NUMERI, FIGLI, CURA

Vale sempre la pena dare un’occhiata al sito dell’Istat, specie dopo aver letto le notizie di oggi, con il sorpasso, registrato a Novi di Modena, dei figli di immigrati sui bambini italiani.
Ora, l’Istat mette a disposizione alcuni dati, resi noti una decina di giorni fa nel corso del workshop “Dinamiche dei corsi di vita tra contesto e legami forti”, realizzato da esperti dell’Istat medesimo e del mondo accademico.
Per esempio, nella sua relazione, la direttrice centrale Istat Linda Laura Sabbadini ci dice, in ordine sparso, che:
– Il tasso di fecondità totale risale a 1,40 nel 2009, come nel 1990. Nel 2001 era sceso a 1,25.
– Aumenta l’età media alla nascita del primo figlio (da 26,9 a 30,0)
– La quota di nascite naturali triplica: dal 6,5% al 20,4% nel 2009
– La quota di nati con almeno un genitore straniero cresce dall’1,7% al 18,0%.
In assoluto, però, diminuiscono le coppie con figli a 9milioni 300mila (38,1% delle famiglie). E’ una mutazione vera e propria:
“Dal 1990 al 2009, per effetto del prolungamento della permanenza dei giovani nella famiglia di origine, tra i 25 ai 44 anni aumenta il ruolo di figlio laddove dovrebbe aumentare il ruolo di genitore. In particolare nella classe di età 35-44 anni il ruolo di figlio passa dal 4,6% al 10,8%. E’ interessante notare che negli ultimissimi anni la quota di figli ha iniziato a diminuire nella classe di età tra 15 e 34 anni, ma non perché aumenta il ruolo di genitore ma di single”.
In questa cornice:
I tassi di occupazione femminili diminuiscono fortemente all’aumentare del numero di figli. Da 0 a 1 figlio cala di 5 punti, da 0 a 2 figli di 10 punti, da 0 a 3 figli di 25 punti.
In altri termini:
“Le interruzioni del lavoro per motivi familiari sono elevate il 30% delle madri con meno di 65 anni che lavorano o hanno lavorato in passato ha interrotto l’attività lavorativa per motivi familiari (matrimonio, gravidanza o altri motivi familiari), contro il 2,9% degli uomini.
L’8 per cento delle donne che hanno lavorato o lavorano è stata costretta a dimettersi per gravidanza, il dato è più elevato nelle generazioni più giovani”.
Inoltre:
“La rete di servizi sociali per l’infanzia è ancora scarsa. IL CONTRIBUTO MASCHILE AL LAVORO DI CURA NON CRESCE ADEGUATAMENTE (maiuscole originali, ndL): il 76% del lavoro di cura della coppia è a carico delle donne, la situazione migliora più per il taglio operato dalle donne che per l’aumento del contributo maschile.
Le donne,principali care giver, dedicano più di 2 miliardi di ore di lavoro di cura per altre famiglie in un anno.Ma la rete informale è entrata in crisi. Le reti di parentela sono sempre più strette e lunghe.Le donne hanno meno persone con cui condividere gli aiuti e meno tempo da dedicarvi”.
Infine:
“In un momento di gravi tagli al welfare locale il rischio che segmenti di popolazione anziana non autosufficiente non ricevano più assistenza è elevato”.
Questi i numeri, questa la cornice. Primo commento, a caldo: l’immaginario che ci viene proposto non corrisponde alla mutazione in corso se non parzialmente. Secondo commento, a freddo: la genderizzazione, come si vede, è ancora fortissima. A dispetto di tutto.

34 pensieri su “NUMERI, FIGLI, CURA

  1. Grazie di questo post. Quello che mi colpisce (e mi rattrista) sempre è la schizofrenia in cui questo quadro complessivo viene ‘sezionato’ dalle diverse proposte politiche. Il “sorpasso” di natalità viene spesso presentato come una colpa degli immigrati invasori e indirettamente delle donne italiane che lo permettono, perché sono “troppo emancipate e non hanno più voglia di fare le madri”.

  2. Mi piacerebbe sapere quanti sono i bambini italiani che nascono all’estero (visto che per la cittadinanza italiana vale lo ius sanguinis).
    Ci pensavo sabato quando, al corso di italiano per bimbi, ho visto che noi papà italiani eravamo in minoranza e la maggioranza dei bimbi aveva la mamma italiana che aveva lasciato l’Italia proprio per i limiti derivanti dalla genderizzazione.

  3. trovo questi terribilmente coerenti con discorsi che abbiamo fatto i giorni scorsi. Aumentano i figli aumentano gli immigrati aumentano le coppie miste ma, la parte tutta bianca da una parte si sente minacciata, dall’altra ha maggiori difficoltà a emanciparsi da casa e tutti questi sentimenti precipitano nell’idealizzazione della prole, la quale a sua volta farà ancora più difficoltà a svincolarsi etc etc etc.
    Ma l’immigrazione per noi può fare tanto, veramente tanto.

  4. Aggiungo una breve riflessione all’interessante commento di Zauberei. Alla “parte tutta bianca da una parte si sente minacciata, dall’altra ha maggiori difficoltà a emanciparsi da casa” si aggiunge anche una parte di famiglie italiane in cui la donna NON VUOLE emanciparsi da casa – o almeno che professa di non volerlo. E questo va a braccetto con la genderizzazione.
    Leggendo blog di/su neomamme e incentrati sui rapporti famigliari, mi imbatto sempre piu’ frequentemente nell’equazione “difesa della famiglia” = “rigida separazione fra generi” = “scoraggiamento di ogni aiuto da parte dello stato sociale” (asili, congedi parentali per i padri etc), che viene visto come un modo indebito per delegare le responsabilita’ parentali, o meglio materne.
    E per me assai difficile quantificare in cifre la diffusione di questo tipo di pensiero (qualcuno del commentarium puo’ aiutarmi consigliandomi pubblicazioni specialistiche in merito, forse?), ma ammetto che un po’ mi spaventa. Mi spaventa pensare che questo tipo di pensiero faccia parte dell’immaginario italiano e che possa contribuire all’arretramento del Paese almeno quanto l’ignoranza e l’assenza di interesse per il sociale e la conciliazione famiglia/lavoro che sembra contraddistinguere la nostra classe politica. Mi spaventa il fatto che questo atteggiamento non e’ volto a consentire di portare avanti una propria legittima scelta ma a impedire, di fatto, ad altri di scegliere.
    Non so se la signora Lipperini ne parlera’, in futuro, ma mi piacerebbe sentire la sua opinione in merito.

  5. Barbara, è un fatto che sconcerta anche me, cioè, mi fa un po’ rabbia… io credo che per molte donne sia un problema di mancanza di consapevolezza e riflessione sull’attuale impossibilità di ‘crescita’ e diversificazione dei modelli culturali, sulle conseguenze anche pratiche della emancipazione, sulla diffidenza verso quei sistemi dove questo problema è stato (quasi) risolto.
    Nella frase ‘IL CONTRIBUTO MASCHILE AL LAVORO DI CURA NON CRESCE ADEGUATAMENTE (maiuscole originali, ndL): il 76% del lavoro di cura della coppia è a carico delle donne, la situazione migliora più per il taglio operato dalle donne che per l’aumento del contributo maschile’ , il dato è ancora assai allarmante. Significa anche che solo il 24% degli uomini è coinvolto nel lavoro di cura. E significa a parere mio che con la crisi dovremo vedere quanto si contrarrà questo dato…

  6. Mi aggancio a Barbara per confermare che, sì, molte donne sostengono di scegliere liberamente il ruolo di “angeli del focolare”. La “libertà di scelta”, non soltanto in questo campo (pensate a come viene usato per foraggiare la scuola e la sanità private a scapito di quelle pubbliche), è spesso uno specchietto per le allodole che nasconde ben altre mancanze.
    Le percentuali sull’abbandono del lavoro da parte della madre e sul lavoro di cura a carico della donna a mio avviso sono spaventose. Significano che, se non invertiamo la rotta con uno scatto di consapevolezza e di pretesa, nel lungo periodo la situazione non potrà che peggiorare. Non vedete lo schiacciamento? Ci sono già intere generazioni di donne su cui grava il doppio onere della cura dei figli piccoli e del mantenimento dei genitori anziani, sempre più non autosufficienti. Intere generazioni di talenti sprecati, rispediti all’interno, soffocati. Siamo sicuri che i nostri figli ci saranno grati per questa dedizione esclusiva? A loro fa bene? Non sarà che la genderizzazione si tramanda prima di tutto con l’esempio?

  7. Anziché “spaventarsi” per le scelte altrui fino a bollarle come “specchietti per le allodole”, non sarebbe più semplice considerare il fatto che non siamo tutti uguali, esistono preferenze differenti? Almeno come ipotesi di partenza, tanto per semplificare.
    Tanto più che, almeno tra uomo e donna, la cosa sembra autorevolmente confortata; parliamo di “preferenze profonde”, e non è certo un affare italico. Quando poi certi esiti persistono nel tempo e nello spazio – appena attenuati laddove si “droga l’ ambiente”- parlare di “specchietti per le allodole” è decisamente azzardato.
    La storia ha conosciuto tante orribili discriminazioni, ma una volta abbattute le barriere e conferiti i diritti, l’ invasione dei “discriminati” negli ex territori proibiti è stato costante (vedi i neri nello sport o gli ebrei in qualsiasi ambito del vivere civile). C’ era voglia di farlo e nessun “immaginario” ha retto a lungo alla libertà e alla convenienza di farlo. Questo è valso anche per le donne in molti ambiti. Ma non in tutti in maniera completa! Perché nelle discipline umanistiche si è arrivati senza traumi alla parità? Anche le veterinarie, tanto per dire, sopravanzano i veterinari. Ma altrove le differenze persistono da decenni. (qui una discussione chiarificatrice).
    Forse le preferenze profonde contano, e le preferenze di uomo e donna non sono le stesse. Una volta ammesso questo semplice fatto parecchie cose si spiegano senza contorsionismi, a cominciare dai gap salariali.
    Il bello è che in molti casi nemmeno è rilevante l’ entità del gap, basta che esista, anche impercettibile. Per puntare tutto su una soluzione basta che sia leggermente migliore della sua alternativa. Fare così è razionale.
    E condannare dei comportamenti razionali (ovvero stereotipi accurati) è dura.

  8. Broncobilly, rispondo per me. Pur non avendo usato il termine “specchietti per le allodole”, in parte, lo condivido per le ragioni che vado a illustrare.
    Punto primo, non mi turba minimamente il fatto che alcune donne abbandonino il lavoro dopo la maternita’ se lo fanno perche’ ne sono contente, mi preoccupa il fatto che si arrivi a una situazione in cui non c’e’ scelta per gli altri e le altre, quelli a cui piacerebbe bilanciare lavoro e vita privata. La cosa che mi crea problemi non e’ quella di considerarsi “angeli del focolare” ma quella di applicare la regola a TUTTE le persone di sesso femminile: come spiegavo, mi e’ capitato di incontrare sovente un atteggiamento non solo indifferente ma persino ostile verso gli asili pubblici e gratuiri e verso l’obbligatorieta’ del congedo parentale per i padri. Io personalmente non credo che avro’ figli, ma sono ben contenta che le mie tasse vadano investite in un welfare che aiuta le famiglie e i genitori che lavorano. Poi e’ chiaro che non mi sognerei mai di dire alle madri di lavorare se non vogliono, ma e’ un dato di fatto che l’occupazione femminile ha un peso sul PIL (e favorisce tutti) e che il ritorno al lavoro delle madri e’ soggetto a politiche che possano incentivarlo/scoraggiarlo. Mi sbagliero’ ma, in Italia, mi sembra che le donne che vorrebbero lavorare abbiano ben poco sostegno da parte dello stato, dopo il primo figlio, e che la cultura dominante dia molto per scontato che, se una ha la malaugurata idea di sposarsi e procreare, beh, e’ meglio che lo faccia con un uomo ricco perche’ poi saranno tutti cavoli suoi. Questo lo trovo profondamente ingiusto.
    Secondo punto: per quanto mi riguarda, niente da dire sul fatto che ci siano differenze di genere (anche se ritengo che le differenze fra individuo e individuo siano piu’ importanti).
    In terzo luogo, sulle differenze salariali, il discorso e’ assai piu’ complesso: il video che hai postato fa riferimento ad uno studio condotto negli USA e laggiu’ la situazione e’ abbastanza differente dall’Italia. Ti rimando ad uno studio di almalaurea (http://www.almalaurea.it/info/almanews/salastampa/comunicati/2011/comunicato_rapportolaureatilavoro_2011.pdf) in cui i dati sono scorporati per eta’, genere e professione. A parita’ di incarico, ore lavorate, eta’ e qualifiche le donne guadagnano attorno al 20% in meno – quindi i vari fattori “part-time post parto”, “lauree umanistiche” etc citati dal professor Horwitz non si applicano.
    Per concludere, ribadisco, non mi spaventa la scelta di smettere di lavorare in se’ (se coloro che la compiono sono felici e possono permetterselo, tanto meglio per loro), mi turbano invece gli atteggiamenti volti a impedire, di fatto, ad altri di scegliere diversamente (niente soldi al welfare, retorica della “liberta’ di scelta” e del “le altre donne snaturate e carrieriste si arrangino”).

  9. Barbara, lasciami solo precisare un concetto: tra panna e cioccolato preferisco la panna, ma se mi pagano per scegliere il cioccolato, oltre una certa offerta mi lascio “convincere”. Cio’ non toglie che preferisca la panna. La mia preferenza originaria è quella e a quella mi riferivo ventilando, al di là di tutto, una possibile differenza, anche impercettibile, nelle preferenze tra uomini e donne.
    Se una coppia dopo un certo numero di figli opta perché sia la donna a lasciare il lavoro o a ridurre gli impegni, c’ è da prendere in considerazione l’ ipotesi che quella sia di fatto la preferenza della coppia e che quindi sia un comportamento razionale. Se poi noi alteriamo le condizioni finanziando quella famiglia affinché nessuno “lasci” (asili statali gratuiti, penalizzazioni per il lavoro maschile ecc.), possiamo anche farlo se troviamo i finanziatori, ma mutiamo – oltre al benessere della famiglia, che, ricevendo risorse, aumenta – le scelte dettate dalle preferenze originarie.
    [a proposito, se tu intendi destinare parte delle tue risorse per orientare la scelta di quella famiglia, puoi farlo già ora; ma se vuoi che lo facciano anche gli altri attraverso la tassazione, bisogna avere ragioni di bene pubblico in grado di giustificare l’ alterazione delle scelte]
    Chiudo. In effetti la ricerca dell’ Alma “parifica” i soggetti (in questi casi, con un campione più ampio, a me risulta un gap quasi nullo, del 2%) ma non tiene comunque conto di tutti i fattori citati da H. Per esempio trascura l’ attitudine a “dedicarsi alla famiglia”. E’ razionale, e non discriminatorio, investire meno su chi probabilmente domani si dedicherà meno all’ azienda. E qui siamo daccapo, dobbiamo chiederci se la propensione delle donne a dedicarsi alla famiglia è realmente maggiore (consci che l’ entità del gap è irrilevante!). Potrebbe essere quello del datore uno stereotipo che si autorealizza, ma un errore del genere non si trascina su un libero mercato per mezzo secolo. Al di là dell’ immaginario, ci sono molti esempi di discriminazioni irrazionali rientrate velocemente una volta abbattute le barriere, e questo per il semplice fatto che chi le fa rientrare, oltre a tenere un comportamento etico, fa un affare.

  10. ma il problema è che una madre lavoratrice specie se precaria, non può permettersi di scegliere se continuare il lavoro o no dato che se resta incinta la cacciano.
    io difendo il welfare perchè penso che tuteli davvero tutte le scelte e tutte le preferenze, tutti gli stili di vita..senza welfare, senza un lavoro che tutela la genitorialità, la libertà di scelta se la possono permettere in pochi e in poche.
    Segnalo questo post del blog di Marina Terragni
    http://blog.leiweb.it/marinaterragni/2011/09/25/lingiustizia-piu-feroce/

  11. Ci sono effettivamente i casi di abbandono dal lavoro dovuti alla folgorazione della maternità, per cui diciamo cogli la palla al balzo per dire addio a un rapporto di lavoro frustrante, ripromettendoti di cercare qualcos’altro quando il figlio avrà scollinato i 3 anni (una mia amica ha fatto questa scelta e devo dire che per un paio di mesetti di ubriacatura da maternità, anche io ci ho pensato). Ma a mio avviso sono molti di più i casi di abbandono coatto dove, ad esempio, alla donna viene posto un aut-aut se con la maternità nei primi mesi del bimbo chiede una riduzione d’orario giornaliera, anche minima, dovuta alle difficoltà logistiche di gestire un bimbo piccolo (parlo di un’ora in meno su 8, due ore su 10). Quattro mie conoscenti hanno perso il lavoro così: si tratta di laureate che hanno lavorato per 10 anni, o più, per lo stesso datore di lavoro, e avrebbero volentieri continuato. Perciò secondo me parlare di scelte ha senso fino ad un certo punto. Purtroppo è solo quando sbatti il naso di fronte a determinate eventualità che ti rendi conto della “politica” del tuo datore di lavoro, al di là dei proclami teorici su quanto è bella la famiglia.

  12. Alle considerazioni di Paolo e CloseTheDoor, mi sembra giusto aggiungerne altre – sempre per rispondere a Broncobilly, che mi pare abbia sollevato alcuni punti importanti.
    1) Broncobilly dice “tra panna e cioccolato preferisco la panna, ma se mi pagano per scegliere il cioccolato, oltre una certa offerta mi lascio “convincere”. Cio’ non toglie che preferisca la panna. La mia preferenza originaria è quella e a quella mi riferivo ventilando, al di là di tutto, una possibile differenza, anche impercettibile, nelle preferenze tra uomini e donne”. Il senso (se ho capito bene) e’ che le donne preferirebbero di loro stare a casa coi bambini ma che poi, soggette a incentivi, possono lasciarsi convincere a lavorare. Nell’esperienza delle persone che ho accanto in realta’, si verifica piu che altro il contrario: se una donna guadagna 800-1200 euro al mese e la retta dell’asilo privato del primo figlio (in assenza di posti pubblici…) si aggira sulle 300-500 euro al mese, significa che circa la meta’ del suo stipendio se ne andrebbe mettendo un figlio in asilo. Dal secondo bambino in poi, lavorare full time non le conviene praticamente piu’, andrebbe in perdita. Questo, ovviamente, aggiunto ai possibili “costi” gestionali del bambino in termini di discriminazioni/pregiudizi in ufficio: il “pregiudizio” spesso vero e’ che sara’ sempre e solo la mamma a tardare per accompagnare il bimbo a scuola, a stare a casa quando si ammala etc. Ma perche’ questo “pregiudizio” non e’ altrettanto vero in Svezia o in Norvegia, ad esempio? Abbiamo esempi che le nordeuropee sono donne “infelici” perche non seguono la loro “natura”? E’ allora cosi’ “naturale” che il caregiver sia quasi solo la donna? E, soprattutto, che prove abbiamo che davvero una schiacciante maggioranza delle donne italiane sia piu’ felice non lavorando?
    2) Bracobilly afferma “Se poi noi alteriamo le condizioni finanziando quella famiglia affinché nessuno “lasci” (asili statali gratuiti, penalizzazioni per il lavoro maschile ecc.) […] mutiamo – oltre al benessere della famiglia, che, ricevendo risorse, aumenta – le scelte dettate dalle preferenze originarie.”. Trovo abbastanza inappropriato parlare di ” penalizzazioni per il lavoro maschile” – non mi sembrava di aver parlato di nulla di simile, ma solo di congedo parentale maschile: l’idea non era di penalizzare gli uomini ma di offrire alle famiglie (e dunque anche a loro) piu’ scelta. A meno che non si consideri il congedo parentale “uno svantaggio”, ma per quali ragioni? (la mia e’ una domanda genuina e fuori polemica, gradirei davvero una risposta).
    3) “a proposito, se tu intendi destinare parte delle tue risorse per orientare la scelta di quella famiglia, puoi farlo già ora; ma se vuoi che lo facciano anche gli altri attraverso la tassazione, bisogna avere ragioni di bene pubblico in grado di giustificare l’ alterazione delle scelte”. Le ragioni di bene pubblico ci sono eccome: se il lavoro femminile aumentasse, avrebbe un impatto molto positivo sul Prodotto Interno Lordo e l’economia del nostro paese – come spiega bene il World Economic Forum, quando le donne lavorano la societa’ intera si arricchisce. Di fatto, incentivare le donne alla disoccupazione e’ piu’ costoso per l’Italia che fornire alle famiglie i mezzi per bilanciare lavoro e vita privata – ma, e questo era il mio punto iniziale, ne vale la pena? Quali sarebbero le valide ragioni per cui preferiamo che le donne italiane non siano troppo incentivate a lavorare e quanti pensano realmente che il paese possa beneficiare da questa situazione? Di nuovo, se qualcuno nel commentarium avesse del materiale da consigliarmi in merito, sarei davvero grata.
    Per quanto mi riguarda, alle ragioni di bene pubblico oggettive aggiungo anche quelle personali: ovvero che la maggior parte delle famiglie che conosco tenta di conciliare casa e lavoro, piuttosto che rinunciare ad uno stipendio, e trovo etico che lo stato le aiuti (esattamente per le stesse ragioni per le quali, trovo giusto che l’Italia abbia una sanita’ pubblica).
    A me personalmente, il modo in cui lo stato italiano spende i soldi pubblici pare davvero improponibile e, dunque, ho bakunianamente deciso di lavorare e pagare le tasse ad uno stato piu’ gentile verso le madri e i padri che lavorano. Ma e’ una soluzione un po’ estrema e non la consiglio a tutti 🙂

  13. Barbara, cerco di replicare (precisare) velocemente ai tuoi tre punti:
    1. Non capisco bene in cosa il tuo esempio contrasti con quanto dicevo. Se a una coppia con figli non conviene che entrambi i genitori lavorino, uno dei due starà in casa. E’ ovvio. Ma chi starà a casa? A parità di stipendio conteranno le preferenze: “preferenza a lavorare” e “preferenza a stare a casa”. E’ in questo senso che anche una differenza impercettibile nelle “gender preference” originarie puo’ essere decisiva. E la cosa vale anche per la Svezia… altrimenti che senso avrebbe tutta la congerie di leggi tese a spostare i costi della donna-madre su altri soggetti?
    2. Il congedo parentale obbligatorio contiene per definizione un lato penalizzante per qualcuno (altrimenti non avrebbe senso renderlo obbligatorio!).
    3. Il benessere di un popolo è uno stato soggettivo che dipende dalle preferenze di quel popolo. Il PIL fa quello che puo’ per misurarlo ma resta un indice imperfetto, questo è pacifico. Particolarmente imperfetto per le questioni di cui trattiamo. Mi spiego meglio: che sia la mamma a farti la pastasciutta o che tu la mangi al ristorante, il tuo benessere non cambia, ma il PIL sì! Come puoi evincere da questa tara del PIL, solo la libera scelta garantisce la massimizzazione del benessere sociale, la misurazione tramite PIL, al contrario, lascia in ombra molti settori come quello del lavoro gratuito. Certo, la “libera scelta” presenta inconvenienti quando di mezzo ci sono beni con le caratteristiche di bene pubblico, ma non è il nostro caso. Anche qui, quindi, per giustificare un intervento pubblico devi assumere che le “preferenze” espresse liberamente dalla coppia siano falsate e si ritorna così da capo al discorso sulle “gender preference”. E’ veramente falso che le donne, rispetto agli uomini, abbiano mediamente una preferenza più spiccata (anche se di poco) verso i bimbi?

  14. Broncobilly,
    1. Penso che il punto che per te e’ chiaro e per me assai meno e’, appunto, la preferenza naturale a scegliere la cura invece che il lavoro fuori casa, detto in modo molto semplificato. Secondo me non si tratta di una scelta cosi’ scontata per le donne.
    “altrimenti che senso avrebbe tutta la congerie di leggi tese a spostare i costi della donna-madre su altri soggetti?” – ecco, personalmente credo che il cuore della differenza fra Italia e Svezia sia proprio questo: da noi si considerano i “costi della donna-madre” mentre in Svezia sono i “costi dei figli”. Definirli costi della “donna-madre”, secondo me, gia’ da per scontato che la gestione del bambino sia quasi esclusivamente un compito materno e non della coppia, come se il padre figli proprio non ne volesse ne’ ritenga opportuno occuparsene (o la societa’ non necessitasse di una nuova generazione). E qui torniamo dall’economia all’immaginario…
    2. Anche il congedo di maternita’ e’ obbligatorio, ma prova a eliminarlo definendolo “penalizzante” e vedrai che successo riscontrerai 🙂 Al momento gli uomini godono del vantaggio/svantaggio di un congedo parentale opzionale – di conseguenza quelli che non lo prendono sono lavorativamente “avvantaggiati” rispetto alle donne, ma quelli che ne usufruiscono sono doppiamente ostracizzati al lavoro (perche’ lo prendono ma non “dovrebbero”). Per capire se il congedo parentale obbligatorio sarebbe uno svantaggio o un vantaggio per i padri italiani, bisognerebbe capire quanti di loro desidererebbero, se potessero, alternarsi alle mamme come caregiver e quanti invece sono ben felici di NON partecipare alla cura dei neonati – e, di nuovo, secondo me la risposta a questa domanda NON e’ scontata
    3. Sono d’accordissimo che il PIL non rappresenti l’unico criterio di misurazione del benessere ma, di nuovo, non darei per scontato che in un paese in cui si massimizza il lavoro gratuto delle donne si viva meglio, ne’ che le donne che preferiscano stare a casa siano una maggioranza cosi’ schiacciante nel nostro paese rispetto alle altre (sebbene, probabilmente, ci siano piu’ donne spontaneamente disposte a stare a casa che uomini). Il libro di Rohads sulle differenze di genere non l’ho letto ma il blurb non mi convince moltissimo, dovrei forse leggerlo per decidere se sia banale o meno. In ogni caso, anche se le donne avessere una maggiore predisposizione per i compiti di cura, siamo proprio sicuri al 100% che i padri vogliano essere esclusi del tutto dal compito di crescere i loro bambini? E ai bambini questo fa bene?

  15. Cerco di reagire alle tue obiezioni:
    1. Cambia pure l’ espressione costi-donna-madre, li avevo chiamati così ipotizzando un caso di part-time della madre, tanto per capirci; generalizzando puoi chiamarli anche costi-figli, la sostanza in fondo non cambia.
    2. Se pensi a persone ragionevoli e prendi sul serio le preferenze, tutto cio’ che è obbligatorio è penalizzante per qualcuno; altrimenti, perché rendere obbligatoria una scelta che conviene? Penalizzante per qualcuno, e conveniente per altri. Anche il congedo di maternità è penalizzante. Per il datore di lavoro, in alcuni casi. Ma anche per le donne che non intendono avere figli e firmerebbero senza problemi contratti alternativi con stipendi più elevati.
    3. Nessuno sostiene che “massimizzando il lavoro gratuito delle donne” si viva meglio, per carità. Al limite che la “libera scelta” compiuta a parità di diritti, offra qualche garanzia sul benessere collettivo. Ho poi parlato di “effetti macro” dovuti a “impercettibili differenze” nei gusti, il concetto è importante.
    p.s.1 “preferenza” non implica “piacere”, sono concetti ben diversi che mi sembra qualcuno confonda. Si puo’ anche preferire il male minore. E poi teniamo presente che il costo di una scelta è pari a cio’ a cui si rinuncia (The Cost of Something is What You Give Up to Get It)
    p.s.2 non credo molto alle ricerche sulla “felicità” ma bisognerebbe anche spiegarsi come le ricerche più rigorose segnalino una diminuzione drastica della felicità femminile negli ultimi 30 anni, sia in termini assoluti (rispetto a prima), sia in termini relativi (rispetto agli uomini).

  16. 1. Mm, per me cambia eccome se sotto la definizione cambia anche la percezione di responsabilita’ (“Le parole sono importanti”). Ma, di nuovo, si possono avere opinioni diverse dull’impatto dell’immaginario
    2. Ci sono donne costrette a firmare lettere di dimissioni senza data in caso restino incinte, quando sono assunte. Non mi sembra sprizzino di gioia, neanche quelle che non progettano figli. Ne’ e’ nemmeno simpatico sentirsi chiedere ai colloqui se si ha intenzione di riprodursi o meno, come gia’ capita (una mia cara amica, anche lei non intenzionata a procreare, una volta menti’ per frustrazione paventando addirittura parti gemellari diffusi in famiglia, ma questa e’ un’altra storia, lei un lavoro cmq lo aveva). Quindi, no francamente, non vedo tutta questa schiera di donne single che pensano che il congedo di maternita’ sia un intralcio. Forse perche’ nelle scelte non conta solo l’impatto sulla vita del singolo, ma anche quello sociale percepito. Ad esempio, pur non volendo figli, sono ben contenta che la gente attorno a me si riproduca, se non altro avro’ qualcuno che mi paghera’ la pensione da vecchia! Secondo me, il tuo concetto di scelta e’ un po’ ipersemplificato – una scelta razionale richiede talvolta informazioni complesse. E acquisire informazioni complesse comporta un COSTO.
    3. Sulla libera scelta che garantisce il benessere siamo d’accordissimo. E’ la parita’ dei diritti in Italia che mi rende perplessa.
    PS1 la tua definizione di preferenza come “anche preferenza del male minore” secondo me cozza molto col discorso della panna e del cioccolato. Posso scegliere il male minore del cioccolato, ma il “piacere” ovvero la preferenza e’ la panna. O no? (parlo delle TUE definizioni, eh, non ti quelle economiche in generale). Sul costo = rinuncia al guadagno potenziale, invece, ci siamo – come mai sentivi il bisogno di chiarificare anche questo, pero’?
    PS2 Il paper che linki fa riferimento agli ultimi 30 anni in USA. Anche dando per scontato che il metro di misurazione della felicita’ utilizzato funzioni (mm…), cosa mi dice che questa analisi valga anche per l’Italia? O per la Svezia?

  17. @Barbara
    1. Il fatto è che io, come ti dicevo, non ho nessunissimo problema a “cambiare espressione”. Se la cosa non è sufficiente allora non ho capito cosa devo fare. Dimmelo tu e lo farò.
    2. Anch’ io non vedo “schiere di donne che considerano il congedo di maternità un intralcio”. Ma forse è proprio perché le donne per lo più vogliono avere dei figli, e vogliono anche stare vicino a loro nella fase iniziale, proprio come prevede il congedo obbligatorio. E se anche non lo vogliono “ora” lo sperano in un vago futuro. Ma qui si ritorna da capo alle “preferenze di genere”. Volendo tornare invece alla logica, una donna ipotetica che decida di rinunciare ai figli firma volentieri una clausola che “senza costi significativi” le garantisce un congruo aumento di stipendio e maggiori prospettive di carriera. Comunque, quanto detto è “un di più” rispetto alla verità persino banale che affermavo, e cioè che “cio’ che viene imposto con la forza danneggia qualcuno (soggetto coartato) a vantaggio di qualcun altro (soggetto privilegiato)”, altrimenti non avrebbe senso imporlo! Perché costringere la gente a fare qualcosa che farebbe spontaneamente? Non è forse un’ assurdità?
    ps 1 A “Panna o Cioccolato” puoi sostituire “tosse o raffreddore”, nulla cambia. Io mi sono limitato a un esempio.
    ps 2. Dici che qui le cose sono molto diverse? le dinamiche sociali sono simili e storicamente quei semplicioni di americani sono sempre stati più “felici” di noi. E poi, a veder bene, c’ è anche una sezione dedicata all’ Europa, il trend dell’ infelicità relativa sembra confermato anche qui: we find … a decline in European women’s happiness relative to that of European men… We analyze trends separately for 12 European countries (Belgium, Denmark, France, Great Britain, Greece, Ireland, Italy, Luxembourg, Netherlands, Portugal, Spain, and West Germany), finding relative declines in women’s happiness that are similar in magnitude in every country except West Germany…

  18. 1. Costo del figlio, allora. Ma continuo a pensare che le due espressioni non siano sinonimi
    2. “Volendo tornare invece alla logica, una donna ipotetica che decida di rinunciare ai figli firma volentieri una clausola che “senza costi significativi” le garantisce un congruo aumento di stipendio e maggiori prospettive di carriera”. Se l’unico fattore e’ quello economico, di certo. Ma qui, nuovamente, si sovrasemplificano le motivazioni: una persona non con le spalle al muro puo anche rifiutare un lavoro se trova che le condizioni o l’ambiente siano discriminatori o sfavorevole sotto aspetti non finanziari (come faceva la mia amica che, posso assicurarlo, figli non vuole averne ne’ ora ne’ mai). Logicamente, se penso che un luogo di lavoro non promuova il mio life-work balance e per me questo valore e’ importante (fosse anche per giocare a canasta con le amiche il giovedi’ sera, non solo per avere figli), allora la mia preferenza mutera’. Di nuovo, non necessariamente e’ la propensione alla maternita’ a fare la differenza.
    PS1 Ok, esempio piu’ calzante
    PS2 Leggo “Using data from the Eurobarometer we find across the
    EU happiness has RISEN FOR BOTH men and women, however happiness increases have been greater for men relative to women leading to a decline in European women’s happiness relative to that of European men”. Ma allora, sebbene tutte le sfighe europee e il fatto che le donne siano meno soddisfatte degli uomini, la felicita’ in Europa e’ aumentata! E, anche se meno contente dei nostri uomini, lo siamo piu’ delle nostre nonne. Cavolo, con miglioramenti nella tecnica e nella medicina, chi l’avrebbe mai detto 😉
    (PS il paper non l’ho letto tutto, lo faccio quando ho tempo. Cmq citare solo i pezzi di frase che fanno comodo non e’ ne educato ne’ “logico”)

  19. 2. Ti ho fatto l’ esempio di una donna che non intende riprodursi. Per lei è più appetibile un contratto che restringa i diritti di congedo maternità offrendo stipendio più elevato e migliori prospettive di carriera. Ovviamente coeteris paribus.
    p.s.2 scusa se non ho citato tutta la pagina, ma poiché discutiamo delle relazioni di genere, mi sembrava che la parte più interessante fosse quella che metteva i generi a confronto.  D’ altra parte non mi lancerei in grandi costruzioni su uno “slight effect” basato su interviste, un po’ diverso il caso di effetti chiari e statisticamente rilevanti.

  20. scusate mi intrometto nella discussione a due…con alcune considerazioni che un pò esulano, ma nemmeno troppo dall’analisi che qui si sta facendo. Parlando di preferenze, ovvero la preferenza di restare a casa ed abbandonare il lavoro, secondo me influiscono alcuni forti condizionamenti sociali, prima ancora che economici, assai diversi per i due generi
    si da il caso che per la donna, ancora oggi, esistano nell’immaginario sociale e dunque anche privato due ruoli, quello di lavoratrice e quello di “angelo del focolare” (scusate la banalizzazione, ma mi sembra che renda il concetto) e dunque, perso uno (quello di lavoratrice ad esempio), è pronto l’altro. Che può anche invadere completamente la vita della donna, dandole comunque un senso nonostante la perdita della dimensione più pubblica. Magari la donna non è contenta, vorrebbe altro, si interroga…ma in fin dei conti la società sarà sempre pronta a riconoscerle che, in ogni caso, “si è occupata dei figli”…
    diverso il caso dell’uomo, che ancora adesso questa dualità di ruoli non ce l’ha appieno…e da qui l’altro aspetto simile della faccenda…ovvero la ancora forte riprovazione sociale verso l’uomo che abbandona il lavoro.
    Penso che vreso un uomo che abbandona del tutto la sua professione per scegliere il ruolo di padre, e solo quello, la reazione media sia per lo più “ma è pazzo? che ne sarà di lui, della sua vita?”.
    Ecco, non so quanto si dica abbastanza lo stesso ad una donna…ad alcune che conosco, nessuno lo ha detto, nè in famiglia, nè al di fuori e dunque, forse bisognerebbe cominciare a:
    – rendere valida anche per gli uomini la “scappatoia” ruolo familiare: ovvero non mi piace troppo/non mi gratifica il mio lavoro, ho un figlio…quasi quasi me ne sto a casa e la società mi riconosce questo ruolo, io ho un senso al di là della mia professione
    – aumentare la “riprovazione” sociale verso le donne che, pur potendo mantenere i due diversi ruoli, quello di lavoratrice e quello di madre, ne scelgono solamente uno
    ovviamente tutto ciò si intreccia con i condizionamenti economici…ma i cambiamenti culturali possono anche portare a cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e nelle retribuzioni…

  21. A Broncobilly rispondo soltanto con l’evidenza, osservata in Europa nell’ultimo ventennio, richiamata da Maurizio Ferrera nel suo libro “Womenomics”: se le donne lavorano, fanno più figli (il tasso di fecondità è più elevato in Svezia che in Italia); se non lavorano, ne fanno di meno o non ne fanno proprio. Che cosa fa la differenza? La conciliazione: se si offrono servizi e sostegni (questione politica), se si dividono con gli uomini i compiti domestici (questione culturale), se si studiano soluzioni che rendano il lavoro “a misura di famiglia” e non di uomo (questione organizzativa), non soltanto le donne non smettono di lavorare ma addirittura fanno più figli!
    Non condanno affatto chi preferisce occuparsi dei bimbi invece di lavorare. Usando l’espressione “specchietto per le allodole” intendevo dire che non c’è libertà di scelta se le opzioni non sono comparabili (e non lo sono, come ha evidenziato Barbara). In quelle che tu chiami “preferenze profonde” o “originarie” (naturali? innate?) io vedo in realtà tanta cultura. Tutto sta in una frase che usi tu: è “la libera scelta a parità di diritti” che garantisce il benessere collettivo. Se i diritti non sono pari e la penalizzazione è sempre a senso unico, dove sta la libertà della scelta? e il benessere collettivo? Ecco perché io sono convinta che se in Italia il piatto pende sempre a favore della soluzione “donne a casa-uomini fuori” è perché la bilancia è rotta, non per “preferenze profonde”. Altrimenti – non credi? – l’Italia (che ha il più basso tasso di occupazione femminile in Europa) sarebbe l’Eden delle donne. Ma così non è.

  22. Scusa francesca, stai dicendo che per riequlibrare dovremmo spostare la riprovazione sociale dal casalingo alla casalinga? Non mi convince. Sono d’accordo col tuo primo punto cioè quello di non disprezzare e rispettare l’uomo che (potendoselo permettere) decide di fare il padre (e il marito/compagno) a tempo pieno, ma non mi piace molto il secondo.
    personalmente credo che rinunciare all’indipendenza economica una volta che ce l’hai sia sempre un grosso rischio, io non so se lo farei e di sicuro non lo chiederei mai alla mia compagna,, ma non mi sembra giusto esprimere riprovazione o disprezzo per chi prende questa decisione..uomo o donna che sia.

  23. beh ok ammetto che la mia provocazione sia un pò “forte”…e certo meglio insistere sul riconoscimento del ruolo sociale del padre, attraverso strumenti economici
    però insomma, se a tutte quelle che mollano il lavoro (volenti o nolenti) e poi dicono “eh però guarda che bene che sta il mio bambino, non è trascurato, mi sono impegnata molto e lui sta bene…” si dicesse un pò più spesso”ma chi te l’ha fatto fà…sei sicura che ne valesse la pena…non credi sarebbe stato meglio mantenere la tua indipendenza economica” forse un piccolo cambiamento ci sarebbe no?
    insomma, ho un pò forzato la questione forse, ma anche per sapere un pò cosa se ne pensa…

  24. Manuela, i dati che fornisci mi suonano piuttosto una conferma.
    Trovo del tutto normale fare più figli se al loro mantenimento, tanto per dire, contribuiscono anche gli altri pagandomi l’ asilo e mille efficientissimi servizi.
    Trovo del tutto normale che le donne lavorino se altri si sobbarcano – per legge – una parte dell’ onere che deriva da questa scelta (e la legislazione svedese è particolarmente incentivante per le donne).
    In altri termini, trovo del tutto normale scegliere il “cioccolato” se mi pagano per farlo. Lo trovo del tutto normale, anche se in assenza di interferenze avrei scelto la panna.
    Credere che non esistano “preferenze profonde” significa credere che i gap si annullino anche senza incentivi. Attendiamo con ansia lo “stop”.
    Mi sembra un po’ difficile crederlo. La cultura esiste, ma risponde in modo efficace a esigenze reali. Personalmente trovo l’ argomento naturalistico più convincente, è strano che dopo mezzo secolo il gap persista, e guarda caso si attenua – senza mai annullarsi – solo “drogando pesantemente l’ ambiente”. La storia ci insegna che nel passato, in molti casi di “discriminazione arbitraria”, caduti gli odiosi paletti, di fronte ai fatti e alla convenienza l’ immaginario si è dissipato senza tante campagne pubblicitarie e l’ integrazione degli emarginati è stata pressoché immediata, ma c’ erano reali motivazioni da parte di questi ultimi. Si tratta di precedenti imbarazzanti per chi crede in un ruolo importante della “cultura”.
     

  25. C’è un misunderstanding di fondo, tant’è che non hai ribattuto alla mia osservazione di base: i diritti non sono pari. E i diritti sono fondamentali per garantire realmente libertà di scelta a ogni individuo, donna o uomo che sia. Quelle che tu chiami “interferenze” per me sono legittimi interventi per sanare disparità che, a monte e a prescindere da qualsivoglia differenza, impediscono alle donne di scegliere tra la panna e il cioccolato con la stessa libertà con cui scelgono gli uomini. Quello che tu consideri “drogare l’ambiente” per me è il massimo della civiltà: usare l’intelligenza umana per combattere le discriminazioni. E ancora: l’argomento naturalistico porta inevitabilmente a considerare la maternità come un fatto privato. Al contrario, io vorrei che maternità e paternità fossero considerati fatti sociali (e dunque politici).
    Ultima nota: mezzo secolo non è niente. Abbiamo millenni di teorie e pratiche patriarcali da superare. L’immaginario accompagna come una zavorra anche i casi di “integrazione degli emarginati” di cui parli tu.

  26. Ma come fai a dire che i diritti non sono pari? Non è che confondi diritti con le opportunità?
    I diritti sono uguali per tutti, le opportunità purtroppo o per fortuna no.
    Un miliardario e un barbone hanno opportunità diversissime ma pari diritti. Nessuno dei due ha diritto alla Jaguar ma entrambi hanno diritto a comprarsela, se POSSONO farlo.
    La sacrosanta battaglia liberale delle donne per i diritti è finita da un pezzo, adesso mi sembra ci si impegni per ottenere un trattamento differenziato.
    Sì, forse c’ è un problema di linguaggio.

  27. Secondo me, ribadisco, il “trattamento differenziato” lo hanno gli uomini, che la societa’ non ritiene responsabili della cura dei neonati – e dunque (opportunita’) non si da per scontato che si assentino per la cura della prole e dunque (costo) rischiano il bulling e l’ostracismo se scelgono di avvalersi di congedi parentali. O si istituisce un congedo parentale che abbia le stesse condizioni per uomini e donne (obbligatorio/non obbligatorio, retribuito/non retribuito PER AMBEDUE), altrimenti i “pari diritti” non ci sono. Perche’ al momento, i due generi hanno obblighi legali diversi non si sa bene su che base (la “natura” dice broncobilly, “cultura” dicono Manuela e Francesca).
    Secondo me, la scelta piu’ razionale e’ quella di estendere le modalita’ del congedo di maternita’ anche agli uomini e condividerlo a due – per chi non fa il genitore single, ovviamente.
    Poi ribadisco, se si pensa (come Broncobilly) che questo sia un costo per la societa’ e che la societa’ stessa non benefici della natalita’ delle famiglie si e’ liberissimi di chiedere l’abolizione ANCHE del congedo di maternita’ pagato e obbligatorio – potrebbe essere la volta buona che in Italia si tirano fuori i forconi davvero 😀

  28. Un’altra piccola riflessione sulle donne che non vogliono figli che dovrebbero accettare gioiosamente un contratto di lavoro in si richiede loro di non metter su famiglia. Una richiesta simile, oltre che conseguenze pratiche, e’ anche un buon indicatore dell’ambiente di lavoro in cui ci si ritrovera’ – quindi, secondo me, anche chi non vuole figli e’ portato a fare una serie di considerazioni non economiche, prima di accettare.
    Un esempio per i maschietti. Fate finta che vi sia chiesto di firmare un contratto economicamente vantaggioso ma in cui siete costretti, per dress-code, a presentarvi in ufficio con una catena al collo. Vi spiegano che la catena e’ solo simbolica e nessuno si sognera’ mai di legarvi al desk. Pero’ la catena dovete portarla. Accettereste questo lavoro o uno lievemente meno pagato, coeteris paribus? Il fattore umiliazione e percepita incivilta’ conterebbe davvero zero nelle vostre valutazioni?

  29. Barbara, parlando di “trattamento differenziato” intendevo “in termini di diritti”. Oggi uomini e donne hanno gli stessi diritti e laddove non è così è per accordare un privilegio alle donne, almeno nelle intenzioni. Ulteriori “trattamenti differenziati” vengono pensati sempre in quella linea.
    La “cultura” di una società non accorda “diritti”, anche se è vero che puo’ pesare sulle opportunità. Noi dobbiamo chiederci se si tratta di una “cultura” imposta con l’ inganno e l’ arbitrio dai più forti o invece un modo razionale di organizzarsi sulla base delle preferenze profonde.
    Nel secondo caso donne e uomini dovrebbero avere “preferenze profonde” diverse. Noi non sappiamo se è così. Allo stato, le nostre conoscenze non ci danno una risposta certa e immutabile (e non ce la daranno mai) ma lo scienziato ci dice tuttavia che è razionale scommettere su “preferenze di genere” differenti.
    L’ economista ci dice poi che basta anche solo una leggerissima preferenza perché si creino forti differenze nei ruoli sociali. In realtà, con la teoria dei vantaggi comparati, ci dice di più, ci dice che forte divisione dei ruoli è razionale anche se la donna avesse attitudini più spiccate in ogni attività umana!
    p.s. ma è il fatto stesso che sia simbolica a lanciare “segnali”; nell’ altro caso, invece, nessun simbolo, solo garanzie d’ efficienza piena.

  30. Guarda, mi verrebbe da chiederti quale scienziato e quale economista visto che mi risulta che, almeno, per quel che riguarda gli economisti ci siano scuole di pensiero molto diverse fra loro. E se per “scienziati” intendi i sociologi, idem con patate 😀
    Secondo me dovremmo stare attenti a differenziare fra scienze “dure” e scienze “morbide” e fra scienze e “utilizzo della scienza a fini retorici”. Thomas Kuhn avrebbe qualcosa di interessante da dire in merito, non sono certa che pero’ questo sia il contesto per addentrarsi in questioni di metodo scientifico, efficacia predittiva ed epistemologia.
    ” In realtà, con la teoria dei vantaggi comparati, ci dice di più, ci dice che forte divisione dei ruoli è razionale anche se la donna avesse attitudini più spiccate in ogni attività umana”. Razionale per chi? Cui prodest?
    ps la domanda “vuoi figli?” di segnali ne lancia eccome! segnali su straordinari non pagati, orari da schiavisti e clausole contrattuali non chiare. Se davvero uno vuole efficienza e patti chiari mi scrive sul contratto come vengono trattati gli straordinari – se c’e’ una percentuale di straordinari sicuramente prevista in fasi “critiche” dei progetti, se sono pagati o convertiti in ore di permesso – e quante ore di viaggi di lavoro ci si aspetta da me (come per esempio, il mio contratto di lavoro prevede). Valutero’ io poi se le esigenze contrattuali sono compatibili con i miei impegni familiari o col portare il mio cane a fare pipi’ almeno due volte al giorno: e se non rispetto il contratto, ovviamente, vengo prima ammonita poi licenziata, come e’ giusto. Non esiste che una donna debba venire umiliata mettendosi a stipulare sulla sua vita privata durante un colloquio di lavoro.

  31. Parlo ovviamente di diritti sostanziali, non formali. Dallo Stato mi aspetto non soltanto la proclamazione teorica della parità di genere – che comunque è storia recente, perché poco più di mezzo secolo è storia recentissima – ma l’impegno concreto a rimuovere ogni ostacolo alla sua realizzazione, anche, se necessario (e lo è, a mio avviso), introducendo trattamenti differenziati che aiutino a superare una “cultura” avversa. Su quest’ultimo fronte siamo in netto ritardo. Ed è qui che si gioca la partita più generale della giustizia sociale.
    Il tuo ragionamento sulle preferenze tende inoltre a trascurare ingiustamente tutti gli altri fattori che determinano la genderizzazione (http://www.ingenere.it/articoli/dreaming-parit-questione-di-secoli) e a dare per scontata l’equazione “razionale uguale efficiente”. I teorici della womenomics, al contrario, hanno dimostrato che una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro risponde anche a criteri di efficienza economica, oltre che di equità: http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001608.html

  32. Manuela, consentimi solo qualche osservazione.
    1. I diritti sono formali per definizione visto che sono un concetto astratto. Esiste infatti una “eguaglianza dei diritti”, una “eguaglianza delle opportunità” e una “eguaglianza dei risultati”. Parlare di “diritti sostanziali” è solo un modo per riferirsi alle ultime due “eguaglianze”, sempre tenendo conto che sono incompatibili con “l’ eguaglianza nei diritti”. Quando parlo di “interferenza” intendo proprio quell’ interferenza che distorce l’ “eguaglianza nei diritti” per giungere, per esempio, all’ “eguaglianza negli esiti”. Mi sembra comunque che ci siamo capiti. In ogni caso, qui, Amartya Sen fa il punto sul lessico comunemente usato in materia per capirsi.
    2. E’ ovvio che se il mondo del lavoro apre le sue porte alle donna la società si arricchisce e di parecchio. Ma è molto meno ovvio se si pensa di farlo andando oltre rispetto all’ “eguaglianza dei diritti” tra i sessi. I “teorici della womeneconomic”, in questo senso, possono dimostrare ben poco poiché proprio qui diventano cruciali le preferenze soggettive profonde. Ovvero, cio’ di cui parliamo. Ad ogni modo ti consiglio di rintracciare nella conversazione tenuta con Barbara quanto dicevamo a proposito di PIL e pastasciutta.
    3. Perché sostieni che non tengo conto della genderizzazione? Ma è proprio soppesando i vari argomenti del modello “culturalista puro” con quelli del modello “culturalista su base naturale” che, per diverse ragioni (il link viene buono anche per replicare a Barbara), trovo il secondo di gran lunga più convincente.
    Visto che abbiamo parlato molto vorrei giocare a carte scoperte. Io non sono un grande esperto di “femminismo”, mi sono però fatto un’ idea che caricaturizzo qui di seguito. Dapprima esisteva un “femminismo liberale” che reclamava pari diritti, la parola d’ ordine era “prendiamoci cio’ che ci spetta”. Ad esso è subentrato un femminismo di matrice “marxista” che alla “lotta di classe” sostituiva la “lotta di genere”: se la “dialettica materialista” guida il mondo, le astrazioni che stabiliscono “cosa ci spetta” sono solo una “sovrastruttura” alla lotta bruta; la parola d’ ordine originaria è così mutata in una più sostanziale: “prendiamoci tutto quel che possiamo prendere”. La femm.lib, dopo la “conquista”, dice “ora tiriamoci su le maniche”, la fem-marx, dopo una conquista, dice “partiamo alla volta di altre conquiste”. Devo ammettere che mi sento più vicino al primo stereotipo.

  33. @Barbara F. Non sono riuscita a seguire tutta la discussione (più tardi me la leggo, sono arrivata a metà), ma spero che alcuni interventi di Nancy Folbre, una economista femminista americana che si occupa di lavoro di cura, ti possano essere utili. Folbre, tanto per chiarire, è convinta che le scelte “femminili” siano in gran parte (sottolineo, in gran parte, e credo che la sua analisi vada presa in considerazione indipendentemente da come la si pensi al riguardo) legate a una costruzione culturale di femminilità. A parte questo, ritiene anche che la questione del lavoro di cura non pagato sia la grande questione lasciata irrisolta sia dal capitalismo sia dal socialismo. Spero di avere davvero più tempo per partecipare, intanto ecco alcuni link.
    Qui una conferenza in cui, tra altre cose, analizza le differenze tra lo standard di vita, a parità di reddito, di una famiglia dove lavora solo l’uomo e di una dove lavorano entrambi i partner – più basso nel secondo caso – identificando con chiarezza e semplicità una disuguaglianza e una discriminazione economica gravi. (E un motivo per spingere le donne a stare a casa, o ad accettare di essere povere, o entrambe le cose, purtroppo.) http://www.youtube.com/watch?v=nNBQU_ESqtw Spero che non sia troppo difficile da seguire. Qui una sintesi delle sue riflessioni abbastanza chiara: http://www.republicart.net/disc/aeas/folbre01_en.htm
    E infine un articolo pubblicato di recente sul suo blog sul NYTimes, dove mette in discussione una classifica di The daily beast sui paesi migliori per le donne, sottolineando come si tratta, in realtà, dei paesi migliori per le donne senza figli. Se si prendessero in considerazione il welfare e tutte le misure atte a permettere alle donne di avere figli e lavorare, allora la classifica metterebbe gli USA più in basso, scrive Folbre. Non sto nemmeno a immaginare dove metterebbe l’Italia, che è al 59esimo posto.
    Qui il link: http://economix.blogs.nytimes.com/2011/09/26/the-best-countries-for-non-mothers/
    Spero ti siano utili.

  34. Il modello Folbre ha un problema: postula che i servizi di cura siano sottovalutati senza spiegarne in modo esauriente i motivi.
    In realtà ci prova affermando che per la natura del servizio, sarebbe difficile valutarne la “qualità”. Ma questa è una tipica opacità che porta a sopravvalutare il servizio e non a sottovalutarlo: i professionisti sono un caso da manuale (quanto si è impegnato l’ avvocato per perorare la mia causa?). L’ incentivo necessario per spronare chi non puo’ essere valutato secondo parametri oggettivi è molto più elevato.
    La grande disparità di redditi tipica di questi anni è dovuta al fatto che i profitti si sono spostati nella finanza, ovvero in un campo in cui la qualità dei servizi resi è  spesso misteriosa e dipende dalla fortuna. Più la fortuna conta, più bisogna alzare i compensi per ottenere il medesimo incentivo (Tim Harford è l’ economista che si è occupato della faccenda).
    Ma non basta, acquistando “servizi di cura” noi 1) ci accaparriamo il servizio 2) segnaliamo agli altri e a noi che ci prendiamo cura di X. Il ben noto colossale spreco della spesa sanitaria è dovuto proprio all’ esigenza del consumatore di lanciare  “segnali”, e i servizi di cura sono per loro natura simili ai servizi sanitari. il consumatore in questi casi non vuole solo guarire ma anche “segnalare” la cura che ha per se stesso, per i familiari ecc, quindi è disposto a pagare un valore maggiore di quello effettivo del servizio.
    Ci sono quindi solide basi che valga l’ esatto contrario di cio’ che postula la Folbee Probabilmente la differenza con i servizi sanitari sta nel fatto che i dottori, diversamente da badanti e baby sitter, “fanno casta” grazie all’ ordine e alle tariffe minime. Ma qui il problema è quello di colpire la casta, mica di crearne un’ altra, magari istituendo l’ ordine delle badanti e delle baby sitter.

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