MENTRE PARLIAMO D’ALTRO

Ricordo come se fosse ieri un pomeriggio di 21 anni fa, quando intervistai una nota sociologa provando a inserire nella discussione la questione dell’impoverimento. Lei lo negava (oggi no). Non lo vedeva, mi disse. E non capiva perché usassi quei toni così pessimisti.
E’ che in quel 2002 vedevo le persone attorno a me, e io stessa, che di colpo non riuscivano ad arrivare a fine mese: e non per l’ingresso dell’Italia nell’euro, ma, fra le altre cose, per come quell’ingresso era stato gestito. Nelle vetrine dei negozi (ho ancora presenti quali sono, dopo tutto questo tempo) ho visto passare da un giorno all’altro il costo di una camicetta da 50.000 lire a 50 euro. E tutto questo è stato negato, così come la nota sociologa negò con forza che ci fosse, in Italia, un problema di impoverimento. Sei anni dopo, le cose sarebbero diventate evidenti.
Guardo i giornali, guardo i social. Si sta parlando della campagna pubblicitaria con la povera Venere botticelliana che mangia pizza. Si sta parlando degli exploit quotidiani dei ministri. Si sta parlando di vignette. Sono i soliti, immutabili, elefanti nella stanza. “Non pensare all’elefante!”, diceva George Lakoff una vita fa, intendendo questo: “non usare le stesse parole dei tuoi avversari, o finirai con l’evocare le stesse idee, rinforzandole”.
In tutto questo, come ho scritto ieri sera su Facebook, ho ricevuto un messaggio a cui continuo a pensare. Riporto qui il post per chi non fosse sui social:

“Insomma la storia è questa. C’è questa insegnante in pensione, di 84 anni. Pensione, supponiamo, poco più alta di mille euro al mese. C’è la casa dove ha vissuto quarant’anni: prima con suo marito, che è morto, e poi con i figli, che se ne sono andati come i figli fanno. Vivere quarant’anni in una casa significa avere con sé tutta una vita: posso solo immaginare, ovviamente, e nell’immaginare riporto a me, inevitabilmente.

I mobili scelti insieme. I vasi, i quadri, i lampadari. La mensola che magari piace a uno dei due e all’altra no, ma va bene lo stesso. I libri. I quadri. I dischi. E poi le cianfrusaglie. Guardo le cianfrusaglie sulle librerie, che a nessun altro possono parlare: un elefante che era di mia madre, che collezionava elefanti, il carillon che suona Eine Kleine Nachtmusik che qualcuno mi ha regalato (chi?), un orologio un astuccio di penna la riproduzione della ragazza col cappello rosso di Veermer che guardavo mentre scrivevo Saturno. Quelle cose che non hanno senso per gli altri, e che pure si amano.
Ecco, questa signora riceve dalla Banca d’Italia lo sfratto per fine locazione. Per salvar la faccia, magari le offre un nuovo contratto d’affitto che sfiora, poniamo, i duemila euro. Impossibile.
Poniamo che si avvicini l’udienza di convalida per lo sfratto.
Ecco, questa signora scrive a Fahrenheit e io mi sento impotente, leggo e mi sento impotente, cara Banca d’Italia. Al massimo mi viene da citare quel che è già molto citato. Furore di Steinbeck.
“Vi ripeto che la banca è qualcosa di più di un essere umano. È il mostro. L’hanno fatta degli uomini, questo sì, ma gli uomini non la possono tenere sotto controllo.“
Che rabbia, che tristezza.”

Quello che voglio dire è che esiste una tendenza terribile, e generale, a non vedere la povertà, o l’impoverimento. I licenziati, gli sfrattati, i senza lavoro e i senza casa. Di cui ogni tanto ci si occupa e poi, certo, si dimentica. Ma questo non è un film, non è un romanzo. E’ vero. E che altro deve succedere?

“Ho dimenticato tutto. Storia da quattro soldi io ti dimentico. Una notte lontana da te e attendevo il giorno come una liberazione. Come fu per lui, l’oblio comincerà dai tuoi occhi, uguale. Poi, come fu per lui, l’oblio avrà la tua voce, uguale. Poi, come fu per lui, esso trionferà di te tutto intero, a poco a poco, e tu diventerai una canzone”. (Hiroshima mon amour)

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