SUGLI ORSI NON SO NULLA. E NEANCHE SUI GATTI.

Ieri, parlando con i due ospiti di Fahrenheit, biologi, zoologi e ambientalisti, dell’orsa Jj4, mi sono fatta un bel po’ di domande. La prima me l’ero fatta da un po’ di giorni, e riguarda il fatto che tutti hanno detto tutto, su questa storia. Se volete sapere perché la tuttologia, in questo caso, è un errore, leggete l’articolo di Mauro Fattor docente al Master Fauna e Human Dimension dell’Università dell’Insubria, membro dell’associazione teriologica italiana, collaboratore di National Geographic Italia.
Dice tutto. Parlando con Filippo Zibordi, che appunto ne sa, ho riflettuto sulle sue parole a proposito dell’orsa. Ha premesso che rispondeva con il cinismo dello zoologo e che a suo parere doveva essere “rimossa” (che sta per due cose: messa in condizione di non nuocere o abbattuta).
Mi è venuto il cuore stretto, e mi sono chiesta perché.
Ed ecco la seconda considerazione. Che riguarda non il nostro rapporto con gli animali in genere, ma con quelli che ci sono compagni. Dove e come sbagliamo? Non lo so. Non sono in grado di rispondere. Però vi ripropongo quello che ho scritto qualche tempo fa sui gatti. Magari serve, magari no. Ci penso ancora.

Padrona no, padrona mai. E neanche mamma, niente umanizzazione  (anche se qualche “bello di mamma tua” mi scappa, quando uno dei due mi onora di uno sguardo languido, e subito dopo chiedo venia alla Dea Bastet, che comprenderà). Compagna di strada, questo magari sì, di due gatti, Altair e Lagna. Sono venuti da fuori, come Dioniso che porta il caos a Tebe, ma nel mio caso hanno portato conciliazione con il mondo. Prima di loro altre creature sono state con me: i due cani che hanno attraversato la mia adolescenza, terrorizzando i miei fidanzati salvo fare le feste a quello che poi ho sposato; il gatto Ariele, che è stato con me solo quattro anni, ma quando mio padre morì balzò dal divano fra le mie braccia, e sempre presidiava le stampate dei miei primi libri dormendoci sopra; tutte le creature dell’infanzia dei figli, pesci rossi, pappagallini, criceti, due pogone.
Altair e Lagna mi hanno trovata e scelta, otto e sette anni fa. Altair in un pomeriggio di luglio, mentre andavo a trovare mia madre in quella che ora è casa mia: aveva quindici giorni, si è precipitato dallo zerbino del portone fra i miei piedi, mettendosi pancia all’aria. Sono stata sua, e lo sono ancora oggi che il batuffolo si è trasformato in una lince.  Lagna è arrivato un anno dopo, grigio e minuto. Sui suoi primi otto mesi di vita regna il mistero, ma ostinatamente è entrato più e più volte in giardino, e alla fine ci siamo arresi tutti. Siamo stati suoi, lo siamo. Essere “di” un gatto significa toccare il mistero: questo avviene quando passo la mano sulla coda di Altair, che termina dividendosi in due come la chela degli scorpioni, o sulla schiena di Lagna, perché la coda non c’è più da quando due automobili lo centrarono e due ragazzi meravigliosi lo presero fra le braccia correndo dal veterinario, e lo salvarono. Essere di un gatto significa interpretare i miagolii come loro interpretano – ma già sanno ogni cosa – una variazione dell’umore dalla tua stessa mano, e consolano con una testata gentile sulle gambe, facendoti capire davvero il gettito primordiale, come dice Mariangela Gualtieri, perché questo infine sono le fusa di un gatto, la prima vibrazione.
Non è solo una questione di scrivi, dunque ami i gatti: anche se è verissimo che gatti e scrittori e scrittrici si sono amati, e che i primi hanno ricevuto dai secondi poesie e canzoni e libri, e sono stati ritratti insieme nelle foto, e i gatti tuttofare di T.S. Eliot sono diventati un musical famosissimo, Cats, dove si afferma la verità universale, ovvero che i gatti hanno il privilegio di custodire il segreto del proprio nome, che la ricerca umana non è in grado di scovare. Hemingway, Morante, Poe lo sapevano. E lo sapeva Lovecraft. Che secondo l’amico giornalista Paul Cook passò sei ore con il gatto sulle ginocchia, senza andare a dormire, per non disturbarlo. E per lui creò i gatti di Ulthar, che vendicano l’uccisione dei loro simili riducendo gli umani crudeli a un mucchietto di lucide ossa. Quando un’automobile uccise il gatto, Lovecraft scrisse un disperato anatema contro il guidatore, e chissà se Yog-Sothoth si è davvero affacciato dai suoi mondi roteanti per divorarlo.
E’ accaduto anche a me, come molti sanno. All’inizio di ottobre 2020 Lagna non è tornato dal suo andirivieni nei giardini altrui: l’ho ritrovato grazie a una fotografia pubblicata su un gruppo Facebook di quartiere. Cinquanta giorni di clinica dopo, è tornato a casa. Dopo altri trenta giorni, Altair si è convinto che Lagna era proprio Lagna. Ora fa quel che faceva prima, solo con una vicinanza maggiore ai suoi compagni in posizione eretta. E io? Dopo aver evocato silenziosamente i gatti di Ulthar contro i due guidatori, ho capito che c’è una ineluttabilità nel rapporto con i felini. Significa che conoscono la tua vita. Ti si accovacciano sul punto dolente se sei malato. Ti interrogano con un verso se sei triste. E ti guardano fisso, perché negli occhi del gatto forse non trovi il nome del gatto ma il tuo, come quando il Guerrin Meschino si inginocchia davanti alla Sibilla per sapere chi è. Ed è tutto.

 

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