NELLA FEROCE ROSSEZZA DI UNA NOTTE

Domani mattina, all’alba, partirò per Amatrice. Mi hanno chiesto di partecipare alla diretta di RaiNews24. Mi sono chiesta cosa posso portare, quale storia raccontare, mentre le storie, forse, andrebbero solo raccolte e custodite. Ancora non ho la risposta. Se non quello che ho raccontato già, in Questo trenino a molla che si chiama il cuore. Questo, per esempio.
Prima di questo c’è stato il 26 settembre 1997, che nel 2007 avremmo tutti ricordato nella palestra donata al paese da Diego Della Valle ascoltando fra i singhiozzi l’inno regionale delle Marche. Mentre io sono nel mio letto, a casa, e mi sveglio, tutto si crepa e crolla fra l’Umbria e le Marche, dopo una primavera e un’estate dove le scosse, piccole e meno piccole, sembravano non finire mai, e da qui probabilmente iniziarono le leggende sui tir con le bare fermi davanti al surgelati e al motel un tempo Agip, oggi Varnelli, della Maddalena, e qualcun altro dice che pure la tendopoli di Colfiorito era già pronta per essere allestita. Tutto era comunque fermo, in attesa, nell’aria calda di quell’estate, mentre noi portavamo i bambini al mare nell’automobile nuova che eravamo riusciti a comprare e la inauguravamo con un viaggio a Pieve di Soligo, in cerca della rosa canina amata da Andrea Zanzotto, che un giorno mi aveva detto di essere proprio questo, un vegetale, una rosa canina, dove mai si potè vedere/un getto di feroce rossezza/su un arbusto di spine/rose canine rose canine.
Nella feroce rossezza di una notte, alle due e trentatre esatte tremano i crochi viola e le rose canine di Serravalle, sulla scia di quel terremoto storico che il 12 marzo 1873 atterrò la Valle, ne pareggiò fienili e campanili, e trasformò in onde le zolle dei campi. Nel 1997 la magnitudo è 5,8, l’epicentro è a Cesi, il paese nato con la morte dei romani e dei cartaginesi (andati, sepolti) e che prima di allora conoscevo appena, ma ci sarei passata più volte, spiando prima le montagne di calcinacci che costellavano i prati come tombe di giganti, poi, lenta, la ricostruzione: qui una casa, qui la fontana, qui un muro. La mattina dopo, dunque, tutta Serravalle è in piazza per capire cosa fare, e si sentono rassicurare che non ci saranno altre scosse. Alle 11.42, invece, la scossa nuova raggiunge 6.8 di magnitudo e tutto viene giù, e in quattro muoiono sotto i calcinaci della Basilica di San Francesco ad Assisi, e il crocifisso di Dignano si spezza nella chiesa crollata. Tutto, qui nei confini, si polverizza, campanili e case, palazzi e stalle, a volte anche in diretta televisiva o sotto gli occhi dei cronisti. Tutto si svuota. Serravalle, Camerino, gli ospedali, le pievi. Nelle macchine ci si ripete “è finita” e improvvisamente si scopre che il luogo da dove si voleva fuggire era la casa che si sta piangendo.
Arrivano i giornalisti, certo. Giuseppe D’Avanzo sale verso la valle in elicottero e guarda sotto, c’è il Subasio che svetta, con i boschi dove Chiara Palazzolo avrebbe fatto volare la sua morta ritornante nove anni dopo e dove io stessa avrei gettato fiori al vento, ancora dopo, per celebrare il funerale di Chiara. D’Avanzo vede il vuoto nelle piazze e nelle strade storte, vede San Francesco ferita e aperta, vede che i confini sono scomparsi, e che Umbria e Marche sono accomunate nell’aver perso tutto nei due colpi del terremoto, osserva la Statale 77, “la ragnatela di statali, cantonali, carrarecce”, i borghi sulle montagne, “villaggi che hanno un cuore di case in pietra. Tutt’ intorno le case nuove, ville, villette, villini tirati su con sacrificio e in economia accanto ai capannoni di operose piccole industrie e appena poco più in là degli ulivi e dei boschi di querce e pioppi, dei campi verdi dove pascolano senza custodia greggi di pecore”.
Sono i luoghi che non sono stati visti prima di quel momento, noti solo a chi li conosce per motivi familiari, o per caso, o per amore. Ma che vengono visti in un contesto falsato, nella quotidianità oscena delle camere da letto esposte ai fotografi, dei lavandini penzolanti, della specchiera ancora con le foto infilate: i luoghi diventano allora perdita nazionale, Cesi si lega alle credenze rovesciate e ai giocattoli che spuntano dai calcinacci, e oggi nessuno la conosce, così linda e nuova, e se ci passi dimentichi le immagini di quei giorni, le automobili in circolo, i vecchi, i bambini che giocano comunque, i fagottelli con le cose recuperate. Le cose salvate, invece, e poi perdute o rubate o vendute in fretta, le troverai per anni in conto vendita nei magazzini sorti per l’occasione o nei mercatini antiquari, e ti capiteranno fra le mani, e valuterai se acquistarle, ti chiederai da quale casa è stata sbalzata la riproduzione della madonnina di Raffaello in un campo di gigli, e la lampada liberty con la dea fortuna dai seni nudi e un grappolo di puttini abbracciati alle ginocchia, e il tavolino tondo che sul piano ha dipinta la cerimonia dell’Obon giapponese, con le lanterne lasciate scivolare sull’acqua per ricordare i morti.
Scivola sull’acqua anche la cronaca del terremoto, il conto delle tende allestite a Colfiorito e Serravalle, quello delle chiese e dei campanili crepati piegati mozzati, quello dei morti: Francesco e Maria Ricci di Collecurti, sorpresi dal crollo abbracciati nel letto, due frati e due tecnici che stavano effettuando un sopralluogo nella Basilica Superiore di Assisi, una donna che inciampa a Bastia Umbria, Agnese Ciccacci crollata a terra per infarto davanti alla chiesa dei santi Biagio e Romualdo distrutta a Fabriano, Nello Re estratto vivo dalle macerie a Pievetorina, ma morto poi in ospedale. I giornalisti contano i senzatetto, quattromila, sottolineano le scuole e i negozi e gli ospedali chiusi, la luce che manca, l’angoscia che scava i petti fra le montagne silenziose e scure, non più azzurre come nella mitologia e nelle cartoline.
Come è possibile, mi chiedo. Come è possibile che ci sia stato tanto dolore e tanta empatia allora, e che oggi le ferite della terra, i mucchi di sabbia, le montagne sbancate, i cumuli di calcinacci, diventino il simbolo del progresso e della feconda economia? Ci sono i muletti, anche oggi, ci sono stati per dieci anni in cui la Valle è stata cambiata. E quella “zona bellissima, immersa tra boschi di faggio, di pini, di querce e larghi prati quasi incontaminati” cantata da D’Avanzo cambierà drammaticamente, ma nessuno lo dice, è come se ogni dovere fosse stato esaurito nei racconti di quel settembre. I venti secondi terribili della prima notte, il buio, il cigolio, la corsa a piedi nudi sui mattoni rotti e sui prati, gridando nomi, cercando figli. E dopo, alle 11.40, le galline che si gonfiano e schizzano via a zig zag, le pietre che ballano, la strada che si apre come una bocca, le reti metalliche che proteggono dalle frane che si strappano e si sollevano verso l’alto, lo stillicidio delle scosse successive che fanno tremare le automobili, le tende, il freddo, le coperte e i vestiti che mancano, i boschi e i prati che colpiscono favorevolmente i soccorritori, e che verranno distrutti proprio a causa del terremoto, per dare una strada a questi montanari, quelli di cui le cronache han descritto gli oggetti rimasti in vista ai primi piani, esibiti alla conta, le pentole sulla cucina, le foto di famiglia, il letto disfatto, il lampadario. Gli oggetti sono la testimonianza della vita quotidiana che è stata spezzata, gli oggetti entrano in ogni elenco, insieme alle facce scure, alle teste chinate, alle mani giunte in preghiera. Il profugo fa notizia, viene inseguito, blandito, fotografato, scrutato dietro la polvere bianca che ha ancora addosso, ascoltato se ha da narrare il miracolo della sua salvezza, un materasso che lo ha protetto, un pilastro che non si è spezzato, compianto se ha subito una perdita, se non ha più casa, se dorme nelle carrozze delle ferrovie, se piange sulla Valle perduta. E nessuno ha raccontato i boschi e i prati bianchi di polvere negli anni della superstrada, le belle case di Vallesina abbandonate per il rumore delle ruspe, la casa di Bavareto che guardavo passando sulla statale, con una casetta di legno per i bambini nel giardino, che ora non c’è più, perché al suo posto c’è lo svincolo.
Ma allora si parlava giustamente solo di emergenza e di freddo e dell’attesa dei container, e dove metteremo i container, ci si chiedeva. Dunque, si sono spianati gli orti davanti alla strada vecchia dove si andava a rubacchiare un pomodoro da bambini, e poi quelli in fondo al paese, dove è sorto il villaggio di lamiera. Era freddo. E d’estate caldissimo, si lamentava Vera, una delle vecchie che in quel 1998 andavo a trovare, nei pomeriggi dove annusavo l’aria di casa, cercavo tracce, disseppellivo ricordi, mentre i mercatini dell’antiquariato facevano fortuna con testiere di letti in ferro battuto, catini e pitali estratti dalle macerie.

2 pensieri su “NELLA FEROCE ROSSEZZA DI UNA NOTTE

  1. Puoi farti testimone dei percorsi della ricostruzione, come voce che ha difeso il territorio e continua ad additare gli errori, gli abbagli delle amministrazioni, e delle comunità che ci hanno creduto. La sottile differenza tra modificare in meglio una strada, un paese, e trafiggere le colline per fare velocissimi passanti che, esaurita la sbornia post-inaugurazione, appunto, faranno solo passare (ma auguro tonnellate di turisti, beninteso). Penso che la tua esperienza sia perfetta – hai analizzato come pochi in profondità la situazione di territori colpiti dal terremoto. Hai saputo raccontare come fosse un romanzo 😉 quello che una terra rappresenta per chi ci abita e le storie dietro ogni pietra. Credo che userai parole che hai già usato – ce n’è di nuovo bisogno.

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