. Non esiste un altro modo d’altronde no?”

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