NOI E LORO

We did it!, titolava l‘Economist il 30 dicembre. Ovvero, le donne americane sfiorano ormai il 50% della forza lavoro, e con ogni probabilità la parità assoluta sarà raggiunta entro il 2010.
E l’Italia? Siamo ancora lontani.  Ricorda su Repubblica di oggi Chiara Saraceno:
“Molto spesso è la disponibilità dei nonni a fare la differenza tra mantenere l´occupazione o abbandonare. Ma i nonni (le nonne), checché pensino la ministra delle pari opportunità e il ministro del lavoro (si veda il documento Italia 2020), non sono una risorsa infinita. E non sarà certo l´incentivo di un qualche bonus fiscale ad aumentarne la già straordinaria disponibilità e a fermarne l´inevitabile invecchiamento, con le sue conseguenze sulla resistenza fisica necessaria a far fronte ai bisogni di un bambino.
Si aggiunga che per le donne la mobilità in entrata nel mercato del lavoro è molto più ridotta di quella in uscita. Secondo una indagine longitudinale recente dell´Istat, il 79% di coloro che erano casalinghe nel 2003 a tre anni di distanza erano rimaste tali, mentre il numero delle donne che da disoccupate sono diventate casalinghe ha superato di gran lunga quello di coloro che hanno fatto il percorso inverso.
Per chi ce la fa a rimanere nel mercato del lavoro le azioni di scoraggiamento sono sistematiche e ripetute. La citata ricerca Istat segnala che nell´arco di tre anni solo il 46% delle lavoratrici con contratto a tempo determinato ne ha conquistato uno a tempo indeterminato, a fronte di due uomini su tre. I divari salariali, a parità di orario e di qualifica, rimangono più elevati che nella maggior parte dei paesi europei, specie ai livelli più alti. Secondo i dati Eurostat, una donna manager in Italia guadagna il 35% in meno di un pari grado, a fronte del 15% medio nella UE. Anche le possibilità di fare carriera sono consistentemente inferiori a quelle degli uomini con qualifiche simili. Non vi sono pressoché donne tra gli alti dirigenti pubblici. Non va molto meglio nel privato, dove le eccezioni riguardano quasi sempre imprese o di famiglia, o multinazionali.
Infine, una istruzione elevata, se facilita la permanenza nel mercato del lavoro, per le donne conta molto meno che per gli uomini per quanto riguarda i differenziali retributivi. In Italia una laureata guadagna in media solo il 3% (media UE 12%) in più di una con la licenza di scuola media superiore, a fronte del 58% (media UE 63%) in più spuntato da un laureato”.
In proposito, lunedì mattina verrà presentato  alla stampa il comitato Pari o Dispare. L’idea di fondo, fra le molte, è proprio quella di raggiungere la parità di genere nel  lavoro. Ve ne parlerò, e vi parlerò anche delle altre iniziative che stanno prendendo forma.
E che, grazie al cielo, riguardano un immaginario che continua a non cambiare. Anzi.

13 pensieri su “NOI E LORO

  1. ieri il mio capo stava rispondendo a dei biglietti di auguri. Ce n’era uno con la foto dei dipendenti della società che lo aveva inviato, e sotto la scritta “Auguri”. Lui mi fa: “Guarda te, tutte donne e solo 4 uomini”. Io, che non rispondo mai a niente e sorrido sempre (un po’ per rispeetto dei ruoli, un po’ per l’età, io 25 lui 68), non mi sono saputa trattenere: “Beh, ma quei 4 saranno sicuramente quelli che comandano”. E lui: “Voi ci credete veramente a sta cosa. Vabbè, andiamo avanti”. E ci siamo rimessi a rispondere ai biglietti.
    Nella società in cui lavoro ora (almeno per il prossimo mese e mezzo, poi chissà) ci sono 53 persone. Di queste solo 19 sono uomini. Tra questi 19 ci sono 4 dirigenti, un amministratore delegato, e un presidente. Donne dirigenti: 1 sola (e anche mal considerata).

  2. Visto il trend (che in realtà è anche italiano, con la crisi sono rimasti a casa più maschi che femmine) se avrò un figlio “speriamo che sia femmina”. Credo che oggi a livello quantitativo anche in Italia (al nord almeno) sia più facile per una donna trovare e mantenere il proprio lavoro che per un uomo, almeno in fasce d’età giovanili (fino ai trentacinque).
    Il fatto è che ci sono limiti biologici che non possono essere oltrepassati, se non da una genetica che crea figli in provetta. La funzione della donna di essere anche madre un giorno la vincola anche a una dimensione di accudimento della propria prole. Sono totalmente d’accordo sui diritti delle donne in maternità, che peraltro non sono poi così male quelli esistenti, per avere una reale parità. Ma una donna con due figli (cosa peraltro sempre più rara averne almeno due, da cui la crisi demografica e l’invecchiamento della popolazione, mentre la popolazione immigrata cresce con ritmo ben maggiore) per molti lavori non sarebbe più in grado di essere sufficientemente produttiva, se non fosse solo per il tempo a disposizione.
    Negli enti pubblici, la percentuale di donne è molto elevato, almeno in Emilia Romagna, dove vivo, spesso superiore a quello degli uomini, anche a livello dirigenziale. (E’ vero le donne sul lavoro ci sanno fare, in media più degli uomini e sono più motivate, in genere). Il problema secondo me non consiste tanto in una battaglia contro il cosiddetto potere maschile, la man power, ma in una alleanza tra i due sessi.

  3. Alleanza fra i due sessi, ovvio che sì. Ma a patto di superare le differenze. Mark, non volendo confermi l’enormità del problema.
    Primo: ventili una discriminazione alla rovescia (per una donna è più facile trovare lavoro). Dammi i dati. Fin qui, è dimostrato esattamente il contrario, perchè molti datori di lavoro tendono a privilegiare invece gli uomini proprio perchè in Italia, a differenza di altri paesi europei dove il congedo parentale è equamente diviso fra padre e madre, sono le donne ad usufruirne.
    Secondo. “La funzione della donna di essere anche madre”. E la funzione del padre? Ripeto: nei paesi dove l’accudimento è non soltanto facilitato dallo Stato con strutture adeguate, ma dove è condiviso da entrambi i genitori, le donne lavorano di più, fanno più figli e persino l’economia nazionale rifiorisce.
    Parlo di dati, non di sensazioni: non è argomento da affrontare per sentito dire, o almeno io sono abbastanza stufa di argomentazioni che riguardano casa propria, la propria città e persino la propria regione. L’Emilia Romagna è una delle eccezioni virtuose. Una delle POCHISSIME, in Italia. Guardiamo, per favore, ai dati complessivi.

  4. Cara Loredana, non parlo per sentito dire. Il dato sul trend della disoccupazione in questi ultimi mesi di crisi l’ho letto sul corriere qualche tempo fa, ora non l’ho a disposizione ma il dato è certo. Non credo poi che il dato emiliano romagnolo sia da minimizzare, si tratta di un’intera regione italiana con vari milioni di abitanti. Io parlo dei dati che ho a disposzione e per esperienza diretta. La mia sarà una sensazione, un punto di vista parziale, ma mi pare abbastanza oggettivo. Io lavoro in Emilia Romagna e ho lavorato in Lombardia, e anche a Milano la parità è un fatto certo (lasciamo stare il problema della dirigenza, per ora). Non voglio essere polemico, è che su questi problemi si parla un po’ troppo spesso con lo stile del pollitically correct. Le donne si sentono discriminate e protestano, non possono sentirsi un po’ discriminati anche gli uomini, qualche volta?

  5. E’ il dato nazionale a contare, e il politically correct non ha nulla a che vedere con i fatti. E i fatti sono questi. Dati Ocse.
    L’occupazione femminile che dovrebbe raggiungere il 60 per cento entro il 2010, nel 2006 si attestava al 46,3%, rispetto alla media dell’Unione del 57,4. La scarsa occupazione femminile ha riflessi sul tasso d’occupazione dell’intera popolazione, che nel 2006 è stato del 58,4%, rispetto alla media dell’Unione a 27 del 64,4%. Sulla base di questi dati l’Italia si trova nelle ultime posizioni in Europa.
    I paesi caratterizzati da una minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro, come l’Italia, sono quelli che otterrebbero dall’aumento dell’occupazione femminile un maggior vantaggio in termini di crescita del Prodotto interno lordo. Nel luglio 2008 esce uno studio della Banca d’ Italia che evidenza come, se il tasso di occupazione femminile salisse al livello di quello maschile, il Pil crescerebbe addirittura del 17,5%, cioè circa 260 miliardi di euro. La metà di quanto bruciato dalle Borse europee nel luglio nero. L’Ocse ricorda anche che fra i Paesi ad alto reddito, dove le donne hanno meno opportunità di occupazione si fanno meno figli. Inoltre: il differenziale retributivo di genere in Italia si attesta al 23,3%: una donna in media percepisce, a parità di posizione professionale, tre quarti dello stipendio di un uomo. C’è il lavoro di cura non riconosciuto: in un giorno medio (che comprende anche la domenica) una donna italiana lavora complessivamente , tra casa e ufficio, ben 7 ore e 26 minuti, un tempo superiore a molti altri paesi europei e che per esempio è maggiore di un’ora e 10 minuti rispetto al tempo di lavoro complessivo della donna tedesca. Gli asili nido sono fra i più bassi d’Europa.
    Questo è politically correct? Ma per favore.

  6. Io estrapolerei il dato del sud, per dare un quadro un po’ più realistico…Certo il dato italiano, ma uno parla anche a partire dal contesto in cui vive e lavora, se no si guardi al dato europeo e tutto si raddrizza. Perchè è sbagliato guardare alle regioni del nord, e contestualizzare il dato rispetto al nord e non lo è guardare l’Italia (regione dell’Europa) e il dato europeo?

  7. Dunque attenzione – lo dico a sostegno di Loredana – degli slittamenti di dati che provoca l’indagine Istat forze lavoro a cui ho lavorato come intervistatrice per un paio d’anni.
    Ci sono categorie professionali – le più marginalizzate e che funzionano come circuiti chiusi, in cui la maggioranza degli assunti sono donne: vedi i tanto famosi call center. Nei call center la maggior parte sono donne. Non hanno alcuna possibilità di carriera hanno uno stipendio miserando e sono le zone dove spesso approdano madri di famiglia con senso di responsabilità per i figli – perchè non possono far pagare a loro il costo della discriminazione sociale che deve affrontare la loro ambizione professionale. Sono tantissime le donne che lavorano – che ne so anche a fare le pulizie e via di seguito – rinunciando ai costi di una realizzazione per dovere. Una madre non è solo una donna che accudisce i figli, e anche una donna che sa di dover avere dei soldi per i figli.
    Vuol dire che molte non tornano a lavorare. Altre tornano ingoiando merda. Alcune certamente ce la fanno: ma ecco che le percentuali presentate da Loredana tornano.

  8. Estrapolare il dato del sud è un’ingenuità. Le condizioni di arretratezza sociale nel meridione, che contribuiscono in maniera determinante a mantenere alto il tasso di disoccupazione femminile, sono funzionali alla produzione di profitto a basso costo (attraverso il lavoro in nero, sottopagato, cococo, e via elencando) che tiene alti i bilanci delle aziende del nord, e dell’intero sistema Italia. Quindi il dato meridionale è il risultato non di un’anomalia, ma di una condizione di sistema che preferisce il profitto a breve dell’attuale situazione (e il mantenimento di bassi livelli salariali attraverso l’esistenza di un esercito di sottoccupati e disoccupati) piuttosto che investire a lungo respiro in una politica di sviluppo che alzerebbe i tassi di occupazione femminile, strappando centinaia di migliaia di donne dal lavoro nero, e dalla produzione di quello che una volta si chiamava “plusvalore femminile”, cioè il lavoro domestico a salario zero.

  9. Sarà un ingenuità, Girolamo, estrapolare i dati del sud, non ho una laurea in statistica, come qui nessuno credo, ho espresso solo una opinione parzialissima. Ma mi pare di poter dire almeno che i dati (i cosiddetti fatti) vanno interpretati. Il dato nudo e crudo, bruto, presentato come un fatto indiscutibile, dice poco della complessità della condizione femminile in Italia come in Europa. E io mi sono solo permesso di esprimere un punto di vista sul contesto di lavoro che conosco e in cui mi trovo che è in netta controtendenza rispetto al dato complessivo italiano. Dopodichè, per me se arriva la parità assoluta tra uomo e donna sul lavoro è la cosa migliore possibile, ma che sia vera parità, da una parte e dell’altra e si sappia anche guardare ai trend positivi e non solo a quelli negativi.

  10. Mark, non volevo insinuare alcunché, sono convinto della bontà dei tuoi intenti. Infatti ho scritto “ingenuità”, non “scorrettezza”. Ingenuità che non è di certo solo tua, ma è opinione corrente, purtroppo, se non si allargano le prospettive.

  11. Aggiungerei che persiste una divisione del lavoro familiare ancora patriarcale. “Banalmente”, la donna quando rientra dal lavoro, se lo ha, deve svolgere tutte quelle mansioni di “cura della casa” che un uomo ha imparato sin da piccolo che non spetta a lui svolgere. In linea di massima – ma non ho statistiche alla mano, solo un’osservazione attenta di quello che mi sta intorno – la situazione è scontato che sia questa.
    Alla donna che voglia intraprendere una carriera, alla donna che voglia esprimere creativamente se stessa nei modi più disparati, non è dato lo spazio materiale per farlo, a differenza, spesso, di quanto accade per gli uomini. E non è inverosimile pensare che di fronte alla possibilità di un part-time negato, giusto per fare un esempio, subentri una depressione o un senso di sfiducia nelle possibilità di essere concretamente felici e/o quantomeno soddisfatte della propria vita. Tutto questo contribuisce a rendere ancora più difficile l’intrapresa di una strada di riscatto femminile, sotto troppi punti di vista.

  12. Denise, quello che dici è verissimo ed è scandaloso che oggi, nel 2010, esistano ancora certe regole barbare. C’è da dire che tali distinzioni nascono prima di tutto nelle famiglie, anche dalle mamme. Io sono stato fortunato perchè fin da quando ero bambino mi è sempre stato proposto un modello di famiglia in cui padre e madre si dividono i compiti al 50%, però insomma, quando mia madre voleva farsi aiutare in qualcosa, chiamava mia sorella, mai me.
    Per la cronaca, dove lavoro io siamo 4 uomini (tra cui i due “capi”) e 6 donne.
    G.

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