Oh, dire il desiderio profondo di raccoglimento, di ritiro, di «non occupatevi di me» che mi viene direttamente, in modo inflessibile, dalla pena, quasi «eterna» – raccoglimento così vero, che le piccole inevitabili battaglie, i giochi d’immagini, le ferite, tutto ciò che accade fatalmente dal momento in cui si sopravvive, non sono altro che schiuma salata, amara, sulla superficie di un’acqua profonda…
Roland Barthes scrive questo, e molto altro, nel Diario del lutto seguito alla morte della madre. Fa bene e male leggerlo: bene come in tutti i testi che consentono un rispecchiamento, male perché rinnova il dolore per l’assenza, allo stesso modo in cui lo rinnova il bellissimo, appena uscito in Italia, Una donna di Annie Ernaux.
Poi, certo, ci sono i fatti, quelli in cui ci muoviamo dimenticando il nostro dolore o allontanandolo da noi in un tempo indefinito e dunque non visibile, se non lo abbiamo ancora provato. I fatti sono quelli che ci fanno ridere, come le pubblicità di certe ilari pompe funebri. Ma i fatti sono anche quelli raccontati questa mattina da una donna che si è imbattuta nell’antica pratica del caro estinto. Pagami per piangere.
Sì, perché come forse non è noto a chi non vive a Roma, se si desidera cremare l’amato o l’amata, bisogna aspettare. Io ho aspettato dieci giorni, la signora attende ancora (una quindicina, le hanno detto). Accade che nell’attesa voglia andare da sua madre, che è al cimitero Flaminio, come la mia: non importa se serve o meno, ma è un diario del lutto quello che la signora sta scrivendo, e occorre averne cura, occorre accarezzarlo e lasciare che lo compili. Cura? Giammai. Sorpresa e sgomento: la signora, come ha raccontato questa mattina a Repubblica (articolo fin qui a pagamento, ma il succo è questo), si è sentita chiedere 200 euro più Iva per salutare il feretro della madre. Duecento euro? Più Iva? Per un saluto? Per una carezza sul legno? Per un “rispondimi” che si perderà nell’aria? Sì, ed è tutto vero, come da delibera allegata al bilancio di previsione 2017, approvata dall’assemblea capitolina il 25 gennaio dello scorso anno: la trovate qui, pagina 107, sotto la voce “Commiato effettuato in giornate successive all’ingresso della salma nel cimitero”, capitoletto Utilizzo maggiore area cimiteriale. Tempo di permanenza, hanno detto i necrofori alla signora, 30 minuti.
Nove giorni fa, su Facebook, avevo scritto questo status:
“Cose che capitano ai viventi. Impiegare le prime due ore e mezza della mattinata a rinnovare una concessione funebre. Vicenda in sé dolorosa anche se sono passati più di trent’anni, e che no, a Roma non si può effettuare via Internet (devi semplicemente pagare i tuoi circa mille euro, non altro). Quindi tu, con la tua letterina, vai nell’ufficio indicato dove ti dicono che prima devi andare nell’ufficio al numero civico precedente a ritirare i moduli, ma quando hai ritirato i moduli ti dicono che devi andare dal tabaccaio (non esattamente vicinissimo) per una marca da bollo da 16 euro. Quando torni, col fiatone, ti viene ricordato che dovevi avere una fotocopia del documento di identità (tutte cose che nella letterina non c’erano, evidentemente) ma dal momento che l’impiegato è gentilissimo, te la fa lui. Indi aspetti il tuo turno, firmi e controfirmi e vai in cassa con l’assegno che nel frattempo hai compilato e firmato. Ma le tre cassiere, che fino al tuo arrivo chiacchieravano amabilmente, decidono che la tua firma non è proprio simile a quella del documento d’identità (eh?) e dunque devi strappare l’assegno e compilarlo davanti ai loro occhi facendo sì che la firma sia identica (provateci voi). Quindi torni al piano superiore, perdi un bottone, provi a non perdere la pazienza e finalmente attraversi la città per andare a lavorare. Sei uscita di casa alle 7.50, sei arrivata in radio alle 10.40. E ti è andata pure bene. Certo, via rete avresti impiegato 10 minuti. Ma il nodo non è tanto quello. E’ che questa storia riguarda una perdita, e alla fine tu non pensi neanche più alla perdita, ma alle giravolte che persino la morte, o forse soprattutto, in una grande città ti costringe a fare. E, no, non è giusto”.
Non è giusto, infatti. E poi, certo, ci sono sempre quelli che commentano con chissenefrega degli affari tuoi aggiungendo corna e virtuali pernacchie. Ma questi non sono affari solo miei o solo della signora che no, quei 200 e rotti euro si è rifiutata di pagarli, e ha chiesto alla nostra sindaca di rimuovere la “gabella sul dolore”, cosa che suppongo non avverrà, perché al solito si ha altro per la testa che non sia l’ossessione per un’onestà che però vive solo nella politica, non si muove dalla politica, riguarda i vitalizi e quant’altro della politica, e non la vita e la morte delle persone, perché chiedere 200 euro per un saluto è disonesto, è orribile, non dovrebbe avvenire in nessun luogo al mondo.
Ma tant’è.
Ora, ovunque, per strada, al caffè, vedo ogni individuo sotto la specie del colui-che-deve morire, ineluttabilmente, cioè precisamente del mortale. – E con non minore evidenza, li vedo come coloro-che-non lo-sanno.
La politica, oggi, è essenzialmente denaro da estorcere al cittadino.
Spero di morire in un luogo dove non occorrono tanti denari per dire addio al mio incarto terreno. Essere inghiottita da un pescecane sarebbe una gran soddisfazione e morirei sorridendo.