Ho incontrato poche volte Beniamino Placido di persona: accadeva nei primissimi tempi della mia collaborazione a Repubblica (per essere precisi, a “Mercurio”, che era, nel 1990, il supplemento culturale del sabato).
Capitava, nello stanzone di piazza Indipendenza, che si palesasse “zio Ben”: e davvero era occasione da non perdere. Perchè anche l’ultima arrivata (io) era oggetto di squisita gentilezza e di sincera curiosità.
Ecco, curiosità.
Da lettrice, sono stata una fan appassionata di Placido fin dal suo primo articolo. Dirò di più: volevo diventare come lui. Volevo avere non solo la sua cultura, ma la capacità di mettere la conoscenza del passato al servizio di quel che avviene nel presente. Anche nelle parti meno frequentate del presente medesimo, quelle volgarotte, quelle considerate poco degne di nota. Questo faceva Beniamino Placido, anche prima di occuparsi di televisione. Non c’era fenomeno che non valesse la pena di esplorare (che lezioncina, per quelli che tuttora brontolano sul fatto che di certi argomenti la cultura di un quotidiano non deve occuparsi), perchè ogni evento poteva aiutarci a capire non soltanto la sociologia della nostra quotidianità: ma il nostro stesso sapere. Il valore del nostro sapere nel tempo. Il postmoderno non c’entra: Beniamino Placido non sosteneva che Fausto Coppi e Mozart si equivalessero. Ma che dentro Coppi c’era un po’ di Mozart. Ed è sacrosanto.
Per questo, porgo come ricordo un articolo del 18 maggio 1985 dove Beniamino affronta, da par suo, la questione del “monnezzone”. Il monnezzone era, allora, Il nome della rosa.
Farewell, zio Ben.
Vorrei raccontare un aneddoto. L’ aneddoto della “Venere svizzera”, che mi è tornato in mente di fronte ad un inciso di sei parole, contenuto nell’ articolo di Pietro Citati: “Bestseller: gli ultimi saranno i primi” (“Corriere della sera”, 13 maggio). Non riaprirò la questione generale – quali libri o libracci si vendono oggi, e perchè – dal momento che su questa questione è già intervenuto Paolo Mauri (“Tutti venduti”, “la Repubblica”, 15 maggio).
Mi riferirò invece a sei parole soltanto del corsivo di Citati. Le seguenti: “assoluta assenza di ogni talento letterario”. E chi sarà mai questo scrittore che da centosettanta settimane figura nella classifica dei best-seller, malgrado – o forse proprio in virtù – della sua “assoluta assenza di ogni talento letterario”? Avete indovinato, si tratta di Umberto Eco.
Sono personalmente convinto, anche se non posso dimostrarlo, che se “Il nome della rosa” si fosse venduto in mille – o duemila, o tremila – copie, i critici italiani avrebbero detto che si trattava di un brillante ma sfortunato esempio di saggistica-narrativa: meritevole di ben altra fortuna. Ma “Il nome della rosa” si è venduto ahimè in milioni di copie. E quindi non c’ è dubbio. Deve trattarsi di un libro fortunato (troppo fortunato, accidenti!) ma mediocre. Scritto fuori dei canoni della composizione letteraria. Pietro Citati non è il solo a pensare che “Il nome della rosa” sia stato scritto – ripetiamolo ancora – “in assoluta assenza di ogni talento letterario”. E’ il solo o quasi a scriverlo con trascurata eleganza. Gli altri letterati nostrani lo confidano alla moglie, lo borbottano agli amici, lo scribacchiano come possono. E per spiegare questo successo internazionale tirano fuori tutte le “ragioni” del mondo.
Siamo dunque in presenza di una società letteraria che soffre. Che soffre per il successo di uno dei suoi membri. E ad una società che soffre una parola di conforto non la si può negare. Magari porgendola, come facevano i predicatori di una volta, nella forma dell’ aneddoto.
Ma intanto cerchiamo di capire che cosa si intende dire quando si dice – o si pensa o si scrive – che “Il nome della rosa” è stato scritto in absentia di ogni letterario talento. Per quel che ho capito io – ascoltando, discutendo, leggendo fra le righe – si intende dire che la scrittura di questo romanzo è povera, è piatta. Non è inventiva. E può anche essere vero. Però è anche vero che ci sono – ci sono sempre stati, e sempre ci saranno – romanzieri che lavorano sulla scrittura e romanzieri che lavorano sulle situazioni.
Facciamo un esempio: quello di H.G. Wells, il grande scrittore inglese di fantascienza. Apriamo uno dei suoi romanzi più meritatamente famosi: “L’ uomo invisibile”. Voto in scrittura: cinque meno meno. Ma quest’ uomo proprio non sa scrivere! E’ sciatto nell’ aggettivazione, è monotono nella scelta dei termini, confonde addirittura “creditable” e “credible” (ciò che i critici inglesi non gli hanno ancora perdonato, a distanza di vent’ anni). Ma proviamo a dare un voto adesso alla sua capacità di creare situazioni significative e interessanti. Gli dovremo dare dieci. Se basta. Perchè oltre ad aver inventato la storia – avvincente – dell’ Uomo invisibile, Wells ha anche profetato – nel 1897 – che il prossimo secolo, cioè il nostro, sarebbe stato “un secolo di uomini invisibili, che spargeranno il terrore”. Chi cerca una definizione letteraria del terrorismo sempre e soltanto nei “Demoni” di Dostoevskij si dia pace. Una definizione del terrorismo novecentesco – nelle sue motivazioni profonde (mi rendo invisibile per essere potente), nelle sue manifestazioni esplosive – è qui, in questo libriccino popolare, scritto – direbbe Citati – in assoluta assenza di ogni talento letterario. Facciamo allora l’ ipotesi che il successo mondiale de “Il nome della rosa” sia dovuto al fatto che Eco ha saputo inventare delle situazioni significative, anche se le ha proposte in un linguaggio semplice.
Mi rendo conto a questo punto che la società letteraria sta ancora soffrendo. Anche per colpa mia. Non ho ancora raccontato il mio aneddoto. Eccolo. Nel 1954 la nostra Nazionale di calcio si recò in Svizzera per prender parte ai Campionati del mondo. Partì accompagnata da fervide speranze. Ma furono subito botte. E proprio ad opera della disprezzata Nazionale elvetica (che ci battè 2-1 a Losanna e poi di nuovo 4-1 a Basilea, il 23 giugno). I calciatori, i tecnici, i giornalisti italiani non sapevano darsi pace. Tirarono fuori tutte le scuse, tutte le spiegazioni, tutte le giustificazioni possibili. Finché non apparve sul “Mondo” di Pannunzio un articolo (a firma, mi pare, di Mino Guerrini: “La venere svizzera”) che passava scrupolosamente in rassegna tutti gli “alibi” della nazionale italiana. Fino a quello più ridicolo. Un giornalista sportivo aveva scritto che i nostri valorosi giocatori avevano perso perchè profondamente turbati dalla quotidiana visione di una formosa fanciulla elvetica che prendeva il sole, in costume, nella piscina del loro albergo.
Commentava “Il Mondo” – un giornale che ha tanto contribuito alla nostra educazione sentimentale e culturale: tutte le scuse abbiamo cercato. Tutte. Nessuno ha pensato che forse abbiamo perso – e sonoramente – non perchè le svizzere sono avvenenti ma perchè gli svizzeri sono calcisticamente più forti. Forse anche qualche letterato italiano di oggi farebbe bene a sfogliare di tanto in tanto la collezione del “Mondo”, per imparare che quando gli altri vincono, quando scrivono un libro tradotto e letto in tutto il mondo ci possono essere tante ragioni, tutte ignobili. Ma può anche accadere semplicemente perchè sono più bravi. Perchè sono – calcisticamente parlando – più forti.
Placido va ricordato perchè è stato un campione dell’articolo culturale oltreché dello specifico televisivo. L’articolo riproposto non è, però, a mio modestissimo parere il modo migliore per ricordarlo.
Dinosauro: certo.
Ma è il mio, con tutta la fallacia della parzialità. Perchè io ho amato molto, invece, proprio questo articolo, ai tempi.
Una lettera del 1995 al grande Beniamino Placido:
http://lucioangelini.splinder.com/post/22006248/UNA+LETTERA+DEL+1995+AL+GRANDE
“Checchè ne abbia poi scritto Beniamino Placido (La Repubblica, 22 settembre 1977) l’abate Vallet era esistito e così certamente Adso da Melk)” Umberto Eco, Il nome della rosa, cornice introduttiva e finzionale sul ritrovamento del manoscritto da cui poi è nato il romanzo, pagina 13. Il modo migliore di ricordarlo, la citazione di Eco, in un romanzo che vivrà ancora a lungo, a differenza dei libri di Citati sulla cui qualità letteraria non mi esprimo, visto che ho tentato a suo tempo solo di leggere il suo Kafka, e ho smesso dopo due righe. L’invidia è il peggiore dei peccati. Meglio il citato Beniamino che qualsisi Citati di turno.
Se distinguiamo in un testo la forma dal contenuto, cioè l’uso della lingua dalla creazione di situazioni, è da intendere che il talento letterario si riferisce solo alla forma? Valgono di più delle bellissime composizioni letterarie con soggetto banale? Se si volesse scrivere una storia sulla bellezza di un fiore (oggetto banale, senza azione), ma scriverla benissimo, con metafore, allegorie e tutte le diavolerie della lingua, questo scritto potrebbe far emergere un talento letterario che un testo come “Il nome della rosa” non riesce? E per talento letterario non intendo lo scrittore, ma la dote in sé.
Dovremmo tornare ad esaltare la forma? la formalismo? la bella calligrafia e lo studio della grammatica italiana come non si studia più nemmeno nei licei classici figuriamoci in altri ordini.
Ma non era stata fatta tutta una battaglia contro il formalismo? Contro le “facciate”, contro il bello in apparenza, il bello ma vuoto?
Certo, l’ideale sarebbe averle entrambe, la forma e il contenuto… ma anche queste come ogni cosa nella vita vanno a percentuale. Se volessimo fare un esercizio potremmo chiederci: ne “Il nome della rosa” da 1 a 100 quanto è la percentuale di forma? e da 1 a 100 quanto è la percentuale di contenuto originale? Una mini scheda di valutazione. Poi però bisogna aggiungere tutti i parametri di mercato. Perché la fortuna è pur sempre fortuna, cioè il fatto di essere nel posto giusto al momento giusto.
Anch’io ho seguito tantissimo Placido, un Maestro della critica in generale.
Era una persona colta e soprattutto di cultura non specialistica, settaria e settoriale. Una figura quasi mitologica, ai giorni nostri.
A random
1. Non amo il nome della rosa – ma ne riconosco il genio.
2. Trovo invece l’articolo di Placido perfetto proprio nel suo non essere dei migliori, ma una roba da dare a scuola o ai novizi del giornalismo culturale per tutta una serie di motivi. La scrittura comprensibile ma non banale, lo sguardo gentile e attento a sedare eventuali risentimenti latenti. La capacità di ragionare lucida, l’attenzione al fenomeno culturale.
3. Co citati è stato gentile eh. Io Citati lo trov l’exemploi massimo della malattia italiana, il tarlo della cultura, per non dire di peggio. Non c’è un articolo suo per non parlare di quegli atroci libri suoi (ancora ricordo la tremenda “Colomba pugnalata”) che non mi provochi un immantinente Travaso di bile.
4. Una persona credo piacevole Placido. C’è un mondo dietro il concetto di “persona piacevole”, un mondo di cultura cautela precisione ecco.
@Elisa
La fortuna aiuta gli audaci e scrivere un grande best seller che mette d’accordo pubblico e critica (a parte Citati e pochi altri invidiosi) non è come vincere al superenalotto
Elisa, l’articolo di Placido dovrebbe suggerire altro rispetto all’interpretazione per formulette, non trovi?
Zaub. Sì. C’è molto dietro il concetto di persona piacevole. Condivido in pieno.
Può piacere o no, ma il nome della rosa vendette un sacco di copie perchè la storia funzionava.
Il pendolo di foucault perchè l’aveva scritto Eco…
Sarò forse poco alla moda, ma ritengo il nome della rosa uno dei più bei libri che abbia mai letto.
Ecco, mi è venuta voglia di rileggerlo.
Sai, Loredana, stanotte quando ho scoperto della morte di Placido, ci sono rimasto davvero male. Ero certo (certissimo!) comunque che tu l’avresti ricordato.
Beniamino Placido era un intellettuale raffinato, colto ma sopratutto curioso. Questa sua indole l’ha sempre tenuto lontano dalla sindrome pontificatoria di buona parte dei nostri parrucconi, che valgono neppure un’oncia della sua visione del mondo e della cultura.
Loredana, le mie formulette volevano essere uno spunto di riflessione sui contenuti, al di là di Placido, Citati o Eco… ma probabilmente non è il post giusto per fare riflessioni su forma e contenuto.
Ho letto Il nome della rosa e mi è piaciuto nel suo genere e trovo Eco un vero intellettuale e scrittore. Di Placido e Citati non posso dire nulla perché nulla ho letto di loro (a parte l’articolo riportato).
Ecco, sì, un uomo piacevole. C’era in lui un modo di occuparsi delle cose di cui parlava che era anche un prendersene cura.
Impagabile quel “siamo dunque in presenza di una società letteraria che soffre”, dove c’è sicuramente dell’ironia tagliente, ma anche un prendere in considerazione un fenomeno e individuare anche una patologia.
Peccato che la società letteraria non abbia mai voluto ascoltare quei pochi medici che si sono occupati, con garbo, di lei. E preferisce continuare a soffrire. Pure Saviano, per dire uno degli ultimi, le ha procurato un dolore micidiale. E mannaggia.
Esprimeva idee profonde e a volte rivoluzionarie, con leggerezza e ironia; per anni era il primo articolo che andavo a leggere sulla Repubblica. Era anche una figura mitica nel mio quartiere, con il pacco di giornali e riviste sottobraccio. Bei tempi!
Concordo su Placido. Appena vedevo la sua firma leggevo subito. Ricordo soprattutto la scrittura nitida, brillante. Davvero una mente lucida, curiosa, e a volte caustica. Un grande.
Però vorrei anche spezzare una lancia a favore del (sempre) vituperato Citati. E’ uno della vecchia guardia, forse un “parruccone”, uno che ha già fatto arrabbiare la Lipperini per alcune battute sulle donne, ma scrive dannatamente bene. Vecchio stile, vecchia eleganza, roba estinta. E La colomba pugnalata è molto bello, e così diversi saggi del Male ASssoluto, mentre il Kafka è un libro sbagliato, tutto, perché pretende di spiegare Kafka in chiave teologica.
un articolo semplicemente splendido, adattabile a tanti (troppi?) italici casi letterari e non…
Per ovvi – e meno ovvi – motivi, apprezzo molto il tuo modo di ricordarlo.
Sono profondamente dispiaciuta che Placido non ci sia più.
Bene Placido. Male Citati. Bene Eco. Emerge il solito adagio dei “parrucconi”, della letteratura aristocratica. Placido nell’articolo scrive che alcuni grandi successi non dipendono da una scrittura elevata ma dalla creazione di situazioni interessanti. Benissimo, chi lo discute. Tale affermazione conferma che molti di quei successi non sono opere letterarie. Eco è un grande tecnico della lingua, un raffinato intellettuale ma uno scrittore non eccelso. La letteratura è stravolta, spappolata quando si definisce Gomorra un’opera letteraria. Non è la società letteraria che soffre ma il concetto di letteratura.
mi piaceva Placido.Mi era anche simpatico
Oddio, qui finisce che mi ritrovo a fare la macchietta del bastian contrario…
Ma bando alle ciance: amicus Plato sed magis amica veritas…
Quando da giovane leggevo Repubblica regolarmente la rubrica di Placido era quella che leggevo sempre e comunque, con grande piacere. All’epoca ritenevo il suo atteggiamento nei confronti della televisione e di quella che all’epoca era ancora chiamata ‘cultura di massa’ assolutamente impeccabile e lo condividevo.
Invecchiando, ho cambiato atteggiamento e credo che quel modo di vedere sia un po’ invecchiato, in parte per il semplice motivo che ha vinto su tutta la linea.
Qualche anno fa proprio l’articolo su Eco e Citati diede spunto a Filippo La Porta per una critica a Placido che, ormai, sono costretto a condividere (si trova nel pamphlet ‘Non c’è problema’):
‘L’osservazione sprezzante che chi critica qualcosa lo fa in nome dell’invidia ha il potere di disarmare chi emette la critica e lo precipita di fronte a tutti in uno spazio miserabile’ e naturalmente è applicabile a chiunque abbia successo, per quanto effimero o di scandalo: si finisce per correre in aiuto del vincitore. Sostituite a Eco (che comunque un suo peso culturale ce l’ha) un Moccia o un Faletti o una Tamaro o a chiunque e l’invidia resta anche se il bersaglio magari se lo merita…
(e poi non ricordavo quel dettaglio su Wells che non saprebbe scrivere: ma quando mai? ma come si permette? ma dove se l’è inventata?)
Io di Placido ricordo un programma televisivo serale nel quale parlava di cinema con una leggerezza e una profondità ammirevoli. In particolare, un dialogo con Musatti, con una lettura di “Intrigo internazionale” da standing ovation.
E trovo bellissimo questo articolo, che contiene già in nuce un criterio che tanta parte della critica sul web ha fatto proprio: non mettere voti e fare comparazioni, ma interrogarsi sulla forza di un testo in quanto tale.
Critica sul Web non valutativa tipo le stelline di Amazon, i voti di Imdb e siti come Rottentomatoes e Anoobi?
Cara Loredana, anche a me spiace che Beniamino Placido sia morto. Seguivo con attenzione sia la sua rubrica giornalistica sulla tv che il programma che fece con Montanelli, in cui dicevano sempre “noi”: noi italiani abbiamo questo difetto, non se ne tiravano fuori. Poi leggevo con interesse pure le sue recensioni su Repubblica, credo infatti di aver comprato e apprezzato “i 15.000 passi” di Trevisan dopo un suo articolo. E infine lessi e rilessi diverse volte un suo densissimo saggetto del Mulino, “la tv col cagnolino”, in cui analizzava il racconto di Cechov per illuminare tanti fenomeni attuali. Però questo articolo non mi è piaciuto, e non credo che renda giustizia alla sua memoria. Lui che era addentro alla società letteraria, non poteva non sapere che il disprezzo dell’uno per l’altro (Citati per Eco) era precedente al successo narrativo di quest’ultimo. Tutt’oggi Eco potrebbe scrivere un saggio venduto in 4 copie ai parenti e Citati lo troverebbe parimenti insulso. Ma la cosa più grave di questo articolo è a mio avviso il parallelo finale: la letteratura come un campionato di calcio, vince chi vende di più. Certo, ammette che a volte si può vincere “per ragioni ignobili”, e tuttavia per lui vendere equivale a vincere, i gol sono le copie vendute. Se Eco contestò giustamente l’equazione consenso=disvalore, io penso che noi si debba contestare con la stessa forza l’equazione contraria, ciò che Trevi ha definito “la dittatura delle classifiche”; il fatto che i maggiori programmi televisivi (Fazio, Dandini, Bignardi) e le pagine culturali dei quotidiani più diffusi ospitino quasi esclusivamente gli autori che occupano i posti più alti delle classifiche, che siano Roberto Saviano o Fabio Volo.
Non mi pare che Placido abbia detto che vince chi vende di più. Si può vincere barando, certo, ma ipotizzare il fallo ogni volta che qualcuno vince può essere poco sportivo, se vogliamo continuare a ulizzare la metafora del calcio.
Io non credo nella dittatura delle vendite, ma se qualcosa mette in crisi il concetto di letteratura così come è stato elaborato da una certa critica invece di scagliarsi contro quel ‘qualcosa’ si potrebbe cominciare a guardare criticamente quel concetto di letteratura.
Tutte queste faticosissime discussioni mi ricordano la vicenda di Semmelweis, il medico che scoprì le cause della febbre puerperale. Erano gli stessi medici veicolo del contagio, ma guai a dirlo.
Numi del Cielo, Sascha, ma che ti ha fatto la Rete? E perchè vai a citare Rottentomatoes e – male – aNobii? Sull’ultimo sito in questione, peraltro, si trovano fior di recensioni.
Ad ogni modo, confermi quanto ho previsto: di qualunque cosa si parli, tu finisci a dire che il web, o tempora, o mores! ci trascina in basso.
Domani ti metto alla prova, e vediamo se riesci a fare un collegamento con Internet anche su un post che con il web non ha nulla a che vedere 🙂
Per chi dissente dalla scelta dell’articolo: ribadisco, è il mio modo di ricordare Beniamino. E questo è uno degli articoli che, all’epoca, ho amato molto. E non perchè si bersagliasse un singolo critico.
Beh, sa com’è: quando mi trovo in compagnia di miei coetanei che della Rete pensano tutto il male possibile perchè non c’hanno mai messo piede e credono a quel che ne dice Emilio Fede – piena di terroristi e pedofili! – allora la difendo, la Rete, con forza ed eloquenza…
Fra l’altro per una persona della mia età e traballante salute la Rete è un bendiddio – ma lo spirito critico non deve mancare e sulla Rete si critica la Rete o almeno le sue mitologie…
Ma si mettono in luce, com’è giusto, anche i lati positivi.
E poi, dove sta scritto che sulla rete si critica la rete? Si critica, o si approva, anche altro.
Come ha scritto, a proposito del Web, lo stesso Beniamino nel 2002:
“Stiamo per essere avviluppati in una gigantesca ragnatela di informazioni, di suggestioni e di intimidazioni. Come possiamo liberarcene? Come al solito, imparando a conoscerla, imparando a conoscerle”.
@valeria
“Non mi pare che Placido abbia detto che vince chi vende di più”
l’ha detto eccome. la metafora calcistica serviva proprio ad esplicitare quel concetto, difatti ha scritto: “quando gli altri vincono, quando scrivono un libro tradotto e letto in tutto il mondo ci possono essere tante ragioni”. ripeto, per me la letteratura non è un campionato, i punti che determinano il valore di un libro non sono dati dalle copie vendute e la lista dei testi che costituiscono la nostra eredità culturale (il famigerato canone) non si desume dalle classifiche.
@Sergio Garufi. Potremmo andare avanti all’infinito, ma questo è il mio ultimo commento.
Anche per me i testi che hanno un valore e che costituiscono e costituiranno (i verbi si coniugano anche al futuro) la nostra eredità culturale non si desumono dalle classifiche. Questo non significa, però, che alcuni libri che entrano in classifica siano privi di valore.
Ecco, non ci capiamo: io non censuro affatto i critici, vorrei semplicemente che avessero più spirito critico, perché certe loro affermazioni aprioristiche sanno di pregiudizio. Tutto qui.
Perdio, ma non ci si può fermare un momento prima? Appena un momento!
Dire “Sono d’accordo con Citati perché la sua posizione” e RIMANERE SULLA POSIZIONE, o “Sono in disaccordo con Citati perché la sua posizione” e RIMANERE SULLA POSIZIONE senza avere la pretesa di spiegare, di raccontare un retroscena che non si conosce, di confrontare le opere dell’autore con quelle di colui che critica?
Costa così tanto evitare di rendersi ridicoli aggiungendo “è tutta invidia”?
Tra le tante cose interessanti che si possono leggere in rete, c’è questo ricordo di Beniamino Placido. Che merita per l’oggetto, e per lo stile dell’autore.
Riassumendo:
il buon senso ci dice che se il successo di un libro non è indice di qualità non è nemmeno indice di mancanza di qualità (in fondo, per fare un esempio migliore, Shakespeare era il drammaturgo e poeta più popolare del suo tempo, proprio da un punto di vista commerciale).
Quello che disturba è l’intrusione dell’invidia – per quanto possa indubbiamente esistere – che è solo un modo per svalutare l”avversario’ e parare dalle critiche chi ha successo.
Mi unisco al coro dei felici lettori di Placido. Ricordo vagamente ma con affetto un suo pezzo molto divertente in cui, a proposito dell’opportunità di usare un linguaggio appropriato, immaginava un convegno internazionale sul tema in cui intervenivano vari grandi, vivi e morti, umani e di celluloide, tipo l’incazzoso Moretti di Palombella rossa urlando “Le parole sono importanti”, poi forse Calvino (qualcosa da Lezioni americane?, boh) e vari altri mostri sacri che non ricordo. Mi piacerebbe ritrovarlo, l’ho cercato invano sull’archivio di Repubblica
Ci sono i Beniamino Placido, ci sono i Fruttero e i Lucentini, gli Oreste del Buono, poi ci sono gli incasellatori, i marmorizzatori, i polimerizzatori cianoacrilici o epossidici che spandono su ogni fenomeno in fieri la loro letale mucillagine che cristallizza in forme morte ogni vita peggio che la bava di Alien ecc.
“poi ci sono gli incasellatori, i marmorizzatori, i polimerizzatori cianoacrilici o epossidici che spandono su ogni fenomeno in fieri la loro letale mucillagine che cristallizza in forme morte ogni vita peggio che la bava di Alien ecc.”
Qualche nome, giusto per chiarezza?
Il Citato per esempio nè è un esempio eccellente. Tocca qualcosa e la pietrifica.
Saluti.
riuscirebbe pure a togliere il per esempio di troppo.
Per ‘Citato’ immagino lei voglia dire Pietro Citati, vero?
Stavo pensando a quale noto personaggio pubblico italiano ha l’abitudine di storpiare i nomi di quanti non gli sono simpatici…
Fuor dallo scherzo, Citati è splendido quando si tratta di riportare alla vita qualcosa di morto nella coscienza del nostro tempo, quando parla di
antichità classica, di Islam, di Cina, di Incas ed Aztechi. Mi piacciono molto anche i suoi interventi sull’Italia d’oggi, sulla vita quotidiana.
E’ vero che certe sue ricostruzioni letterarie mi lasciano perplesso e lo considero del tutto inservibile per quanto riguarda la letteratura odierna, Eco compreso.
Quel che c’è di buono in Citati è più che sufficiente per trattarlo con rispetto senza dovergli dare per forza sempre ragione.
Il Citati delle rievocazioni piacque pure a me.
Il dubbio però mi viene confrontandolo con il suo approccio all’odierno o all’altroieri.
Forse mi piacque perchè negli interventi sul passato non ho elementi autonomi a paragone – o tutti abbiamo gli Incas sulla punta delle dita per non dire del tristrisavolo azteco che c’è in ogni famiglia italiana; e quindi probabilmente mi piace per le ragioni sbagliate, perchè sull’Italia d’oggi sia letteraria che no, le sue mi sembrano ricostruzioni viziate.
Che poi disponga per lunge fatiche di una cultura da vero erudito, nelle ricostruzioni sue casomai è un’aggravante.
Naturalmente viziato potrei esserlo io, ma è un rischio che devo correre.
Per quanto riguarda il rispetto, certo, mi piacerebbe l’avesse avuto pure lui quando si è scagliato su fenomeni che suscitavano la sua ira in quanto ovviamente beceri, sdati, fuorvianti o comunque non conformi alle sue incasellature sopraffine.
Allora non andò molto per il sottile.
In fondo “Citato” sopra lo era, dall’acidità mostrata troppo spesso avrei potuto chiamarlo Citrati.
Saluti.
In realtà l’acidità di Citati e’ un caso del tutto eccezionale. Recensisce libri da decenni e le sue stroncature, così come le sue idiosincrasie per qualche autore, si contano sulle dita di una mano. Lui stesso affermò che su un libro che non gli è piaciuto preferisce tacere, considerando il silenzio il peggior castigo. Ad ogni modo Citati è così, tranne rari casi (la Capriolo, Montefoschi, Trevi) non legge i contemporanei. Quello che stupisce in questo articolo di Placido è il ricorso al tema dell’invidia, che di solito è un passepartout buono per liquidare qualsiasi argomento, e che nel caso specifico è un falso storico, datando la loro incompatibilità da ben prima del successo de “il nome della rosa”. In precedenza ho scritto che era strano, per un addetto ai lavori come Placido, non saperlo, ma in realtà chiunque ne mastichi un po’ dovrebbe intuire che fra i due non poteva correre buon sangue. Per uno come Citati Eco era un “pagliaccio” già dai tempi del “Diario minimo”. Non può piacergli chi sostiene che i suoi punti di riferimento sono Omero e Topolino, o chi analizza Mike Bongiorno e recensisce una banconota da 50.000 lire. Per lui quello è l’Arbore della letteratura. Io non la penso così, ma “Il nome della rosa” e il suo successo non c’entrano niente, sono arrivati dopo e tutt’al più confermano quei pregiudizi sulla vocazione ludica e popolare di Eco. Cmq, a prescindere da questa querelle, per me resta grave la metafora calcistica, l’affermazione secondo cui in letteratura “vince” chi vende di più, è questo il vero nocciolo della vexata quaestio sul “monnezzone”. Il monnezzone è la moda che s’impone come valore forte del numero, e dietro la quale si accodano i cantori del nuovo a tutti i costi, l’altra faccia della medaglia barbogia di Citati. Certo che non esistono fenomeni che non meritano la nostra attenzione. Per me trovare l’assoluto nell’insignificante è quasi un dovere dell’artista, difatti considero la scena del sacchetto di plastica svolazzante in “American beauty” un manifesto poetico. Alla stessa stregua mi piacerebbe che l’attenzione della critica sui giornali si posasse più spesso su anonimi sacchetti di plastica, anziché su quelli griffati.
IL ponte di FERRO (che non era di ferro) era la coscienza di Beniamino, aveva paura di attraversarlo (non solo Beniamino) se non accompagnato da una “banda” di narmocchi come lui. Correva l’anno 1930 ed era il periodo che Rionero in Vulture viveva il suo ennesimo terremoto.
Laconide