RIDATECI IL BETWEEN

In un libro bello del 1980 e fortunatamente ripubblicato quattro anni fa, L’intervallo perduto, Gillo Dorfles cita un altro studioso, David Martin, a proposito del “between”. Ciò che sta in mezzo, ovvero. “Tra, potremmo tradurre”. E’, in parole davvero povere, lo spazio materiale fra opera d’arte e fruitore: e, sottolinea Dorfles, varia a seconda della natura dell’opera d’arte stessa (una scultura richiede un “in mezzo” più ampio e complesso di un quadro, e la musica – secondo Martin – non andrebbe ascoltata in cuffia perché questo provocherebbe una “atrofia del between”. E’ una questione di pause, dice Dorfles: “l’intervallo che deve esistere fra noi e l’opera dev’essere un intervallo di sosta della durata”.
Il between mi è tornato in mente stamattina, in metropolitana e poi in autobus. Me ne ero interessata in una delle mie vite precedenti, quando mi occupavo di musica. Ecco, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, ci si trovava a difendere con fervore la cosiddetta Muzak, la musicaccia, la musica di sottofondo, musica da ascoltare distrattamente, in onta agli adorniani: in quegli anni, per la prima volta, quella modalità di ascolto era diventata una condizione estesa alle pagine più sublimi del repertorio classico, grazie ad una moltiplicazione e personalizzazione di supporti che oggi ha toccato il suo certamente superabile culmine. Non solo: in modo assolutamente inedito rispetto al passato, quel repertorio usufruiva dello stesso trattamento, nella scala elevata e in quella più bassa dei valori, riservato fino a quel momento al cosiddetto pop.
Significa che potevi ascoltare Vivaldi dal dentista, certo, e la versione semplificata di un brano del Tannhäuser in una pubblicità, e tutto questo ci sembrava liberatorio e foriero di un allargamento numerico di coloro che avrebbero amato poi ascoltare integralmente Juditha triumphans e Tannhäuser.  Ci dicevamo che una contrapposizione (non una differenziazione) fra ascolto distratto e ascolto avvertito, common listener versus ascoltatore competente, non poteva più avere senso alcuno dopo che i nuovi media avevano tranciato definitivamente le antiche separazioni. E non solo perché si ascoltava “anche” Beethoven (o Mozart, naturalmente) con il walkman e poi con l’Ipod, con il Pc, con il cellulare: non solo, cioè, perché oggi il luogo e il modo in cui ascoltare venivano scelti fra una gamma infinita di possibilità e supporti. Ma perché quell’estensione e frammentazione dello spazio acustico, quello “strapotere del suono” che dilagava fino ad occupare ogni aspetto della vita,  arrivava a insidiare il concetto di “mass” media. I “personal” media sono andati ben oltre di quanto teorizzava, Walter Benjamin quando parlava di “perdita dell’aura”.
Questo ci dicevamo.
E riflettevamo che qualcosa stava irreversibilmente cambiando. Che fosse, appunto, invadenza totalizzante della Muzak, impietosamente proposta da radio, compact, walkman, filodiffusione, citatissimi supermercati e anticamere di dentisti, suonerie di ogni sorta, library digitali, webradio, che fosse lo sconcertante  allineamento in un’unica e continua colonna sonora macinante ogni genere e stile musicale; che fosse, appunto ancora, “perdita dell’intervallo”, immersione nell’”inquinamento immaginifico”, smarrimento di ogni pausa e di ogni zona neutra che differenzi l’opera d’arte.
Tutto questo mi è tornato in mente con stato d’animo molto diverso, giusto stamattina. Perché se ai tempi vedevamo nella perdita d’intervallo una possibilità di diffusione della bellezza (musica, letteratura, arte, cultura) attraverso la moltiplicazione dei luoghi di fruizione e la mancanza di differenziazione alto/basso, adesso il problema sembra essere la possibilità di scegliere l’ascolto.
Questa mattina, contemporaneamente, ascoltavo la telefonata in viva voce – a volume altissimo – di una signora orientale, la suoneria di dieci cellulari, il brano musicale cercato da una ragazza sul telefonino (“ma è solo per pochi secondi, mica l’ho ascoltato tutto”), la colonna sonora di un video che qualcuno stava guardando. Boccheggiavo, in cerca non di silenzio, ma della possibilità di scegliere cosa e se ascoltare. E mi sono resa conto, con non poco sgomento, che da qualche anno non riesco ad ascoltare musica serenamente: perché le mie orecchie hanno fatto il pieno. Non che avesse ragione Adorno, e comunque polemizzare con Adorno oggi è ridicolo. Però. Però non bastano le carrozze del silenzio in treno a farci – o farmi, magari è esclusivamente un mio problema – ritrovare piacere nell’ascolto. Ridatemi il between, insomma.

3 pensieri su “RIDATECI IL BETWEEN

  1. Che piacere leggere che qualcun altro come me anela a qualche , almeno qualche, pausa.
    Ho provato a farne partecipe qualcuno per capire se questo perenne sottofondo che io ormai definisco 《paura del silenzio, anche se di pochi secondi) fosse semplicemente ben tollerato, ignorato, o addirittura accolto piacevolmente. In risposta sguardi vacui, e spallucce.
    Mi sono detta che il problema di una insensibile intolleranza è solo mio.
    Notare i sottofondi a ritmo martellante, uccidi neuroni, ai notiziari, notare che i telecronisti delle partite di calcio sono due, tre… di più anche, che si affannano a coprire ogni nano secondo con commenti fuori luogo, inutili, ripetitivi gossipari, mi tolgono ogni piacere. Non un supermercato, un negozio, un lido al mare dove si possa scambiare due parole con chi ti accompagna, o semplicemente godersi in silenzio una lettura col solo suono delle onde, del vento, delle voci allegre dei bimbi che giocano.
    Grazie Loredana Lipperini, la seguo con piacere da molti anni e sono sua ascoltatorice e lettrice, per farmi sentire meno sola.. (certo avrei potuto, mannaggia, leggere Dorfles, ma non riesco a star dietro a tutto ciò che vorrei, sic).
    Ridateci il beetwin, diamine!

  2. Ovunque ‘sta baraonda, e fin in televisione anche i rari programmi interessanti sono sovrastati da suoni in sottofondo che distolgono , impediscono la concentrazione e talvolta coprono anche le voce dell’oratore, degli intervistati, del commentatore. Valeria non sei la sola, sono sicuro che siamo in tanti a non tollerare, ma impotenti, mentre loro (chi?) continuano imperterriti. Pensa che ho scritto anche una lettera a un grande quotidiano (nessuna risposta). Una sera siamo amici riuniti al tavolo di un bar e non riuscivamo a comunicare nemmeno ad alta voce causa la musica di fondo: chiediamo con garbo a un cameriere di abbassarne almeno il volume (musica orrenda, peraltro); si è allontanato, il buzzurro, rassicurandoci , e per tutta risposta è andato ad aumentare ulteriormente il volume. Che fare? Protestare e rischiare il ridicolo? Abbiamo pagato e siamo usciti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto