Quando la letteratura dice “io”, e lo dice sempre più spesso e in ogni forma, e anzi a questo punto sa che, almeno per un altro po’ di tempo, più dice io e più incontrerà successo, è normale che le altre forme narranti ripetano “io”. In verità, hanno cominciato prima le altre forme: la televisione e poi, ovviamente, i social. Dunque, non mi stupisce che anche le lettere sanremesi continuino (Chiara Ferragni non è la prima) a dire “io” per poi provare a declinare il noi, senza davvero volerlo fare, credo.
Naturalmente non propongo un paragone ma un’alternativa possibile. Un altro modo di dire “io”. E, soprattutto, un altro intento. Dal discorso di Annie Ernaux per l’accettazione del Nobel per la letteratura:
“Continuare a dire “io” mi era necessario. La prima persona, quella attraverso cui, nella maggior parte delle lingue, esistiamo dal momento in cui impariamo a parlare, fino alla morte, è spesso considerata, nel suo uso letterario, come narcisistica nel momento in cui si riferisce all’autore invece che a un “io” presentato come fittizio. È il caso di ricordare che l'”io”, fino a quel momento privilegio dei nobili che raccontavano grandi fatti d’armi nelle loro memorie, in Francia è una conquista democratica del XVIII secolo, l’affermazione dell’uguaglianza degli individui e del diritto a essere soggetto della propria storia, come rivendica Jean-Jacques Rousseau in quel primo preambolo delle Confessioni: “E che non mi si obbietti che essendo soltanto un uomo del popolo non avrei da dire nulla che meriti l’attenzione dei lettori. […] In qualunque oscurità sia vissuto, se ho pensato più e meglio dei re, la storia della mia anima è più interessante della loro”.
Non era quest’orgoglio plebeo a motivarmi (anche se…), bensì il desiderio di servirmi dell'”io”, forma al tempo stesso maschile e femminile, come uno strumento esplorativo che capta le sensazioni, quelle che la memoria ha sotterrato, quelle che il mondo intorno non cessa di trasmetterci, ovunque e in continuazione. Questo preliminare della sensazione è diventato per me al contempo la guida e la garanzia dell’autenticità della mia ricerca. Ma a quali fini? Non si tratta per me di raccontare la storia della mia vita, né di liberarmi dei suoi segreti, ma di decifrare una situazione vissuta, un evento, una relazione amorosa e svelare in questo modo qualcosa che solo la scrittura può far esistere e passare, forse, in altre coscienze, in altre memorie. Chi potrebbe dire che l’amore, il dolore e il lutto, la vergogna, non sono universali? Victor Hugo ha scritto: “Nessuno di noi ha l’onore di avere una vita che sia sua”. Ma poiché ogni cosa viene vissuta inesorabilmente in modalità individuale (“È a me che succede”), può essere letta nello stesso modo soltanto se l'”io” del libro diventa, in un certo modo, trasparente, e quello del lettore o della lettrice ne prende il posto. Se questo “io”, insomma, diventa transpersonale, se il singolare assurge all’universale.
È così che ho concepito il mio impegno nella scrittura, che non consiste nello scrivere “per” una categoria di lettori, ma “partendo” dalla mia esperienza di donna e di immigrata interna, dalla mia memoria ormai sempre più lunga degli anni attraversati, dal presente, fornitore incessante di immagini e parole degli altri. Questo impegno come pegno di me stessa nella scrittura, e sostenuto dalla credenza, divenuta certezza, che un libro possa contribuire a cambiare la vita personale, a spezzare la solitudine delle cose subite e seppellite, a pensarsi in modo diverso. Quando l’indicibile viene alla luce, è politico.
Lo vediamo oggi con la rivolta di quelle donne che hanno trovato le parole per scompaginare il potere maschile e si sono sollevate, come in Iran, contro la sua forma più violenta e più arcaica. Scrivendo in un Paese democratico, continuo a interrogarmi, tuttavia, sul posto occupato dalle donne, anche in campo letterario. La loro legittimità a produrre opere non è ancora acquisita. In Francia e in tutto il mondo ci sono intellettuali maschi per cui i libri scritti dalle donne semplicemente non esistono, non li citano mai. Il riconoscimento del mio lavoro da parte dell’Accademia di Svezia rappresenta un segnale di giustizia e di speranza per tutte le scrittrici.
Portando alla luce l’indicibile sociale, questa interiorizzazione dei rapporti di dominazione di classe e/o di razza, di sesso anche, che viene percepita soltanto da coloro che ne sono oggetto, si crea la possibilità di un’emancipazione individuale ma anche collettiva. Decifrare il mondo reale spogliandolo delle visioni e dei valori di cui la lingua, ogni lingua, è portatrice, vuol dire sconvolgere l’ordine costituito, scompaginarne le gerarchie.
Ma non confondo questa azione politica della scrittura letteraria, sottoposta alla ricezione da parte del lettore o della lettrice, con le prese di posizioni che mi sento tenuta a prendere rispetto agli avvenimenti, ai conflitti e alle idee. Sono cresciuta nella generazione del dopoguerra, dov’era dato per scontato che scrittori e intellettuali prendessero posizione rispetto alla politica della Francia e prendessero parte alle lotte sociali. Nessuno oggi è in grado di dire se le cose sarebbero andate diversamente senza la loro parola e il loro coinvolgimento. Nel mondo attuale, dove la molteplicità delle fonti di informazione, la rapidità con cui le immagini vengono sostituite da altre immagini, l’assuefazione a una forma di indifferenza, si è tentati di concentrarsi sulla propria arte. Ma allo stesso tempo c’è in Europa, ancora mascherata dalla violenza di una guerra imperialista condotta dal dittatore a capo della Russia, l’ascesa di un’ideologia di ripiegamento e di fermezza, che si diffonde e guadagna continuamente terreno in Paesi fin qui democratici. Fondata sull’esclusione degli stranieri e degli immigrati, l’abbandono delle persone economicamente deboli, la sorveglianza del corpo delle donne, impone a me come a tutti coloro per cui ogni essere umano ha lo stesso valore, sempre e ovunque, un dovere di vigilanza. Quanto al peso del salvataggio del pianeta, distrutto in gran parte dall’appetito delle potenze economiche, non può gravare su chi è già svantaggiato. Il silenzio, in certi momenti della storia, non è accettabile.
Accordandomi la più alta onorificenza letteraria che esista, sono un lavoro di scrittura e una ricerca personale condotti nella solitudine e nel dubbio che si trovano a essere sotto i riflettori. Non mi lascio abbagliare. Non considero l’attribuzione del premio Nobel che mi è stata fatta come una vittoria individuale. Non è né orgoglio né modestia pensare che sia, in un certo modo, una vittoria collettiva. Ne condivido la fierezza con tutti coloro e tutte coloro che in un modo o nell’altro auspicano più libertà, più uguaglianza e più dignità per tutti gli esseri umani, qualunque sia il loro sesso e il loro genere, la loro pelle e la loro cultura. Gli uomini e le donne che pensano alle generazioni a venire, alla salvaguardia di una Terra che la fame di profitto di un piccolo numero di individui continua a rendere sempre meno vivibile per l’insieme delle popolazioni.
Se ripenso alla promessa fatta a vent’anni di vendicare la mia razza, non saprei dire se l’abbia realizzata. È da quella razza, dai miei antenati, uomini e donne avvezzi a fatiche che li hanno fatti morire presto, che ho ricevuto abbastanza forza e abbastanza collera per avere il desiderio e l’ambizione di ritagliare loro un posto nella letteratura, in questo insieme di voci molteplici che mi ha accompagnata fin da giovanissima, dandomi accesso ad altri mondi e ad altri pensieri, compreso quello di ribellarmi contro di essa e di volerla modificare. Per iscrivere la mia voce di donna e di transfuga sociale in quel luogo che si presenta sempre come un luogo di emancipazione: la letteratura”.
(Traduzione di Fabio Galimberti)