NESSUNO PERDONA LA GRASSEZZA

Ieri a Fahrenheit il libro del giorno era “Balena” di Giulia Muscatelli. E’ un memoir bello e potente, che non ha paura di esplorare anche il lato fallibile della body positivity. Raccomandandovelo, posto qui un articolo che ho scritto a giugno per La Stampa. Sul fatto che la grassezza è faccenda che non si perdona, e che è vero, come dice Muscatelli, che una donna magra può parlare di tutto e una donna grassa può parlare solo del proprio corpo. 

Il disprezzo è cominciato molto prima delle fotografie di Vanessa Incontrada e prima della boiler summer cup su TikTok. La sensazione che ho è che lo stigma nasca con la generazione omaggiata da Time in una famosa copertina del 1967, quando vennero proclamate “persone dell’anno” twenty-five and under, insomma i giovani, insomma una generazione numerosa, sana, educata, assertiva. A new kind of generation. Un nuovo tipo di generazione.
Che era, però, tirata fra due estremi: da una parte un futuro fino a quel momento impensato, dall’altra i genitori e i nonni usciti dalla guerra magri e affamati, che non avevano dimenticato di aver mangiato per anni solo bucce di fave bollite. Mia nonna non lo aveva dimenticato, per esempio, e per questo nascondeva le croste di pane nella tasca della vestaglia e nel cassetto del comodino e dedicava i suoi giorni a ingozzare mia madre (che da creatura sottilissima con 35 di piede era passata in fretta a signora molto in carne) e soprattutto me. Perché la bambina che ero non doveva mai e poi mai provare la fame, e dunque potevo avere tutte le rosette con olio e zucchero che volevo, e a tarda sera quelle stesse rosette venivano farcite con salame cacciatorino e formaggio provolone, e questo dopo il brodo con la pastina e il lesso e le polpette fritte in un panetto di burro e le patate arrosto.  Mi ero adeguata con gioia: a dodici anni la mia merenda di metà mattina erano quattro tramezzini gonfi di carciofini e di tonno e salmone e salame e uova e pomodoro e mozzarella, e ancora adesso mentre lo scrivo ne riprovo il desiderio, anche se non potrei fare mai più una merenda del genere, perché so quanta è faticosa la fame per perdere i chili, e quanto occorra esercitare un potere violento su se stessi per farsi obbedire dal corpo prima che ti scappi di mano.
Alle elementari la grassezza passava inosservata. Ma non alle medie, perché erano già gli anni Sessanta ed era cambiato tutto. Intanto, nel 1965, aveva cominciato la sua carriera colei che oggi è Dame Leslie Lawson, e che allora era Twiggy, stecchino, il volto e soprattutto il corpo del decennio di cui ancora oggi Wikipedia ricorda giudiziosamente la taglia, una 40, mentre l’altra supermodella dell’epoca, Jean Shrimpton detta Shrimp, gamberetto, vantava addirittura una 36. Insomma, nel momento in cui i giovani diventarono una categoria cui era destinato un mondo da comprare (la moda, la musica, i film), quei giovani, e soprattutto quelle giovani, dovevano essere magrissimi.
Non arrivo a dire che lo stigma della grassezza nasce con il consumismo, ma ogni tanto il pensiero mi accarezza, perché quello che ci veniva proposto dalla moda e dalla musica e dai film era un corpo con tutt’altre caratteristiche rispetto alla generazione che ci aveva preceduto. E allora, quando le ragazzine delle medie compravano dischi e riviste e desideravano vestiti scoprivano di essere fuori dal canone del nuovo e del rivoluzionario. E tutto quello che oggi viene amplificato da social e giornali scandalistici avveniva lo stesso, in sordina e tutti i giorni. Esci con le coetanee e tu sei il barile, vai alle prime feste e diventi l’oggetto della sfida, allora non filmabile: chi farà ballare la cicciona?
Cose che passano, dicevano gli adulti, e spesso lo dicono ancora, cose che si dimenticano dopo una notte o due di pianto rabbioso. Bene, non è vero: perché lasciano un tarlo che ti fa crescere nel risentimento e ti fa sognare di tornare magra e crudele per consumare la propria vendetta, proprio come il conte di Montecristo (che però era un uomo). Nella mia vita ho oscillato fra i 51 e gli 85 chili, e dentro di me sono sempre rimasta la bambina grassa che si nascondeva sotto le mantelle lunghe adottate dalle supermodelle (che però sotto indossavano hot pants che non avrei mai potuto permettermi). Certo, a 15 anni intervenne il morbillo, in una forma aggressiva che mi obbligò a casa e al buio per quasi un mese e mi restituì al mondo con venti chili in meno, ma la dodicenne sbeffeggiata era sempre in agguato: negli occhi della commessa di via Frattina che, quando avevo trent’anni ed ero di nuovo una 48, mi scrutò prima che aprissi bocca dicendo “per lei qui non c’è niente” o negli sberleffi di qualche collega quando ne avevo 50 e mi trovavo di nuovo dalla parte ritenuta sbagliata.
Perché nel momento in cui un canone ha messo radici nell’immaginario è difficilissimo farlo sparire, anche con tutta la forza del body positive e la buona volontà dei marchi caritatevoli che si affannano a dimostrarti che, sì, hanno a cuore le vere donne. La questione non è sostituire un modello con un altro: è far briciole dei modelli e smettere di mettere i corpi al centro dei discorsi. Come raccontava Ursula Le Guin, una volta arrivata al college volevano insegnarle a servire il tè. Il problema, disse, non era rifiutarsi di farlo: era rovesciare il tavolo con la teiera.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto