NOI E LE ISOLE

Sono appena tornata da Capraia, luogo di incanti, isola di Alcina per eccellenza. Il tempo è poco, quindi invece di un resoconto vi posto, per ora, un articolo scritto per Linus dove racconto perché le isole sono importanti nel nostro immaginario.  E perché bisogna capirle prima di sentenziare.

Il precog del mese è William Golding, l’autore de Il signore delle mosche, uno dei romanzi più belli e terribili della letteratura. A ben vedere, Golding non è stato il primo precog delle isole, intese come luoghi dove avvengono cose mirabili e spaventose. L’isola è il luogo delle presenze invisibili, dall’Odissea in poi: il luogo dove in ogni viaggio immaginario si approda per scoprire il mistero, ma dove si possono compiere esperimenti spaventosi e persino sterminare centinaia di persone impunemente.
Le isole sono un luogo a sé, insomma. A partire dall’Ottocento il genere, si tratti di avventura o di fantastico, ha cominciato a osservarle e a utilizzarle: così fece Jules Verne con  L’isola misteriosa e così fece H.G.Wells con L’isola del dottor Moreau. Quasi un secolo dopo, Michael Crichton scriverà Jurassic Park, dove il miliardario John Hammond sfida i limiti del tempo e della morte per riportare in visita i dinosauri: naturalmente in un’isola in Costa Rica, Isla Nublar.
E Golding? Golding attinge alla tradizione e, nel 1952, scrive Il signore delle mosche, che resta tuttora il modello a cui guarda moltissima parte della narrativa distopica che prevede un luogo chiuso e l’eliminazione progressiva di chi vi si trova. Romanzo spietato e perfetto, racconta del naufragio di un gruppo di studenti su un’isola disabitata. Sono bravi ragazzi, o bambini, che all’inizio della storia cooperano per sopravvivere, dal momento che nessun adulto potrà aiutarli. Ma man mano irrazionalità e paura li metteranno l’uno contro l’altro e delineeranno la peggiore delle società possibili. Come dice Golding, “Gli umani producono il male come le api producono il miele”.
Quasi cinquant’anni dopo il giapponese Koushun Takami scrive Battle Royale, che successivamente diventerà un manga e infine un film. In questo caso la distopia è già realtà. Il governo giapponese, per motivi incomprensibili, organizza ogni anno un gioco dove sono costretti a partecipare i ragazzi di una classe di scuola media, selezionata casualmente, rapita e condotta in un’isola deserta. Al collo di ognuno è posto un collare metallico. Se non si sposteranno secondo gli ordini, il collare li farà esplodere. Lo scopo del gioco è far sì che tutti si uccidano fra loro, tranne uno, che sarà il vincitore dell’edizione.
A questo punto sarà evidente dove voglio andare a parare. Non solo Hunger Games è enormemente debitore nei confronti di Battle Royale, ma lo è ancora di più Squid Game, che è fra le cose più interessanti viste negli ultimi tempi.
Per chi ancora non lo sapesse Squid Game è una serie sudcoreana scritta da Hwang Dong-hyuk: la storia è quella di persone economicamente fragili, indebitate e disoccupate che vengono selezionate per un gioco di cui ignorano le regole. Narcotizzati e trasportati su un’isola deserta (di nuovo), scopriranno che le sfide infantili in cui devono cimentarsi, da un-due-tre-stella al tiro alla fune, prevedono la morte per chi sbaglia o perde. In palio, per l’unico sopravvissuto, 45,6 miliardi di won, circa 33 milioni di euro. Anche qui, all’iniziale solidarietà fra giocatori, che il protagonista Seong Gi-hun non tradirà mai, subentra la competizione spietata e senza scrupoli. Ci sono altre somiglianze con Battle Royale che qui si tacciono (almeno altre due non secondarie), ma il punto interessante è che il modello dell’isola dove compiere indisturbati il male di cui parlava Golding sembra intramontabile. L’altro punto interessante è l’etica di Squid Game: perché a essere messa sotto accusa è la ferocia del sistema economico. Volendo, i terrorizzati adulti che lo stanno mettendo sotto accusa potrebbero partire da qui, e ragionare sul perché le isole sono i luoghi prescelti per mettere in atto le situazioni più atroci senza essere visti.
Invece no.
Com’è noto, Squid Game incappa nella richiesta di censura e nella demonizzazione generale. Grida di dolore di educatori e genitori, petizioni, analisi più o meno dotte sulle terribili conseguenze che la visione della serie avrà sui bambini (anche se è indicata come adatta ai maggiori di 14 anni), anatemi contro i genitori che dimenticano i figli davanti a YouTube, Twich e TikTok dove frammenti della serie passano, anatemi contro Internet. Anatemi.
Facciamo un ripasso, giocoforza parziale.
1997: La psicologa Vera Slepoj afferma che la quinta serie di Sailor Moon compromette seriamente l’identità sessuale dei bambini.
1999: Il reverendo Jerry Falwell (quello che attribuì la responsabilità dell’attentato dell’11 settembre a: «i pagani, gli abortisti, le femministe, i gay, le lesbiche e tutti coloro che cercano di imporre uno stile alternativo di vita e di secolarizzare l’America» ) sostiene che i Teletubbies promuovono tendenze omosessuali ( si riferiva soprattutto a Tinky Winky, quello bluastro :”he is purple – the gay pride color; and his antenna is shaped like a triangle – the gay-pride symbol.” )
2000: Un bambino romano di quattro anni cade dal balcone della sua abitazione, al quarto piano. Morirà dopo qualche giorno. Episodio tristissimo che viene modificato e trasformato spietatamente in campagna anticartoni animati dai quotidiani, in totale disprezzo al diritto alla riservatezza e alla pietà di una famiglia colpita da un orrore di quelle dimensioni, e il cui dolore viene scavalcato da esperti e associazioni di genitori pur di ottenere tre righe in cronaca. Perché tutti i quotidiani attribuiscono all’emulazione dei Pokémon la causa dell’accaduto. Basta poco e si scatena la compagnia di giro: il Moige, la più mediatica tra le associazioni di genitori, senatori di AN , psicologi volontari (si chiamava Help me, l’associazione ed era molto attiva, sui media) invitano a segnalare, censurare, eccetera.
Vennero, e vengono ancora, bruttissimi pensieri rileggendo oggi quelle insensatezze astute, che nei contenuti non sono così dissimili da quelle di oggi, e che miravano, all’epoca, a conquistare una visibilità effimera sulle spalle da chi era colpito da una tragedia. Formulavano giudizi senza conoscere, come l’allora presidentessa del Coordinamento genitori democratici, Angela Nava Mambretti, che dichiarò: “Un bimbo che si lancia dal terrazzo credendo di poter imitare i Pokémon è un bimbo che non sa, che è stato lasciato solo, a cui nessuno ha insegnato la grammatica dell’infanzia, come direbbe Rodari”.
Ma il povero Rodari avrebbe avuto e avrebbe ben altro da dire, specie sulla lobbistica della dichiarazione compunta, viva soltanto perché qualcuno ha i suoi numeri di telefono per commissionare dichiarazioni del tenore desiderato. Il povero Rodari era quello che difese per primo i cartoni animati giapponesi (Goldrake e Mazinga) che interpellanze parlamentari (di sinistrissima) chiedevano di cancellare perché pericolosi e diseducativi. La morale, se c’è, è banale:  se invece di combattere i prodotti dell’immaginario provassimo a capirli potremmo trarne giovamento per noi e per i figli e per tutte le giovani persone.. Ieri come oggi e come, purtroppo, domani.

 

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