IL CAVALLO, NON IL CAVALIERE: UNA RIFLESSIONE

Immaginate. Immaginate che da un varco fra i mondi Silvio Berlusconi osservi l’Italia che commenta la sua morte, e che nella grandissima parte dei casi lo fa in due modi: celebrandolo, o insultandolo, ma limitandosi, in quell’insulto, a reiterare parole messe in fila, che – purtroppo – si esauriscono pochi minuti dopo averle pronunciate, o scritte. La stessa cosa avverrà per le celebrazioni, che saranno dimenticate prestissimo.
E’ il suo maggior successo, un successo che rallegrerebbe l’osservatore da altri mondi. Perché nei due casi ci si rivolge al passato non per farne preziosa memoria, ma per sfogarsi. E quando ci si sfoga, si dimentica subito.
Immaginate ancora di fare un salto indietro nel tempo fino a quindici anni fa. In questo caso si tratta di memoria, e la memoria appunto è preziosa e crudele, è fatta degli uccelli neri della storia di Adrienne Rich, che piombano su di noi urlando. A meno che non li sia osservati, e dunque non si sia ottenuta la pur minima possibilità di contrastarli.
Quindici anni fa, Alessandro Oppes intervista Javier Marías per Repubblica. E Javier Marías definisce così l’Italia: “Un paese cupo, antipatico, di cattivo umore, che ha perso il senso della solidarietà, e dove persino, l´espressione può sembrare un po´ forte, emerge qualche sintomo di razzismo”. E aggiunge:
“in Italia è stata ormai chiaramente abbattuta la frontiera tra ciò che si può dire o non dire in pubblico. Il linguaggio da bar, quello che io preferisco chiamare “linguaggio da caverna”, si è trasferito alla politica. È una forma superiore di demagogia, perché non si tratta solo di dire alla gente ciò che vuole sentire: il fatto che i politici adottino in pubblico il linguaggio crudo e brutale che dovrebbe essere confinato nel privato, gli dà legittimità. E ricompare nella bocca dei cittadini, ma con una veemenza molto superiore. Il pericolo è innegabile, perché può sempre accadere che ciò che si è detto si decida di metterlo in pratica, che si passi dalle parole ai fatti”.
Ecco, ieri è avvenuto un fatto strano: ho provato ad analizzare gli effetti di anni e anni di berlusconismo sulla letteratura. Ovvero: la mutazione del linguaggio dopo le televisioni commerciali, e dopo il tentativo di abbattere letterariamente l’antagonista, lui, attraverso i romanzi, e infine il ritrarsi in se stessi e nelle vite personali, perché quel che c’è là fuori è irredimibile. Il tutto, ovvio, con le dovute eccezioni.
Questa riflessione è stata scambiata per elogio, mentre è la conseguenza più spaventosa che si possa immaginare: essere cambiati, chi scrive, chi legge, chi vive in questo paese, senza rendercene conto. Adottare un pensiero binario (o si insulta o si celebra). Svuotare le parole di significato. Non comprendere i testi. Rifiutare il dialogo in favore dell’aggressività.
Il peggiore degli scenari possibili, ed è vero, tangibile, ed è oggi.
Non mi interessa rievocare il passato: dimenticare mai, usare il passato per un paio di meme, però, è inutile. Mi interessa capire cosa fare di quei semi che sono stati piantati in un paese a partire dagli anni Ottanta, come sono germogliati, quali veleni possono soffiare ancora sul presente e sul futuro. Non solo in letteratura: la letteratura raccoglie lo spirito del tempo, non lo determina. E lo ha fatto, lo fa.
Mi interessa capire come contrastarli, con quali altri racconti, con quali altre parole.
Chiacchierando un tempo con Andrea Camilleri disse che il problema non era il Cavaliere, ma il cavallo. Ovvero noi, che gli abbiamo permesso di salirci in groppa e ci siamo abituati al peso. Non so se la frase fosse sua, ma è vera.
E’ questo il punto su cui chi prende parola pubblica, dunque tutti e tutte ai giorni nostri, deve concentrarsi. Il resto è un soffio. E, come diceva Marìas in quell’intervista, “il caso dell´Italia è ancor più plateale, perché tutto sta avvenendo in modo più gridato, più scoperto. Quello che temo di più è che tutte queste cose possano essere contagiose, che possano contagiare altri paesi. Si sa, l´imbecille ha successo nel mondo. Le idee più stupide trionfano”.

Un pensiero su “IL CAVALLO, NON IL CAVALIERE: UNA RIFLESSIONE

  1. “Svuotare le parole di significato. Non comprendere i testi. Rifiutare il dialogo in favore dell’aggressività.
    Il peggiore degli scenari possibili, ed è vero, tangibile, ed è oggi.”

    Questa frase, stata scritta da una persona che con le parole ci lavora e che si è fatta intervistare da una persona inventata (Monica Rossi) su Facebook sulla cui bacheca (dove le parole spesso sono usate a vanvera) in questo momento molti stanno ironizzando sulla malattia di Michela Murgia (dicono che l’annuncio del suo tumore coincide con l’uscita del suo libro, ossia si ventila l’idea di una trovata pubblicitaria) ha un valore aggiunto.

    Complimentoni

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