Ci sono giornalisti che propongono la messa al bando di alcune parole: quelle che possono indurci ad una xenofobia strisciante, automatica, inconsapevole. Giornalisti contro il razzismo ne ha individuate alcune. Perchè? Non certo per adesione a un politicamente corretto snob, ma perchè, per esempio, occorre tener presenti i risultati di una ricerca sui giovani italiani tra i 18 e i 29 anni commissionata in febbraio dall’Osservatorio della Camera dei deputati. Risultati sconcertanti: oltre il 45% dei ragazzi è xenofobo. In particolare, in quel 45,8% si distinguono: i Romeno-rom-albanese fobici (il 15,3%), gli xenofobi per elezione (il 19,8%) e gli “improntati al razzismo” (che sono il 10,7%).
Le parole non bastano, certo: ma aiutano. Sottolineare la provenienza, nelle cronache giornalistiche che indulgono a precisare “il romeno”, “l’algerino” o simili, indica che la provenienza conta. Quasi sempre, in negativo.
Quel che stupisce me è che, spesso, quando si parla di questo argomento, scatta la reazione: “ah, censori!”. Allora mi chiedo: non è che sta aumentando la confusione fra censura (o autocensura) e assunzione di responsabilità? Oppure, rovesciando i termini, fra libertà e “faccio e dico quel che mi salta in testa?”.
Daniz. Io non riporto nulla, ho fatto domande sulle tue affermazioni. Ne avrei fatto e farei altre, ma vedo che non ne vale la pena, perchè ritorni su una schedatura preventiva (i centri sociali, le kefie: fantasmi del tuo immaginario)
@daniz
tu hai delle antipatie assolutamente legittime, ma espresse in uno spazio ristretto risultano da olografia destroide, spero tu te ne renda conto. I vivi hanno la maledetta tendenza autodifensiva di ritenersi migliori dei morti, e hanno la stramaledetta tendenza ad ampliare all’inverosimile la categoria di questi ultimi… Infatti, anche disprezzando chi non ti è simpatico puoi ammazzare. Del resto come si dice quando si vuol manifestare disprezzo ultimo: ” per me è come morto! “. Ecco, il mondo, per tanti di noi, è fatto di vivi immersi in montagne informi di morti. Poi, però, ci lamentiamo nelle poesie dell’aria cimiteriale… Si può andare avanti così? Si può non considerare l’elemento forza come vero motore della storia? Oggi la Cina è creditore dell’occidente, a partire dagli Stati Uniti. I soldi dell’Islam tengono in piedi il sistema finanziario, e quindi quello industriale, come il petrolio, che determina la vita di tutti noi più di qualunque lettura e sensibilità artistica politica religiosa poetica. Ci piaccia o no. Detto questo ti domando: quanto possiamo continuare ad alimentare il mito della diversità? Diversità che espressa in certi termini vuol dire superiorità, non siamo ipocriti!
Gli altri popoli ci stanno aggredendo comprandoci, e comprando sottobanco il diritto a far scorrazzare le loro genti sui territori degli stati creditori. Pare che le banche cinesi, per esempio, finanzino imprenditori, anche piccolissimi, con progetti di impresa in Europa. Bisogna farsene una ragione, Daniz, in cinquanta anni la razza bianca superiore, proiezioni demografiche alla mano, scomparirà nel variopinto universo multirazziale. Capì?
PS: è come con la mafia: prima gli si permette di comprare tutto per via che il lavoro non si deve fermare; poi ci si lamenta vagamente che i capitali mafiosi stanno penetrando l’economia pulita, quando è assolutamente il contrario…
#Larry
sono tante le cose che butti in macchina, dove partiamo?
l’economia? ci stanno battendo al nostro gioco, da un certo punto di vista sono contento. sono e saranno gli altri (l’alterità per i professori lipperiniani) la forza propulsiva, non si può fermare la storia, ok, it’s right. eppoi chi la fermerebbe? i nostri mulini a fiato? l’occidente è in una fase decompositiva utile, checché ci dicano i nostri giornaletti pornopolitik. anche perché se c’è una cosa che vale sempre nell’omo è l’antropofagia. il capitalismo non è che una sua forma sviluppata a distanza, nulla di nuovo sotto al sole.
le differenze. la differenza la possiamo vedere in tanti modi Larry. la diversità è anche fastidio reciproco. il fastidio che si può provare nel vedere una stessa esigenza umana appagata infilando strade diverse. da lì il passo di sentirsi superiori può essere ravvicinato, d’altronde ce lo ha insegnato la storia dell’occidente, la tradizione capitalista, la Chiesa e il culto della Natura a nostra immagine culturale. ma le diversità continuano ad esistere, anche tra mille scassi storici, altrimenti Picasso non sarebbe andato a vedere l’arte plastica africana… e Kawabata James Joyce. così come Van Gennep non avrebbe disegnato la fenomenologia dei riti di passaggio, tra echi e formazioni di divergenza.
un corpo sudamericano o europeo o africano non diranno mai la stessa umanità pur essendo funzionalmente umani alla stessa maniera spicciola, cioè fisiologica.
io non mi sento occidentale superiore, ma rivendico la mia culturale “tensione” nei confronti della diversità. che questa possa essere accoglienza, stupore, dissenso, disgusto, fastidio, allontanamento. preferisco vivere le mie sfumature di singola persona intessuta in un contesto di vita vissuta e inculturata, piuttosto che negare tutte le sensazioni, anche negative, che lo scalpello del galateo progressista scolpisce nelle pseudocoscienze dei suoi adepti. non uso vestirmi di stracci assiomatici, Larry, tutto qui e non foraggio la favolistica dei nostri tempi andati
Verissimo Daniz, quoto: la diversità è anche fastidio reciproco. Mi dichiaro infastidita, infatti.
Tutt*: mi sembra che il punto non sia la messa al bando nell’uso comune delle parole su elencate, ma nell’uso giornalistico, specie (e sottolineo specie) in cronaca nera. Laddove il cronista medio tende a precisare, sempre e comunque, in caso di ubriaco al volante, la nazionalità quando il medesimo non sia italiano, e mai quando lo è. Maceratese investe una salernitana non è molto diffuso nelle nostre cronache (al limite, in quelle iper-locali).
Inoltre: esiste un protocollo che si chiama Carta di Roma.
http://www.odg.it/content/carta-di-roma
Esiste un’istituzione che si chiama Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati che più volte ha rilevato la scarsa etica italiana in questo senso.
Se qualcuno vuole chiamarlo galateo progressista, faccia pure.
#lipperini
un galateo progressista esiste. non faccia finta di nulla. e non faccia moralisti da buona forchetta quale è, perché la vita è diversa dalle scenografie che si allestiscono in certe locandine di sinistra.
Non sto facendo finta di nulla: la sto ignorando. Non ho intenzione di interloquire con lei ulteriormente.
io facendo una ricerca in emeroteca mi sono imbattuto in “UCCISI DUE NEGRI” in prima pagina mi pare, era il 1970 giornale il “messaggero”. Dell’iniziativa sopra se ne parlò anche in un servizio sul venerdì di rep.
a me piace citare due autori che spesso scrivono libri sul tema – Marco Aime e Guido Barbujani. Poi anche “Lessico del razzismo democratico” di Giuseppe Faso. Quello che trovo di sicuro sbagliato è l’utilizzo della nazionalità o della relativa appartenza etnico-sociale ( boh?) nei titoli. soprattutto in tv, o nelle locandine fuori dalle edicole. All’interno dell’articolo è opportuno, magari spiegando ogni tanto che significa scrivere rom o sinti, o anche zingaro, però facendo capire come è nato l’uso di questa parola.
comunque linko l’articolo citato di Federica Sgaggio, che penso sia utile leggere.
http://www.federicasgaggio.it/2010/01/giornali-razzismo-e-stupidita-selettiva/
SONO UNO DEI PROMOTORI DELLA CAMPAGNA GIORNALISTI CONTRO IL RAZZISMO.
Provo a fare un pò di chiarezza su questo dibattito che per molti versi mi sembra un passo indietro rispetto all’elaborazione fatta finora sul tema dei “media dell’odio” che fomentano il razzismo.
1) Innanzitutto la nostra campagna è rivolta ai giornalisti e ai professionisti dell’informazione, è una proposta di migliorare l’uso del linguaggio giornalistico creando buone pratiche, e non quella di estirpare alcune parole dal vocabolario della lingua italiana. Non pensiamo che l’abolizione di “ricchione” abolisca l’omofobia, ma che l’abolizione di “ricchione” dalla cassetta degli attrezzi linguistici del giornalista possa prevenire episodi di omofobia innescati dai media.
2) Siccome la campagna è rivolta ai giornalisti, chi non lo è semplicemente non è parte in causa del dibattito, è come se i vegetariani si sentissero in dovere di intervenire e dire la loro su una iniziativa rivolta ai macellai. Chi è parte in causa del dibattito in quanto giornalista ha un sacrosanto diritto di critica costruttiva, ma dovrebbe spiegarci come mai interviene solo ora a criticare, e come mai finora siamo stati soli a denunciare un uso xenofobo del linguaggio, le bufale sui rapimenti di bambini ad opera di Rom, la costruzione di un clima culturale avverso ai migranti che si nutre anche (non solamente, ma anche e soprattutto) di imprecisioni, generalizzazioni, linguaggi stereotipati.
3) Ci interessa sapere se chi critica ha voglia di partecipare attivamente a questa assunzione di responsabilità dei giornalisti verso il problema delle migrazioni perché non siamo esenti da errori e tutto è perfettibile, ma semplicemente la ricerca del pelo nell’uovo e la critica tanto per la critcia ci sembra inutile visto che su questa campagna ci ragioniamo da due anni, abbiamo avuto a sostegno delle nostre riflessioni anche Ong come il Cospe che lavorano da tantissimo tempo sui temi dell’informazione e delle migrazioni, abbiamo avuto il sostegno di ordini regionali dei giornalisti come quello dell’Emilia Romagna che ha adottato la campagna, e in mezzo a tutto questo c’è stata anche la nascita di un codice di autoregolamentazione deontologica (La Carta di Roma) sul quale ci siamo espressi con critica costruttiva e sempre come voce nel silenzio senza sentire i ragionamenti di tanta gente che oggi sembra scaldarsi sulla questione.
E ora scendo nel merito di alcune osservazioni:
1) “In UK ad esempio lo usano il termine “asylum seekers” e non clandestino, ma li’ e’ quello che e’ diventato denigrante in certi contesti per i partiti nazionalisti, magari loro dovrebbero passare a qualcos’altro allora?”.
Se un termine ha acquisito un’accezione razzista nell’uso comune, la risposta è ovviamente sì. Inoltre a me risulta che in UK sia usato anche il termine Immigrants, che inserito nel sito del Guardian produce più di 13mila risultati, proprio perché non tutti gli immigrati hanno lo status di richiedente asilo come definito dalle Convenzioni di Ginevra (tra parentesi, uno dei principali obiettivi del nostro invito all;uso CONSAPEVOLE e INTENZIONALE del linguaggio è anche quelllo di spazzare un pò di nebbia dell’ignoranza su alcune questioni, nebbia ancora fitta visto che molti, e anche in questo dibattito, confondono la condizione di richiedente asilo con quella di clandestino.
2) “Sono estremamente scettica sull’effettiva utilità dell’iniziativa e personalmente non condivido la decisione di abolire parole che non hanno un significato offensivo, ma che vengono semplicemente utilizzate come tali”.
In realtà la nostra proposta è solo al 10% abolizionista: siccome per ogni termine sconsigliato, suggeriamo almenmo 9 sinonimi, quello che facciamo è per il 90% inviare all’uso di parole più appropriate. L’invito non è quello di mutilare il linguaggio, ma di scrivere con più proprietà di linguaggio, evitando termini ambigui o generici che prestano il fianco a usi razzisti. Extracomunitario è anche lo Svizzero e lo Statunitense, se quella parola non è usata per indicare anche loro allora c’è uno stereotipo che deve consigliare a chi vuole far bene il mestiere di giornalista di usare altri termini più specifici e meno discriminatori.
3) “E d’altra parte, se una persona è extracomunitaria o nomade o no global, come dobbiamo chiamarla?”
Questa affermazione mi fa venire il dubbio che la gente si diverta ad aggiungere commenti a questo dibattito senza nemmeno prendersi la briga di leggere il nostro vademecum, che risponde proprio alla domanda “che sinonimi usare?”. Il vademecum lo trovate all’indirizzo http://www.giornalismi.info/mediarom/indici/ind_232.html e ci trovate anche alternative al termine “extracomunitario” e “nomade”. Quano ai no-global, io non ho mai saputo chi fossero se non una categoria giornalistica. Ho sempre incontrato anarchici, comunisti, ambientalisti, pacifisti, esperti di economia alternativa… ma non ho mai conosciuto nessuno che si qualificasse come “no global”. Ma questo è un altro discorso.
4) “Pronunciare la parola extracomunitario a mio parere non deve diventare un tabù”.
In Italia sui giornali non è più tabù nemmeno sbagliare i congiuntivi oppure omettere la citazione delle fonti su dati chiave, o inserire tra virgolette frasi mai pronunciate dall’intervistato. Ma se uno sa l’italiano e conosce le buone pratiche del giornalismo, certe cose le mette automaticamente al bando perché è consapevole degli standard di eccellenza della professione. Quindi non si tratta di divieti o proibizioni, ma di scelte consapevoli, che uno fa quando ha acquisito una proprietà di linguaggio tale da padroneggiare l’uso di sinonimi che non si prestano a generalizzazioni o a stereotipi.
5) “Morta una parola se ne fa un’altra, e siamo al punto di prima, se non si risolve la questione a monte”
Per noi la questione a monte è la scarsa professionalità dei giornalisti, e per questo motivo abbiamo messo degli strumenti al servizio dei colleghi per allargare la loro cassetta degli attrezzi con dei sinonimi che migliorino la loro proprietà di linguaggio, evitando ad esempio di chiamare clandestino chi non ha ancora messo piede sul territorio italiano come accade spesso quando si parla di “barche cariche di clandestini”.
6) “Le parole sono importantissime, si’. Ma la svolta la si fa insegnandole tutte, e spiegando di tutte il significato. Cosi’ che ognuno poi se le sceglie accortamente, e ne e’ poi responsabile personalmente. Bandirle e’ non solo e non tanto un atto di censura, quanto una cosa ridicola secondo me”.
Non si sta parlando delle parole da insegnare a scuola, ma di quelle da preferire o da evitare nell’uso della pratica giornalistica. Non si tratta di censura, ma di dire ad esempio che è meglio dire assessore che dire politico, perché stai convogliando una informazione in più, e che è meglio dire immigrato che clandestino, perché immigrato vale anche domani, se invece domani la clandestinità non scatta più allo scadere del contratto di lavoro, quell’articolo diventa automaticamente inesatto, e obbliga chi lo legge a verificare quali erano le leggi in vigore al momento della sua pubblicazione. Quanto al senso del ridicolo, ognuno ha il suo, a me fa ridere che si getti il marchio della censura e del ridicolo su qualcosa che vuole solo stimolare un utilizzo più raffinato della lingua italiana.
7) “Nei pezzi di cronaca nera io specifico sempre: extracomunitari, rumeni, italiani”.
Io non me ne vanterei. Extracomunitario non dà nessuna informazione, può essere anche uno di San Marino. Se la notizia o il reato non hanno nessun legame con la nazionalità, questa specificazione è una violazione palese della carta di Roma.
8) “La confusione è somma sotto questi cieli. La sciatteria verbale, lungi dall’essere una questione di Crusca, la ritengo snodo cruciale in ogni società che si ritenga democratica”.
Applausi.
9) “I moralisti non servono a niente signori belli. vorrei vedere chi tra questi bei farcitori di frasi metterebbe suo figlio in un palazzo di extracomunitari”.
Lo fa chiunque mette il figlio in un college statunitense. Come vedi la parola extracomunitario si presta al significato di “negro delinquente”, e quindi noi consigliamo di evitarla.
10) “Le parole sono importanti, ma è assai limitativo fermarsi ad esse, come novelle Donne Letizia, se gli schemi mentali non cambiano”.
Purtroppo come professionisti preoccupati di possibili conseguenze deriva xenofoba all’interno dei mezzi di informazione l’unico lavoro che possiamo fare a livello collettivo è quello sulle parole. Sugli schemi mentali ognuno deve lavorarci a livello individuale, perché un organismo collettivo che lavora sugli schemi mentali di tutti è tipico dei regimi totalitari.
11) “Non si tratta di censurare, ma di ricordare che chi chiama “clandestino” uno che parte dalla Libia per richiedere asilo, è lui a pervertire la lingua e a mettere in circolazione categorie discriminatorie- e non è chi richiama ad altri usi a inventare sinonimi, come piace immaginare a troppi inerti”.
Applausi.
In ultima analisi, vi confesso che il tenore culturale di questi commenti mi ha convinto ancora di più del dovere urgente e irrimandabile che hanno i giornalisti e gli intellettuali di chiamare le cose con il loro nome dicendo che magari tutto è permesso e permissibile in televisione, in parlamento, nelle chiacchiere al bar o nella stampa di regime buona per incartare il pesce, ma nel BUON giornalismo ci sono e ci devono essere delle cattive pratiche proibite e conseguentemente delle parole da evitare, così come è proibito allungare il cemento con la sabbia nella BUONA edilizia, e anche chi può farlo preferisce evitarlo.
E sull’onda di questo paragone edile vi lascio con una domanda: CHE COSA DIRESTE A UN CAPOMASTRO CHE RIVENDICA IL DIRITTO DI GETTARE SABBIA NEL CEMENTO IN NOME DELLA LIBERTA’, DEL RELATIVISMO, DELLA LOTTA ALLA CENSURA CHE OPPRIME LA LIBERA ESPRESSIONE NEI CANTIERI O IN NOME DELLA LOTTA ALL’IPOCRISIA DELL'”EDILIZIAMENTE CORRETTO”? Sarebbe un paladino del pensiero libero o semplicemente un cretino che non sa fare il suo mestiere?
Ecco, noi pensiamo in tutta onestà che l’uso di certe parole nel giornalismo sia come gettare sabbia nel cemento di una colonna portante, anzi ci sembra una pratica ancora più pericolosa perché abbiamo visto di cosa sono stati capaci i media in Bosnia e in Rwanda. Poi ovviamente qui siamo nella terra del faiquelchetipare, quindi nessuno potrà proibire a nessun altro di usare espressioni stereotipate o vocaboli confusi, ma noi non possiamo esimerci dal dire quello che a nostro giudizio è buon giornalismo e quello che è benzina sul fuoco del conflitto sociale.
Quindi cari lettori, siete liberi di comprare anche giornali spazzatura, perché lì troverete dei colleghi liberi di scrivere e titolare come più gli pare. Ma non infastiditevi se diciamo che per noi quella è carta straccia, perché se voi rivendicate libertà di espressione, noi rivendichiamo libertà di giudizio e libertà di stabilire in autonomia quali sono gli standard professionali che consideriamo più elevati.
Ringrazio Carlo Gubitosa della pazienza e della tolleranza con cui ha argomentato. A dimostrazione, anche, che un pizzico di informazione in più prima di commentare non fa mai, proprio mai, male. 🙂
@Gubitosa: assolutamente condivisibile, ma si era partiti da un sondaggio sui giovani, cui frega pochissimo come scrivono i giornalisti, almeno a troppi. Motivo: non leggono nulla, nemmeno quello che lei definisce carta straccia, a ragione ma anche un po’ a torto, ma eviterei gineprai che hanno stancato anche me (quando scrive: ” Non pensiamo che l’abolizione di “ricchione” abolisca l’omofobia, ma che l’abolizione di “ricchione” dalla cassetta degli attrezzi linguistici del giornalista possa prevenire episodi di omofobia innescati dai media.”. Per carità, ma va bene, sono con voi).
Entrato in questo thread (peggio di negro, queste parole da blogger o semi blogger che spaventano eventuali commentatori più lucidi di me e ce ne sono) con la speranza inevasa che qualche adolescente legga “All’erta siam razzisti” della Rosellina Balbi e ne faccia passaparola. Utopia, sicuramente.
Si era partiti dalla proposta – ottima – cui ho aggiunto il sondaggio, peraltro riferito nel libro che a quella proposta si lega, “Parole sporche”. Nessun ginepraio. Bastava seguire il link (però, da ultimo, pare proprio che vada di moda il commento compulsivo, da queste parti).
@Lipperini: nessun ginepraio, infatti e si è seguito il link. Serenità. Se senti però il bisogno di usare sempre più spesso “commento compulsivo”, fai.
Vincent: mi riferisco ai commenti che sono partiti per la tangente, senza contestualizzare l’iniziativa a cui mi riferisco, come è stato giustamente sottolineato da Gubitosa.
Loredana: scusa, partii anche io per la tangente perché leggo sempre di fretta.
L’intervento di Gubitosa è prezioso ed esauriente e andrebbe ciclostilato per questa fetta di giovani tra i 18 e i 29 anni, affinché leggano un punto di vista importante su xenofobia e dintorni. Anche alcuni giornalisti ne avrebbero bisogno. 🙂
Voglio ringraziare Gubitosa, fa bene al cuore leggere parole come le sue. Io lo ciclostilerei anche per i genitori di certi bambini, che quando li sentono scherzare sui “cinesini”, o chiamare “mongolo” qualche compagno/a farebbero bene a non girarsi dall’altra parte, giustificandosi con il fatto che preferiscono minimizzare, come tecnica “educativa”. Io spiego sempre, ai miei, il significato e l’importanza delle parole e intervengo ogni volta che sento usare delle parole in modo inappropriato, ma vedo che non c’è consapevolezza, e se i media cominciassero a farla circolare spero che potremmo fare qualche passo avanti nella lotta al razzismo. E proprio per questo aggiungerei la televisione come altro luogo dove non dovrebbe essere più accettabile esprimersi in modo da incoraggiare e far circolare un linguaggio e dunque una mentalità razzisti. La vice ministra spagnola all’Uguaglianza, come si è visto nella trasmissione di Iacona intitolata “Senzadonne”, ha detto chiaramente che la libertà di esprimersi come si vuole si ferma là dove va a scontrarsi con altre libertà e diritti. E ha detto altrettanto chiaramente che i media hanno in questo una grande responsabilità, che in Spagna è riconosciuta e regolamentata. Parlava di questioni di genere, ma non ho dubbi che la cosa valga per ogni tipo di uso discriminatorio del linguaggio, verbale e non.
Grazie Carlo, sempre.
Buongiorno, sono anch’io uno dei promotori di Giornalisti contro il razzismo e a mia volta devo dire che mi amareggiano sia il tenore di una serie di commenti in questo blog sia qualche sms (che parlava di nostra volontà di “censura”) letto l’altro giorno in trasmissione.
Mi pare ne emerga una sorta di fraintendimenton di fondo della nostra iniziativa, come ha esaurientemente cercato di spiegare Carlo Gubitosa in questa pagina.
Non ho molto da aggiungere alle sue argomentazioni. Tengo tuttavia a ricordare il nucleo delle motivazioni che hanno indotto un gruppo di giornalisti come noi a denunciare questa criticità all’interno della professione: vale a dire, la diffusa adozione (in qualità ma anche in quantità) nei mass media di un linguaggio di derivazione propagandistica (i partiti che proliferano sulla xenofobia e sull’iperbole criminale) o gelidamente burocatica (le note stampa delle forze dell’ordine) che di per sé deforma la realtà e alimenta un disegno di persuasione dell’opinione pubblica.
Considero ovvio che la stampa libera deve porsi il problema, ragionare sul rischio di caratterizzarsi intrinsecamente come un semplice megafono di alcune tendenze “culturali”: i giornali non sono manifesti elettorali, mutuarne il linguaggio – dunque – significa ingannare i propri lettori, cioè non essere professionalmente all’altezza del proprio compito (a meno che l’inganno non sia la nostra missione…).
Perciò, ritengo sia un fraintendimento di fondo a far evocare un’idea di “censura” di fronte a un tentativo di introdurre correttivi, di cercare una lente che possa restituire nei media un’immagine meno deformata (e deformante) della realtà.
Reputo normale, vorrei sperare sia fisiologico, che si reagisca di fronte a una propaganda bene interiorizzata dai media che enfatizzano accostamenti criminalizzanti (extracomunitario, clandestino, rom, nomade ma finanche immigrati o stranieri sempre più spesso accanto a parole come criminalità, furti, sicurezza, allarme, paura eccetera), che riportano presunti dati statistici (sulla propensione a delinquere piuttosto che sulla carcerazione dei non autoctoni) senza analizzarli criticamente, un esercizio quest’ultimo che consentirebbe di svelare i molteplici lati ingannevoli di molte cifre e percentuali apparentemente “asettiche”: si scoprirebbe – al contrario – che spesso ci si trova ai limiti della pura menzogna propagandistica. Il tutto, nel Paese delle leggi razziali (in proposito, consiglio vivamente la lettura dei quotidiani nazionali nella seconda metà degli anni Trenta, per un assaggio di come i media preparavano un certo clima).
Ecco, rifiutare accostamenti criminalizzanti significa – nella prassi giornalistica quotidiana – anche evitare di utilizzare parole che ormai inglobano indiscutibilemente un meta-messaggio fazioso e fuorviante (senza contare altre “sfumature” più o meno rilevanti della faccenda semantica, per esempio che “clandestino” – con tutto ciò che ne consegue mediaticamente e non solo – si può diventare anche semplicemente perché la “coda” all’ufficio stranieri può essere troppo lunga e nel frattempo il permesso da rinnovare scade: definireste “evasore fiscale” una persona che è in ritardo con una cartella esatoriale perché c’era sciopero alle Poste?).
In chiusura, giusto per rendere l’idea, se per decenni qualche forza politica utilizzasse una certa congiuntura psicosociale per bombardare l’opinione pubblica col messaggio inquietante che “fra i commentatori di blog si nascondono i terroristi”, se questo messaggio fosse veicolato acriticamente dai mass media in un preciso contesto lessicale (“nuovi controlli fra i commentatori di blog, rischio informatico, allarme del ministro, trovati documenti minacciosi nel pc di un commentatore di blog, un commentatore di blog viola il server centrale della questura” eccetera eccetera), non sarebbe una contromisura ovvia il tentativo di svelare questa mistificazione che criminalizza impropriamente una molteplicità di soggetti creando arbitrariamente una categoria sociale inesistente nella realtà?
Pretendere l’utilizzo di parole appropriate e non ingannevoli che cosa c’entra con la censura, il politicamente corretto e amenità simili?
Tempo fa ebbi l’occasione di intervistare (sul tema delitto e castigo) il criminologo norvegese Nils Christie il quale insisteva sempre su un punto: qualuque sia il contesto, non dimentichiamoci mai che stiamo parlando di persone.
Ecco, a volte basterebbe usare quella parola e molti rischi e spiacevoli effetti collaterali sarebbero evitati: persona.
“Ormai è ufficiale:i negri sono esseri umani.Lo dicono tutti,persino gli inglesi.Non ha importanza se ci credono davvero;siamo mediocri e banali come il resto della specie.Finalmente ci si può abbronzare al solarium in santa pace”(cfr Paul Betty in Slumberland).E i tempi devono proprio essere cambiati se finanche il pontefice ha infranto il tabù dei preservativi(probabilmentealcuni suoi rappresentanti sui luoghi del disastro gli hanno suggerito di calmierare le minchiate prima di inimicarsi l’umanità intera)
definire una persona con l’etnia d’appartenenza non è xenofobia. purtroppo sui giornali si leggono sempre più notizie di cronaca nera che coinvolgono “persone non italiane” e l’accostamento viene automatico.
per non essere xenofobo, devi cancellare le nazionalità e quindi i confini, non ha senso cancellare dal vocabolario parole rientranti nell’uso comune dell’italiano e di evidente origine non slang (che, in tali casi può davvero essere offensivo).
<definire una persona con l’etnia d’appartenenza non è xenofobia. <purtroppo sui giornali si leggono sempre più notizie di cronaca nera che
Cito questa frase del commento firmato Jessica che mi pare offra una fotografia chiara della situazione.
Non so se Jessica si sia presa il tempo di leggere quanto scritto nella campagna Giornalisti contro il razzismo o almeno le precisazioni inviate a questo blog.
Trovo tuttavia indicativo che Jessica non si ponga il problema della sovrarappresentazione di stranieri nelle notizie di cronaca nera ma la consideri qualcosa di neutro, di “dato”, mentre in realtà questo fenomeno rappresenta una delle criticità che cerchiamo di segnalare ai colleghi giornalisti.
L’accanimento con cui la stampa spesso insiste proprio sulla nazionalità di persone arrestate magari per reati di scarsa gravità, senza contare che gli articoli suonano in geenre come sentenze passate in giudicato, non sarà xenofobia ma di certo deforma la realtà e favorisce un clima di razzismo, intolleranza, pregiudizio, generalizzazione, superficialità eccetera.
Una persona che delinque è una persona che delinque e salvo i casi riguardanti specifiche organizzazioni criminali “territoriali” (che nel nostro contesto sarebbero peraltro al 99% composte da italiani: camorra, cosa nostra, ‘ndrangheta…) specificare la nazionalità è superfluo (specie nei titolo, dove invece spesso viene “sparata” senza pudore col rischio di stigmatizzare intere comunità straniere).
È questo che i cittadini vogliono dai giornali o preferiscono una fotografia più fedele alla realtà?
Quanto a quest’altra parte del commento
<per non essere xenofobo, devi cancellare le nazionalità e quindi i <confini, non ha senso cancellare dal vocabolario parole rientranti <nell’uso comune dell’italiano e di evidente origine non slang (che, in tali <casi può davvero essere offensivo).
pur non afferrandone appieno il senso, vorrei soltanto ricordare che Giornalisti contro il razzismo ha promosso un’iniziativa rivolta ai professionisti dell’informazione, non all’accademia della Crusca e dunque non si vuole cancellare nessuna parola dal vocabolario della lingua italiana; ma si propone di non utilizzare una serie di vocaboli o di accostamenti in contesti che così facendo omologherebbero il giornalismo alla propaganda politica di stampo xenofobo mutuandone parte del linguaggio e degli accostamenti criminalizzanti.
@Jessica: sei sicura che gli accostamenti che “vengono automatici” non siano, appunto, indotti?
Ti invito a riflettere su questi due articoli di cronaca, dai titoli rivelatisi totalmente fuorvianti rispetto ai fatti rivelatisi realmente accaduti:
1) Titolo: “Arresto di un giovane spacciatore africano”
Fatto reale: il ragazzo è uno studente ghanese e attende la campanella davanti alla scuola serale. Percosso dai vigili a sangue, a notte fonda è stato rilasciato.
2) “Prostituta peruviana aggredita in questura”
Fatto reale: nell’adempimento di una ordinanza municipale contro la prostituzione, una studentessa peruviana che parlava con tre connazionali viene prelevata a forza nel centro della città. Malmenata, sporge querela dopo una notte di detenzione.
Gli esempi sopra provengono da fonte ministeriale, ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali.
Io non volevo intervenire su questo thread perchè il tema e il problema posto dai ‘Giornalisti contro il razzismo’ mi pare di un’evidenza lapalissiana.
E lo dico da persona che detesta il cosiddetto ‘politicamente corretto’, ma qui non si tratta di ‘politicamente corretto’, si tratta solo di ‘corretto’, non so se la differenza è chiara.
Usare le parole nel modo più preciso possibile fa parte del bagaglio professionale di chi, per mestiere, fa comunicazione.
Epperò, si chiede: se un rumeno in stato di ubriachezza investe un pedone non lo devo scrivere che è un rumeno?
A questa obiezione è stata già data una risposta esauriente da Zenone Sovilla e Carlo Gubitosa, insisto solo perché mi pare importante.
E’ vero c’è un numero x di rumeni che investe pedoni. Quanti pedoni sono investiti in Italia e quanti investitori sono rumeni?
Sinceramente non lo ma, anche qualora fossero un numero cospicuo, la domanda che mi verrebbe naturale subito dopo sarebbe: quanti rumeni vivono in Italia e quanti di questi investono pedoni?
Perché del fatto che i cosiddetti ‘extracomunitari’ contribuiscono in misura notevole al PIL nazionale non ne parla nessuno, viene fuori solo come un dettaglio residuale una volta tanto.
Sono rappresentanti sui media questi ‘extracomunitari’ che contribuiscono al PIL nazionale e che hanno pochissimo in cambio dallo Stato italiano? Non mi pare.
Sui media italiani c’è un problema gestaltico grosso come una casa: in figura solo i criminali, sullo sfondo, ma su uno sfondo praticamente cancellato e invisibile, tutti quelli – e sono tanti di più – che non delinquono e anzi lavorano, il più delle volte in nero, il più delle volte supersfruttati.
E sullo sfondo, cancellato e inavvertito, rimangono pure i delinquenti italiani (italianissimi) che li fanno lavorare in nero, e li sfruttano al limite, spesso superato, della schiavitù.
Sullo sfondo rimangono le leggi razziali (non solo quelle del ’38), le perversioni burocratiche, lo ius sanguinis e tanti altri cappi a cui vengono appesi, con buona pace di tutti, gli ‘extracomunitari’.
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Quando si dice che bisogna stare attenti a usare con disinvoltura la parola ‘razzismo’ si dice qualcosa di sensato, perché un fenomeno epocale come quello dell’immigrazione provoca dei legittimi disagi e delle comprensibili chiusure, che non sempre sono identificabili col razzismo tout court.
Ma è proprio per questo che chi fa comunicazione ha una responsabilità enorme: i disagi devono essere compresi ed elaborati, non fomentati e sobillati con una informazione che, di fatto, è parziale e cieca.
Per cui non credo proprio che l’avvertimento di stare attenti alle parole che si usano sia una forma di coartazione e di censura, perché per quel che riguarda l’informazione io parlerei piuttosto di autocensura e di autoaccecamento.
Mi pare che qui, appena uno stia fermo un attimo, c’è chi azzeri tutto e sia necessario ricominciare (mi accorgo solo ora dei miei congiuntivi cruscheggianti, e li lascio). Mi colpisce anche la calma con cui Carlo Gubitosa e Zenone Sovilla sono tornati ad argomentare che 2+2 fa quattro. Visto che non sono del gruppo “Giornalisti contro il razzismo” provo ad aggiungere qualcosa.
Se uno è marocchino, è marocchino, sbotta Jessica. Non vorrete trasgredire i confini. Non è esattamente così. Chi parla o scrive decide, tra le mille cose che si possono dire per indicare un individuo, un segno, un’etichetta, una cifra. Il marocchino era anche uomo, aveva una certa età, portava un certo numero di scarpe, era appena stato in un posto o in un altro, eccetera. Ecco perché nelle redazioni, quando si chiede: ma perché avete scritto “marocchino?”, solo
i più analfabeti (tanti ce ne sono, come in tante altre professioni, anche privilegiate..) rispondono: “oh, bella! perché era marocchino”. I più colti preferiscono dire: “perché in questo caso era rilevante”. La rilevanza, ecco il criterio che legittima o no una scelta lessicale (ci sono studi di grande spessore sulla rilevanza, il più prezioso, anche perché esaurito da anni, è quello antropologico-linguistico di Speber e Wilson, rintracciabile però in inglese per coloro che, in numero crescente, lo leggono speditamente).
Il problema però si sposta, perché non è vero che sia sempre rilevante l’essere marocchino per dare una notizia. Si può ricorrere a Guadagnucci, “parole sporche”, e al libro ivi citato di Faso, “Lessico del razzismo democratico” (alla voce, appunto, RILEVANZA). Meglio non fare statistiche,visto che si tratta di una massa non censibile e sempre in movimento: ma i pochi carotaggi seri che sono stati fatti, per esempio da Marcello Maneri (Univ. Milano Bicocca) dicono che QUASI SEMPRE si dice la nazionalità quando lo straniero è autore più o meno presunto di reati, e QUASI SEMPRE la si cela, quando è vittima di un reato o di un incidente, specie se mortale (Della stessa persona si è detto. “Albanese ruba alla Coop, quando a 14 anni ha involato (avrebbe detto Boccaccio) un videogioco, e quando è morto, a 19: “Muratore muore cadendo da un’impalcatura”. E’ stato promosso… Per altri esempi, oltre a quello eclatante (mi si scusi il francesismo di mia assoluta responsabilità: mica le cose sono eclatanti in sé, siamo noi a chiamarle così, di quando in quando) e assai significativo riportato da Faso, ne ho qui un altro che sintetizzo. Lo traggo da p. 51 del Corriere delle Sera del 9 aprile 2004, ed. MILANESE – cronaca locale. Due titoli nella stessa colonna: sopra, ARRESTATO MAROCCHINO; sotto, AUTISTA PICCHIATO. Il marocchino era molte altre cose (aveva mendicando in maniera troppo pressante per la mamma ammalata, diceva: bottino, 67 euro in due rate, dati dell’articolo stesso), e l’autista anche, era tante altre cose, tra cui salvadoregno. Jessica potrebbe protestare per il fatto che nel secondo caso lo stesso redattore, con due titoli in parallelo, ha evitato di rispettare i confini. SE Jessica poi sapesse qualcosa di lingusitica testuale o pragmalinguistica, potrebbe notare conme nel primo caso il “tema” marocchino è stato spostato a destra, posto del “rema”, e così focalizzato. nel secondo titolo il rema è al posto giusto, “picchiato”. Come dire che la vera notizia non sta in quello che accade, ma nel fatto che si è marocchini, se si è cattivi; se si è buoni, nulla.
Non ho tempo, ma vorrei anche chiedere a Jessica come mai dice “etnia” per indicare l’appartenenza nazionale. Mica marocchino o cinese o turco è un’etnia. Da anni studi seri ci dicono che si tratta di un sostitutivo dell’innominabile “razza”,ma ciò nonostante e quindi proprio per questo, direbbe Proust, nel discorso da bar e in quello giornalistico è stato introdotto, ingenerando qualche confusione (“Un curdo di etnia turca”, diceva tempo fa un giornalista del TG).
Infine, per Zenone Sovilla, ringraziandolo. il richiamo Jessica c’entra poco con la crusca, che grazie al cielo non è più quella del 600, e negli ultimi decenni, guidata da Nencioni e poi da Sabatini, ha svolto un lavoro egregio. Altro sono spesso i quesiti linguistici di molti lettori, quelli sì, degni spesso dell’altra crusca – che non era poi tanto da rispettare.
Io temo che la questione che fuorvia un po’ questo dialogo – causata credo fondamentalmente dalla fretta a da un potere catalizzante di questi argomenti che fa sorvolare sui particolari, è che si mette un po’ troppo da parte il fatto che la proposta viene dai giornalisti ed è per i giornalisti. Come Gubitosa ha già sottolineato.
Allora la questione appunto non è se usare marocchino o no per esempio in un romanzo. Se usarlo in una conversazione al bar, la questione riguarda esclusivamente un modo professionale di usare le parole, e le aree in cui la deontologia professionale investono il linguaggio. Ogni professione ha dei raggi di realtà in cui deve fare più attenzione degli altri quando parla per il potere che hanno le sue parole, per la posizione asimmetrica che ha nella realtà. I giornalisti, sono ina posizione asimmetrica – come lo sono anche che ne so, i medici o gli psicologi o gli insegnanti. Per esempio gli insegnanti non possono usare con troppa disinvoltura la parola “cretino” per l’eco discriminante che ne deriva dalla loro asimmetria, perchè il loro cretino detto a un allievo risponde a una circolarità magari proposta dalla classe riguardo a un certo aluntto ed sancisce definitivamente uno statuto di minoranza che non deve assolutamente passare. Non vuol dire epurare l’aggettivo cretino dal dizionario, non vuol dire sperare di eliminare l’insulto cretino dai rapporti sociali, nè vuol dire negare che dansi nella realtà dei cretini – come forse dei romeni assassini. Il problema è la responsabilità tutta particolare che investe l’asimmetria di ruolo, e il fatto che questa responsabilità è tale perchè è in grado di condizionare – rafforzando o disconfermando pensieri altrui.
Giuseppe, è che – purtroppo – non sono pochi a pensare che la “lingua italiana” vada difesa più degli esseri umani.
C’è stato un altro che se la prendeva con le parole……
Scusa lady Yoko, potresti essere meno allusiva? Qui nessuno se la sta prendendo con le parole.
lalipperini: Certo, ma sono persone che in genere della lingua italiana non hanno idea
Qualche tempo fa, per mia curiosità, ho esplorato i gruppi e le pagine di Facebook, inserendo chiavi di ricerca come “rom”, “zingari”, “extracomunitari”, “musulmani”. I risultati di questa piccola indagine mi hanno colpito allo stomaco. Mi hanno fatto perdere (quasi) tutte le speranze. Certo, non ho scoperto nulla di nuovo: ma un conto è il razzismo di cui si parla in astratto, un altro la sua traduzione in un linguaggio feroce, delirante e sgrammaticato. Ho trovato pagine che incitano al linciaggio e alla violenza. Il peggio è che tutto mi suonava familiare: quel linguaggio – mi sono detto – è l’eco amplificato di quel che sento in televisione. Nei continui riferimenti a “extracomunitari che stuprano le donne italiane” ho trovato tracce di consuetudini giornalistiche dannose. E pensare che gli stupratori sono quasi sempre parenti o conoscenti (leggi: quasi sempre italiani).
sn d’accosrdissimo cn quello che ha scritto
scs dovevo scrivere d’accordissimo……
xD