In questi giorni l’attenzione comune è concentrata su Sanremo. E poco serve dire che molto accade attorno a noi, e accadono cose tremende peraltro, come il terremoto e, dentro il terremoto, Assad e il blocco degli aiuti umanitari agli oppositori, e infine basterebbe scorrere le prime pagine dei quotidiani online saltando le cronache dall’Ariston per capire che, già, siamo in pieno inverno (e non parlo di meteo).
Prima che qualcuno o qualcuna salti su con l’accusa di voler sottrarre divertimento, di essere snob, radical-chic, calvinista (nel senso di Italo, lo sarei anche), bacchettona e aggiungete voi definizioni a caso, dico che Sanremo lo guardo anche (magari lo uso come sottofondo, perché al momento sono concentrata sulla seconda serie di Hunters, che mi pare bella assai). Ma lungi da me giudicare chi lo guarda, si appassiona e ne chiacchiera sui social. Quello che mi interessa, semmai, è l’ultimo punto: chiacchieriamo pure, ma proviamo anche ad avere chiaro in testa cosa succede quando intraprendiamo in allegria quello che è sicurissimamente un gesto di libertà e anche di comunità, un divertimento personale e un rito collettivo, un parlarne fra amici e una felice distensione.
Solo per ricordarcelo, eh, poi si continua tranquillamente.
Ieri ho pubblicato su Facebook un dubbio personale non tanto su Chiara Ferragni ma su – vecchia storia – l’attivismo digitale, chiedendomi anche non se giovi nell’immediato (sì, o molto probabilmente sì) ma cosa succederebbe se un bel giorno in tendenza non ci fossero le battaglie contro misoginia, violenza, omofobia ma l’esatto contrario, e come si comporterebbero quegli stessi giga-influencer che le sposano davanti a una platea sterminata sapendo che in questo modo contemporaneamente si nutre l’algoritmo (lo facciamo anche noi, con loro) e si guadagnano follower (in genere loro, non noi).
Poi, certo, ho pensato a Marco Pannella. Ho pensato alle geniali campagne mediatiche che metteva in atto negli anni Settanta (bavagli, cartelli, fiori alle Botteghe Oscure). E diceva:
“La fantasia è stata una necessità, quasi una condanna piuttosto che una scelta; sembrava condannarci ad esser soli […] Così abbiamo parlato come abbiamo potuto e dovuto, con i piedi, nelle marce, con i sederi, nei sit-in, con gli “happening” continui, con erba o con digiuni, obiezioni che sembravano “individuali” e “azioni dirette” di pochi, in carcere o in tribunale, con musica o con comizi, ogni volta rischiando tutto, controcorrente sapendo che un solo momento di sosta ci avrebbe portato indietro di ore di nuoto difficile”.
Pannella avrebbe usato gli algoritmi per una giusta causa? Sì, molto probabilmente sì, mi sono risposta nell’immediato, immaginando una delle sue performance sul palco dell’Ariston. Pannella avrebbe intrapreso però una battaglia per mettere in guardia dalla nostra riduzione a brand, sia pure perbenissimo e virtuosissimo e dotato delle migliori intenzioni? Altrettanto probabilmente sì, lo avrebbe fatto.
Dunque, sono andata a ricercare un’intervista che avevo letto di sfuggita: parla Mike Watson, autore di «Memeing of Mark Fisher» (Zero Books, 2021), e dice fra l’altro:”non possiamo negare che internet abbia un effetto di orizzontalizzazione. Ma si tratta di un processo intrapreso solo in parte, abbiamo raggiunto un punto in cui tutti potrebbero diventare ricchi e famosi, anche per caso, ma per la maggior parte delle persone questo ancora non avviene. La frustrazione che deriva da questo desiderio irrealizzato, causa risentimento e consente alla destra populista di prosperare”. Prima di lui lo scrissero i Wu Ming, del resto: “La questione non è se la rete produca liberazione o assoggettamento: produce sempre, e sin dall’inizio, entrambe le cose. E’ la sua dialettica, un aspetto è sempre insieme all’altro. Perché la rete è la forma che prende oggi il capitalismo, e il capitalismo è in ogni momento contraddizione in processo. Il capitalismo si affermò liberando soggettività (dai vincoli feudali, da antiche servitù) e al tempo stesso imponendo nuovi assoggettamenti (al tempo disciplinato della fabbrica, alla produzione di plusvalore). Nel capitalismo tutto funziona così: il consumo emancipa e schiavizza, genera liberazione che è anche nuovo assoggettamento, e il ciclo riparte a un livello più alto”.
E’ utile dire queste cose? Forse no. Perché molti e molte fra voi che leggerete diranno che comunque non si fa niente di male a rilanciare quel che avviene a Sanremo, a trarne – appunto – meme, a divertirsi un po’. Infatti. Ma sarebbe bello che avvenisse con assoluta consapevolezza di quello che i nostri tweet e post, compreso questo, vanno poi a fare. Solo questo.
Il che significa, come dice Watson, essere un po’ flaneur nel senso indicato da Walter Benjamin e giocare con la rete, usandone i frammenti per costruire altro. Non è impossibile, ma ancora una volta occorre sapere cosa si sta facendo, sempre.