NOI CHE NON ABBIAMO BISOGNO DI LEGGI SUL LIBRO, FIGURARSI

Qua e là, qualche fronte si aggrotta davanti al primo posto nella classifica dei libri più venduti di Doctor Sleep di Stephen King, come se togliesse qualcosa agli scrittori nostrani (sì, siamo nel 2014, attraversiamo una crisi editoriale da mozzare il fiato e ancora tocca sentire affermazioni di questo tipo). Sarebbe meglio che le stesse fronti si aggrottassero leggendo i dati riportati oggi su Repubblica da Rosaria Amato. Questi.
Non potersi permettere neanche una settimana di ferie, o un pasto proteico ogni due giorni, non poter riscaldare la casa, dover fare a meno del televisore a colori o del frigorifero: questa è deprivazione materiale, e secondo l’Istat riguarda in misura “severa” il 14,5 per cento degli italiani. Ma c’è un’altra deprivazione: non potersi permettere di leggere un libro, o di andare a una mostra, o a teatro. Quasi un italiano su due tra chi non ha letto neanche un libro nell’ultimo anno dichiara di avere risorse economiche limitate. Una percentuale del 47,8, in crescita rispetto al 45,8 del 2012. Aumenta leggermente anche la quota dei “non lettori” in seria difficoltà economica, che passa dal 9 per cento del 2012 al 9,6. Dati che fanno pensare che il calo consistente della quota dei lettori, che secondo l’ultimo report Istat nel 2013 scende dal 46 al 43 per cento (calo confermato anche dai dati Aie: secondo l’associazione degli editori nel 2013 c’è stata una riduzione di quasi due milioni di lettori) sia dovuto anche alle difficoltà economiche, e che il rischio di povertà o di esclusione sociale
(che riguarda ormai il 29,9 per cento degli italiani) sia anche un rischio di esclusione culturale. Una situazione figlia anche della «polverizzazione del ceto medio», osserva Alex Turrini, direttore del corso di laurea in Economics and Management in Arts, Culture, Media and Entertainment dell’Università Bocconi: «Con la polarizzazione tra i tanto ricchi e i tanto poveri, si riscontra anche un allontanamento dei poveri dai consumi culturali alti, e un maggiore consumo da parte dei ceti più abbienti. Un fenomeno che si sta verificando anche in Italia ».
Secondo l’ultima indagine della Banca d’Italia, il 10 per cento delle famiglie più abbienti nel nostro Paese possiede il 46,6 per cento della ricchezza netta familiare totale; nel 2010 si fermava al 45,7 per cento. La concentrazione della ricchezza, misurata secondo l’indice di Gini, è al 64 per cento: pochi anni fa, nel 2008, era al 60,7 per cento. L’aumento della disuguaglianza ha ricadute dirette e gravi sui consumi culturali, spiega Luciana Quattrociocchi, dirigente del servizio “Struttura e dinamica sociale” dell’Istat: «Concentrazione del reddito e spesa per consumi culturali delle famiglie presentano una relazione inversa: in altri termini, quando la ricchezza è detenuta pressoché completamente da poche persone, devastante è la ricaduta sui livelli di spesa per consumi culturali delle famiglie, che di conseguenza diminuiscono. Se, in generale, la spesa media mensile per famiglia nel 2012, pari a 2.419 euro, registra una diminuzione, in valori correnti, del 2,8 per cento rispetto al 2011, nello stesso arco temporale la spesa relativa al tempo libero e alla cultura registra una diminuzione ancora più sostenuta pari al 5,4 per cento. In particolare, le famiglie limitano la spesa proprio per cinema, teatro, giornali, riviste, libri».
Risultato, a leggere sono soprattutto le persone abbienti, o che comunque non soffrono per problemi economici. Il 57,9 per cento di chi nel 2013 ha letto almeno un libro dichiara di godere di risorse economiche “ottime o adeguate”, quasi due lettori su tre. Il 35,4 per cento dichiara risorse “scarse” e appena il 6 per cento dichiara di avere risorse “assolutamente insufficienti”. E i lettori “forti”, cioè quelli che leggono almeno 12 libri l’anno (e che secondo i dati Aie nel 2013 calano dell’11,4 per cento, 650mila in meno), sono in condizioni economiche anche migliori: il 65,6 per cento ha risorse “ottime o adeguate”, il 28,5 per cento dichiara risorse “scarse”, solo il 5,4 per cento è povero.
Rispetto a dati di questo tipo, è difficile affermare che la scarsità dei lettori in Italia sia dovuta al disinteresse. Certo, ci sono barriere culturali, ma anche queste sono spesso collegate al reddito. I librai sono in sofferenza, e da tempo chiedono un intervento pubblico. Nell’ultimo report Istat sulla lettura dei libri il 35,3 per cento degli editori indica come principale ostacolo alla lettura proprio l’inadeguatezza delle politiche pubbliche di incentivazione all’acquisto dei libri, oltre al basso livello culturale della popolazione e alla mancanza di efficaci politiche scolastiche. La risposta del governo, annunciata da tempo, si è concretizzata nel bonus libro, uno sconto fiscale del 19 per cento inserito a dicembre nel decreto “Destinazione Italia”. La conclusione della vicenda è nota: il governo a fine gennaio si è accorto che i fondi non sono sufficienti, e in sede di conversione del dl ha ripiegato su un più modesto buono sconto da distribuire agli studenti delle scuole superiori con un reddito familiare sotto i 25mila euro. I librai recupereranno lo sconto con un credito d’imposta, soluzione certo non gradita agli esercenti, che lamentano molti mancati rimborsi per i buoni libro scolastici.
L’aumento della povertà e della disuguaglianza non si riflette solo sulla riduzione dell’acquisto e della lettura dei libri, ma anche sulle altre attività culturali. Per esempio va a teatro almeno una volta l’anno il 31,8 per cento dei lettori, ma solo l’8,6 per cento di chi non legge neanche un libro l’anno. Una situazione che si è aggravata con la crisi, e che ci allontana dalla maggior parte dei Paesi europei: «Il confronto internazionale – rileva Luciana Quattrociocchi – mostra per l’anno 2010 come la quota di spesa delle famiglie italiane destinata a consumi culturali (7,2 per cento) sia decisamente inferiore a quella media dei paesi Ue (8,9 per cento). Insieme a noi si collocano nella parte più bassa della graduatoria europea, con valori prossimi o inferiori al 6 per cento, Lituania, Grecia, Bulgaria e Romania. All’estremo opposto un nutrito gruppo di paesi, tra cui quelli nordici e il Regno Unito, la cui spesa destinata a consumi culturali supera nel 2010 il 10 per cento».
Il 37,5 per cento delle persone di 6 anni e più nel 2013 non ha partecipato ad alcun evento culturale: si tratta del valore più elevato dal 2008, anno di deflagrazione della crisi economica. Le riduzioni più consistenti, con percentuali a due cifre, riguardano però soprattutto lo sparuto drappello dei lettori con difficoltà economiche. Tra il 2008 e il 2013 si è ridotta del 9,1 per cento la quota dei lettori di “7 o più libri con risorse economiche insufficienti” che dichiara di andare a teatro; è calata del 14,8 per cento la frequentazione del cinema, del 7,7 per cento quella dei concerti di musica classica, del 5 per cento quella degli altri concerti, dell’8,9 per cento la lettura dei quotidiani.
Tra le pieghe del report Istat emerge anche un’altra considerazione. Se «la mancata frequentazione dei libri risulta correlata con l’esclusione da altre forme di partecipazione e fruizione culturale», questo vale anche per i figli dei non lettori. Perché a leggere in Italia sono soprattutto i figli dei lettori: la scuola incide, ma evidentemente non abbastanza. Tra i ragazzi di 6-14 anni legge il 75 per cento di chi ha madre e padre lettori e solo il 35,4 per cento di coloro che hanno entrambi i genitori non lettori. C’è persino una stretta correlazione tra il numero dei libri tenuti in casa e la lettura. Senza interventi adeguati, l’esclusione culturale può dunque diventare una maledizione che si tramanda di padre in figlio.

9 pensieri su “NOI CHE NON ABBIAMO BISOGNO DI LEGGI SUL LIBRO, FIGURARSI

  1. Una delle molte domande da porsi (e che su questo blog ci si pone spesso) è questa: come incidono questi dati – che case editrici e imprese del mondo della cultura conoscono benissimo – sui prodotti culturali? Il fatto che il pubblico sia sempre più ristretto e sempre più ricco, che ricadute ha sulle opere che vengono proposte?

  2. Io resto sempre un po’ perplessa quando si parla di consumo culturale. Immagino che si possa solo fare un calcolo dei libri venduti, eppure le biblioteche pubbliche in molte zone d’Italia per fortuna ci sono e offrono servizi gratuiti a tutti i cittadini e sono molto frequentate.
    Non mi ritrovo in questi dati, ma forse è un problema mio. Si può essere “poveri relativi” e continuare a comprare libri (o prenderli in prestito in biblioteca) e rinunciare per contro a molto altro (un cellulare ultimo modello, un paio di scarpe, una bicicletta nuova).

  3. I soldi non c’entrano con la lettura, c’entrano con tutto ciò che sta attorno, ma non con la lettura. C’entrano un po’ di più con l’acquisto dei libri, ma ancora molto meno di quanto si pensi. Basta fare un raffronto personale e con le persone che si conoscono. Per incentivare la lettura non serve una legge, servono pratiche. A scuola, almeno in quelle frequentate da me, una elementare, una media e tre superiori, non ho mai visto biblioteche. Anni e anni passati a far spendere alle famiglie centinaia di euro per libri funzionali a miseri voti. Speriamo che il digitale aiuti in questo. Non ho mai capito perché i libri invenduti vadano al macero invece che alle persone. Le case editrici potrebbero diffondere delle biblioteche con prestiti a pagamento ( 1 mese 50 centesimi o 1 euro ).

  4. probabilmente,come mi faceva notare ieri una leggenda locale parecchio stramba,non aiuta molto la causa chiudere le biblioteche nelle ore e nei giorni in cui uno non si sta sbattendo con o per il lavoro

  5. Le opportunità per leggere ci sono, forse è la voglia che manca. Come già diceva qualcuno, a volte non serve comprare un libro, basta recarsi in biblioteca. E poi una provocazione: come mai il settore smartphone, tablet, … non è mai in crisi?
    Stefano

  6. Invece nel nostro comune (Silea, TV) per quanto possso vedere c’è molta attenzione su educare alla lettura fin da piccoli. Al compimento del primo anno d’età il mio terzogenito ha ricevuto una lettera che lo invitava alla biblioteca comunale: là c’era un libro in omaggio per lui. Alla scuola per l’inanzia c’è in ogni classe un angolo morbido con libri esposti: qui le insegnanti leggono storie ma anche, durante il gioco libero, i bambini sono liberi di consultare i libri a piacimento. Poi c’è una biblioteca più grande da cui ogni venerdìi bimbi scelgono un libro per leggerlo nel fine settimana coi genitori; li portano alla biblioteca comunale a partecipare a una lettura animata, gli viene fatta la tessera ecc. Anche la primaria ha una sua biblioteca e gli studenti sono spronati a prendere libri che poi se vogliono raccontano davanti alla classe ( la qualità dei libri però spesso è scarsina purtroppo, come se non ci fosse nanche una selezione… forse questione di risorse).
    Comunque certo se non ci sono libri e lettori in casa anche i bambini è più difficile che trovino normale dedicare tempo quotidiano a questa attività al di fuori dei progetti scolastici…

  7. Ah, dimenticavo: il sindaco (al secondo mandato) è anche titolare di una piccola casa editrice… forse ma forse c’entra 🙂 (cioè di certo è sensibilie al valore della lettura).

  8. Forse dovremmo centrare meglio il tema, come qualcuno in questi commenti (Elena, Boris) ha già iniziato a fare. O i temi, se vogliamo. Perché mi sembra che da questi dati ne emergano almeno due: l’impatto della crisi sulla pratica della lettura e quello sull’industria culturale. Perché è vero che qui si parla di persone “che non hanno letto nemmeno un libro”, e non di persone che non l’abbiano nemmeno comprato; ma è anche vero che effetti del genere (leggere meno) potrebbero derivare da tanti altri fenomeni, anche diversi dalla crisi, che magari si sovrappongono ad essa: il semplice ricambio generazionale magari, che potrebbe portare all’età adulta generazioni meno avvezze alla lettura mentre ne scompaiono altre con una disposizione migliore (questa è solo una congettura, ovviamente, e andrebbe provata). Invece sul legame tra crisi e industria culturale i dati mi sembrano più solidi. E non è un legame meno allarmante: al di là del lavoro che si perde e si precarizza, al di là del fatturato che svanisce, è comunque il segnale di un impoverimento culturale, che se non nell’immediato finirà comunque per incidere anche sulla buona salute della letteratura, del teatro, del cinema. Poi magari è anche vero che le epoche di crisi sono quelle che partoriscono i talenti migliori (anche se oggi, sesto anno di crisi, questa epoca disgraziata non ha ancora trovato i suoi cantori), ma qui non stiamo parlando di talenti: qui stiamo parlando delle possibilità delle persone medie di accedere a un’offerta culturale decente, cosa che non potrà avvenire se i cinema chiudono, i teatri chiudono, le librerie chiudono per mancanza di sufficiente clientela. E se le persone medie, la classe media, sprofondano nell’abbrutimento oltre che nella precarietà economica, francamente io non so che farmene di un pugno di talenti cristallini che predicano nel deserto. Talenti che finora nemmeno si sono visti, per giunta.

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