PAROLE

Ci sono giornalisti che propongono la messa al bando di alcune parole: quelle che possono indurci ad una xenofobia strisciante, automatica, inconsapevole. Giornalisti contro il razzismo ne ha individuate alcune. Perchè? Non certo per adesione a un politicamente corretto snob, ma perchè, per esempio, occorre tener presenti  i risultati di una ricerca sui giovani italiani tra i 18 e i 29 anni commissionata in febbraio dall’Osservatorio della Camera dei deputati. Risultati sconcertanti: oltre il 45% dei ragazzi è xenofobo. In particolare, in quel 45,8% si distinguono: i Romeno-rom-albanese fobici (il 15,3%), gli xenofobi per elezione (il 19,8%) e gli “improntati al razzismo” (che sono il 10,7%).
Le parole non bastano, certo: ma aiutano. Sottolineare la provenienza, nelle cronache giornalistiche che indulgono a precisare “il romeno”, “l’algerino” o simili, indica che la provenienza conta. Quasi sempre, in negativo.
Quel che stupisce me è che, spesso, quando si parla di questo argomento, scatta la reazione: “ah, censori!”. Allora mi chiedo: non è che sta aumentando la confusione fra censura (o autocensura) e assunzione di responsabilità? Oppure, rovesciando i termini, fra libertà e “faccio e dico quel che mi salta in testa?”.

81 pensieri su “PAROLE

  1. Assolutamente d’accordo. Il linguaggio è generatore del pensiero e del nostro modo di rappresentare le cose.
    Vorrei aggiungere anche l’importanza delle raccomandazioni per un uso non sessista della lingua: un’ altra forma di razzismo linguistico, se vogliamo, che purtroppo è molto diffusa in Italia.

  2. La confusione è costante – alle volte in mala fede, altre in buona fede – per sclerotizzazione della riflessione su cose che non sono la lista della spesa. La noto per esempio nei blog, o forum e spesso a proposito di critica nell’uso di linguaggi e parole. Vedi anche le annose discussioni qui in tema di genere. O anche altri: L’iter è:
    1. Pilla “non sono d’accordo sull’uso del corpo della donna per la pubblicità der telefono”
    2. Pollo “te sei per la dittatura, te sei savonarola, te sei contro la libera espressione della donna sòccola.
    Pollo fa spesso un corto circuito in buona fede, perchè decide automaticamente che Pilla estenderebbe l’applicazione della sua opinione a legge di stato. Cioè Pollo non concepisce distinzione tra opinione critica e norma legale. Che è l’eccesso opposto della sua espressione, che invece non concepisce lo stretto legame tra opinione personale e responsabilità di quello che si dice.

  3. d’accordissimo!! mi fece molta impressione sentir la giornalista del tg di Sky (che non è certo una giornalista de “la padania”) apostrofare la donna uccisa con un pugno nella metro di roma come “la rumena” come se non avesse un nome, come se non fosse un’infermiera

  4. sono scettica, e non so se sia un problema di censura/autocensura, le parole che hanno scelto come da bandire sono parole legittime (clandestino, nomade, zingaro, extracomunitario) – non parlo del vu’cumpra perche’ quella e’ nata come insulto, non e’ neanche una termine da vocabolario, quindi non dovrebbe essere usata per principio. Il problema e’ l’accezione con cui si usano, ma tempo che ce ci mettessimo ad usare un’altra parola per lo stesso concetto come suggeriscono (richiedente asilo per clandestino, che poi non e’ totalmente la stessa cosa comunque) stiamo solo spostando il problema e trovando nuove parole da bandire. In UK ad esempio lo usano il termine ‘asylum seekers’ e non clandestino, ma li’ e’ quello che e’ diventato denigrante in certi contesti per i partiti nazionalisti, magari loro dovrebbero passare a qualcos’altro allora? Ce li scambiamo i termini e li usiamo tutti a rotazione finche’ non li abbiamo finiti? Magari piu’ che bandire in modo draconiano io proporrei di usarli interscambiabilmente, una specie di quota con cui usare ciascuna delle alternative, una parola smetterebbe allora di essere un’etichetta per diventare un sinonimo, e magari la sensazione spiacevole che evoca potrebbe essere diluita.

  5. @supermambanana: il problema è che non si tratta sempre della sostituzione delle parole scomode con sinonimi più “fair” ma con termini che hanno proprio un significato diverso.
    Clandestino non è sinonimo di richiedente asilo. Clandestino significa un fuorilegge nascosto mentre il richiedente asilo è un fuorilegge che chiede di essere accolto. Tutta un’altra storia.
    Le sfumature di significato sono mutamenti di senso e riappropriarsi di un uso corretto e non manipolativo della lingua, oggi, nella società della comunicazione che ha prostituito il linguaggio per i suoi biechi fini, è un atto rivoluzionario.

  6. giorgia ho capito, e infatti lo dicevo anche su, ma ripeto in altri paesi e’ il termine richiedente asilo che e’ diventato denigratorio, per dire, nonostante sia correttamente utilizzato, quindi le parole prendono il significato che la gente attribuisce, purtroppo. Cosi’ come extracomunitario da noi, il termine e’ usato correttamente, come cittadino di paese non appartenente alla comunita’ europea, mica di per se e’ sbagliato, ma e’ usato in modo denigratorio. Anche dire rumeno o marocchino ora e’ sottilmente (eufemismo) denigratorio, allora se uno vuol dire io sono marocchino che dovrebbe dire? Riappropriarsi della pulizia del termine dici tu, certo, e speriamo ci si riesca allora, la misura mi pare estrema ma se dici che funzionerebbe…

  7. Sono estremamente scettica sull’effettiva utilità dell’iniziativa e personalmente non condivido la decisione di abolire parole che non hanno un significato offensivo, ma che vengono semplicemente utilizzate come tali.

  8. A me non sembra una questione né di censura né di abolizione, ma di scelte. Qui non si tratta di abolire un termine ma di preferirne uno al posto di un altro in un determinato contesto, quando sappiamo benissimo che tale preferenza avrà delle precise conseguenze sul pensiero di chi legge.
    Mi ricordo, per esempio, del termine “no global” che venne abusato per etichettare un po’ negativamente qualsiasi forma di dissenso al sistema (difatti gli attivisti fra loro preferivano definirsi “new global” o “movimento delle alternative sostenibili”).
    E trovo corretta la definizione di “assunzione di responsabilità” del proprio linguaggio perché per me è una questione di portare rispetto per le parole e per chi ne fruisce, usandole per far comprendere e non per manipolare.
    Perché “il primo gesto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro vero nome” (R. Luxemburg).

  9. La cornice è tutto. Con gli esempi mi spiego meglio. Se si indica come “marocchino” un cittadino del Marocco – durante una normale conversazione, per indicare la provenienza geografica di qualcuno è ok. Soprattutto se non si sta parlando di reati penali. Ah, tizia, sì la grande poeta marocchina. Non va bene connotare in alcun modo chi commette reati. A me non piace leggere “la parrucchiera omicida”; il “ladro rumeno” e via discorrendo. Ci vuole molta attenzione in entrambi i sensi. Anche se in Italia andiamo in un verso e basta, quello della denigrazione.

  10. Appunto, con il loro vero nome, mica con sinonimi coniati appositamente. E d’altra parte, se una persona è extracomunitaria o nomade o no global, come dobbiamo chiamarla?
    Quindi se si parla di uso responsabile delle parole nel giornalismo non parliamo di una iniziativa rivoluzionaria ma di un dovere che esiste a prescindere. Sempre secondo me, ovviamente.

  11. Su questo tema scrisse, secondo me, un bel post Federica Sgaggio nel suo blog (“giornali, razzismo e stupidità selettiva” del 5 gennaio 2010).

  12. I ragazzi sulla gru. In 17 giorni non ho mai letto ne un titolo ne una definizione simile riguardo ai 6 immigrati che hanno dato vita alla clamorosa rivolta. Immigrati clandestini li hanno definiti i giornalii di “sinistra”, il bresciaoggi è riuscito nell’impresa di impaginare appena sotto la cronaca della protesta un titolo che diceva: Ragazza violentata da un clandestino. Sono favorevole all’autocensura, anche se le risorse di xenofobi e razzisti sono infinite, morta una parola ne trovano un altra, persino “religiosissimo” ( bresciaoggi) in riferimento ad un ragazzo pakistano sulla gru pare traduzione di “Talebano”.

  13. Barbara ha detto bene, il punto non è cambiare le parole, ma sceglierle accuratamente per significare le persone nei contesti adeguati, in questo caso negli articoli sui media.
    Non si tratta di smetterle di usare in assoluto queste parole ma di smetterle di adoperarle come significato assoluto per rappresentare un determinato invidividuo, dove parlare di clandestino o di rumeno allora no, non è più dare le cose con il loro nome. E’ confinarle, circoscriverle, etichettarle.
    Definire chi contesta l’attuale sistema liquindandolo come un no-global (che per inciso non è un individuo contro la globalizzazione, ma piuttosto per una globalizzazione dei diritti anziché del neocolonialismo capitalista) non è affatto dare le cose con il loro nome, così come non lo è parlare di “letteratura al femminile” o non lo è parlare di “uomini” al posto di “persone” o “esseri umani”, includendo anche le donne.

  14. Non è un caso che la parola checca a pensarci bene mette quasi un pò po paura,se la tua fontanella non si è mai chiusa del tutto.Governano con la neurolinguistica,in modalità quasi dianetica(in questo momento stanno manipolando l’informazione mettendo l’accento su qualche episodio criminale operati da extracomunitari.Le elezioni non sono lontane)
    http://olive.lulurepertoire.com/Repertoire%20morceaux%20originaux/la%20Camisa%20negra.mp3

  15. Io concordo infatti su questo utilizzo delle parole in un contesto adatto, però nell’articolo io ho letto: “propongono la messa al bando di alcune parole”, e trovo che la cosa sia diversa, e non vorrei mai che questo potesse legittimare la manipolazione di queste parole. Pronunciare la parola extracomunitario a mio parere non deve diventare un tabù.

  16. basta che non finiamo con aberrazioni tipo i diversamente abili – boh mi pare un’altra di quelle situazioni in cui invece di pensare a lavarsi per bene ci si spruzza di profumo per nascondere la puzza

  17. Scusate se insisto sulla cornice. Scena 1. Esterni. Perugia. Proprietario di un negozio di Kebab parla con un suo cliente. Sono in chiacchiere amichevoli. Il cliente chiede: da dove viene? Il proprietario risponde: sono marocchino. A questo punto interviene un terzo cliente (in attesa) e redarguisce il proprietario del ristorante dicendogli che non deve denigrare se stesso. Egli, giustamente non capisce e si arrabbia. Fa: scusi, ma io vengo dal Marocco ergo sono marocchino. Scena 2. Pagina di giornale nazionale/locale/ titolo “rumeno clandestino alla guida ubriaco uccide due italiani. Dove è evidente che il punto è la guida senza patente – da qualunque parte del mondo tu venga, qualunque sia il tuo status giuridico. Nel caso 1 il cliente era “malato” di correttezza politica. Nel caso due il titolista è un irresponsabile seminatore di intolleranza o, nel migliore dei casi, un ignorante. Fate voi.

  18. Se barbara è la barbara che conosco ho un trauma da disaccordo:)))
    La questione credo è nella funzione pedagogica che secondo me ha innegabilmente, il prurito politicamente corretto. E’ vero che ci sono contesti legittimi in cui usare certe parole – per esempio clandestino, e che ne so – nomade. Che so, per parlare di Bruce Chatwin che ci aveva i raptus viaggerelli nomadismo è uno stato dell’anima.
    Però è chiaro che qui la faccenda è un’altra: la faccenda è che i sentimenti si attaccano ai suoni collettivi, i suoni collettivi li tirano fuori, li nobilitano. Io non sono convinta che zingaro per esempio sia usato sempre con quell’intento, ma marocchino non di rado: e si capisce dal fatto che marocchini so tutti gli extracomunitari – con una bella presa per i fondelli della loro origine reale. Allora è come se limitare l’uso di certe parole, specie nel contesto della carta stampata servisse a limitare l’elicitazione di certi sentimenti e a codificarli in una maniera diversa.

  19. Si Supermambanana io per molto tempo l’ho pensata come te. Poi ho incontrato amici che erano vissuti a lungo negli Stati uniti, e insomma secondo loro – e anche secondo me visitando il Nord America – la sostituzione delle parole un suo effetto l’ha generato. La sostituzione delle parole è di per se un messaggio che secondo me arriva a monte. Naturale che non risolve tutto – ma secondo me un po’ fa.

  20. zauberei, io ci vivo in america, e ti confermo che la sostituzione delle parole ha avuto effetti forti. Ma comici. non esistono piu’ ragazzi handicappati, ma sono “special needs”. Non esistono bianchi e neri, ma caucasian e african american (anche se magari sei nero, e non sei afroamericano). non esistono piu’ cinesi o tailandesi: tutti asian american.
    Le parole sono importantissime, si’. Ma la svolta la si fa insegnandole tutte, e spiegando di tutte il significato. Cosi’ che ognuno poi se le sceglie accortamente, e ne e’ poi responsabile personalmente. Bandirle e’ non solo e non tanto un atto di censura, quanto una cosa ridicola secondo me.

  21. tramite il piccolo giornale che dirigo ho raccolto fondi per far operare una “bimba rumena” e ho pubblicato in prima pagina, tempo fa, la testimonianza di una donna malata di cancro che, essendo sola, ringraziava i “miei vicini di casa, marocchini”.
    e ho una collaboratrice marocchina che va a testa alta di esserlo e poitrei continuare.
    sono d’accordo con barbara, giulia, giorgia vezzoli
    piuttosto.
    nei pezzi di cronaca nera io specifico sempre: extracomunitari, rumeni, italiani.
    e piuttosto ancora.
    i giornali dovrebbero spiegare un po’ di più perché la cronaca giudiziaria sembra essere monopolizzata dagli extracomunitari: perché andando di direttissima in direttissima le procure dimostrano la loro efficienza.
    e nelle direttissime finisce la microcriminalià…
    son tante le cose da fare e da dire prima di cambiare termini che poi la gente è stanca e i bidelli li chiama ancora bidelli e se io avessi fatto il bidello vorrei essere chiamato bidello.
    (ho fatto il portiere di notte infatti, anni fa; receptionista?, no grazie)
    ps clandestino è un termine stupendo, dai connotati solo positivi, non foss’altro perché rievoca la resistenza

  22. In America sono vissuta anch’io, essendoci nata e cresciuta; anche se non pretendo certo di parlare per tutti gli americani, non vedo niente di ridicolo in “African-American”. A differenza di “black” (tuttora in uso e per niente dispregiativo – se non come sostantivo – semplicemente più informale) indica con più precisione non una “razza” ma un’intera storia e cultura, qualcosa che non si limita al colore della pelle, che infatti può essere molto chiaro. E non vedo perché dovrei chiamare “Chinese” un “Chinese-American” (non si dice solo “Asian-American”) la cui famiglia è in Usa da generazioni, una persona che probabilmente non è mai stata in Cina.
    Se extracomunitario e clandestino sono parole come altre, perché praticamente ogni volta che mi è capitato di chiamarmi extracomunitaria o clandestina (quando ancora non avevo il pds), ho provocato fragorose risate? “Ahahahah, ma daiiii, tu non sei extracomunitaria!” Se nomade è una parola come un’altra, perché un’intera politica dei campi concepiti per permanenza temporanea ci è stata costruita intorno, segregando per finti motivi culturali persone che nei paesi d’origine erano sedentarie da generazioni?
    Per me comunque la questione non si ristringe all’uso di termini orrendi come “vu cumprà” o alla creazione di un legame nell’immaginario comune, a forza di ripetizione, tra straniero-criminalità. Quando quelle tre donne sono annegati in un sottopasso a Prato il mese scorso, erano davvero poche le testate che non hanno precisato “cinesi” nei titoli. Ora, la loro nazionalità è un dato di fatto, si può benissimo citarla per dare un’immagine più completa, anche se l’omissione dei loro nomi (che da soli sarebbero stati un indizio della loro nazionalità) in molti articoli mi faceva dubitare che i giornalisti tenessero tanto a offrire un ritratto completo delle vittime. No, l’impressione che ho avuto da questi titoli era: “Sono morte tre donne, ma tranquilli, erano cinesi. Nessuno che conosci”.

  23. nel “Salviamo la vita dei cristiani in Iraq e nel mondo” esposto al pirellone percepisco una discriminazione inquietante,visto che non ho particolari motivi per avercela con i seguaci dello sciamanesimo da qualsiasi parte essi provengano,qualsiasi culto professino.Ne muoiono di continuo

  24. La confusione è somma sotto questi cieli. La sciatteria verbale, lungi dall’essere una questione di Crusca, la ritengo snodo cruciale in ogni società che si ritenga democratica.

  25. Attenzione però agli involontari (ma ne siamo certi?) razzismi del politicamente corretto. Se è vero quello che dice “Tuscan Foodie in America” qualcuno mi spieghi perché dico “African American” ma dico “Caucasian”, al posto di “Euro American” o “Caucasian American”. Tranne i nativi americani tutti gli altri vengono da altre parti del mondo, compresi i “Caucasian”. Certo, ci sono gli “Italian American”. Ma allora perché non ci sono gli “English American”?

  26. i moralisti non servono a niente signori belli. vorrei vedere chi tra questi bei farcitori di frasi metterebbe suo figlio in un palazzo di extracomunitari. ci sono vari tipi di razzismo, ma peggio dell’ipocrisia degli ipercorrettismi non c’è assolutamente nulla.

  27. @gianni biondillo: per una serie di motivi. Gli inglesi sono venuti in massa nel settecento; non ci sono stati ondate di forte immigrazione dall’Inghilterra nell’ottocento-novecento, come dall’Italia, l’Irlanda, ecc. (infatti si dice Irish-American, Italian-American e altre cose ancora). I WASP si mescolavano via via con altri bianchi, non vivevano in ghetti separati; ricchi o poveri, non hanno mai passato un periodo di discriminazione per la loro appartenenza etnica e quindi non avevano motivi (segregazione di fatto, il bisogno d’appoggio da una comunità) per portare avanti tradizioni culturali del paese d’origine. Io ho antenati principalmente tedeschi, emigrati nel settecento, mescolati con francesi, qualche irlandese, qualche cherokee. E tanti, tanti americani bianchi sono come me: un miscuglio che c’entra ben poco con la Mayflower. Certo, anche la maggior parte degli afroamericani non hanno solo antenati africani. Ma la “one-drop rule”, per cui chi avesse anche un solo antenato africano veniva considerato nero (e stiamo parlando del novecento, eh) ha avuto un fortissimo impatto sulla cultura afroamericana e americana in generale. In questo la storia statunitense è molto diversa da altri paesi multirazziali come il Brasile, per esempio. Neanche il Sudafrica dell’apartheid arrivava a questi livelli. E allora, perché non smetterla con le categorie e chiamarci tutti americani e basta? Sarebbe bello, ma non viviamo in una società post-razziale, per niente. Fare finta che gruppi svantaggiati non esistono, fare finta che gli afroamericani non sono stati e non siano in una posizione del tutto particolare, diversa perfino da altri gruppi con la pelle scura, non aiuterà a risolvere la situazione, ed è per questo che “African-American”, con il suo riferimento storico, mi sembra un termine per niente ridicolo. Non che “black” sia inappropriato, ma è più vasto: bisogna tener conto, per esempio, che molte persone afrocaraibiche si identificano sì come nere, ma non come afroamericani. Perché è un’altra storia, con altre tradizioni culturali.
    Quanto ai bianchi, è solo da poco che si comincia a riconoscere che esista una cultura euroamericana con tratti propri; prima il bianco era il neutro, lo standard, quello che non è Altro, il “vero americano”. Quella categoria alla quale est-europei, irlandesi, italiani lentamente accedevano assimilandosi. Quindi sì, mi andrebbe benissimo se “European-American” (infatti esiste) diventasse un termine sempre più diffuso e “bianco” lentamente sparisse – come categoria di potere. Ma ancora ci vorrà un bel po’.

  28. a proposito di neri, negri, blacks e niggers negli Stati Uniti. La parola “nigger” è considerata razzista (e vietata in tv e al cinema e dappertutto) se pronunciata da un bianco che si rivolge a un nero. I neri, però, la usano normalmente tra loro, in senso dispregiativo o scherzoso: “Yo, nigger”. (Ho visto da poco la meravigliosa serie tv “The Wire”, dove è ammessa perché detta da neri a neri) Al contrario, la parola “cracker” che i neri usano in senso dispregiativo per i bianchi non è considerata razzista e non è vietata. Questo fa abbastanza girare le scatole all’utente Damyankee di “Urban Dictionary” – dizionario di slang online – che nella sua definizione di “Cracker” scrive:
    “Un insulto razzista usato dai neri contro i bianchi, che a quanto pare va bene, mentre noi non possiamo difenderci e chiamarli negri o ‘darkies’, perché è illegale. Il razzismo contro i bianchi resta sempre razzismo, ragazzi. E’ questione di buonsenso. Se i neri si credono meglio degli altri, sbagliano”.
    .
    Per quanto riguarda i giornalisti, se ognuno di loro si impegna a ‘scrivere pulito’, mi sembra una buona cosa. Ambulante è sicuramente meglio di vucumprà (tra le parole che compaiono nella lista linkata). Ma compilare liste di parole vietate o da vietare non mi quadra come impostazione generale.

  29. Non si tratta né di moralismo né di liste della spesa di parole vietate: piuttosto di pensare bene alla storia dietro le parole – o al contesto in cui vengono usate (es. extracomunitario mai usato per gli svizzeri, la nazionalità straniera solo in certe notizie etc.etc.)
    L’articolo linkato spiega bene che non si tratta di forma ma di senso e contenuto.
    Consiglio a chi fosse interessato al tema “Lessico del razzismo democratico” di Giuseppe Faso (Ed. Derive e Approdi).

  30. Jo, hai implicitamente confermato il mio dubbio. Ti ringrazio per la risposta articolata.
    Daniz, non ho capito il tono della tua affermazione. Io ci vivo in un quartiere di extracomunitari (che abitano anche nel mio condominio). E allora?
    Forse, diana, la questione è quella esposta più su da zauberei. Anch’io, in generale, ho problemi con i divieti censori. Ma la responsabilità personale esiste e bisogna imparare ad usarla.

  31. @gianni. Senz’altro, la responsabilità personale. @daniz. in certi ipercorrettismi c’è molta ipocrisia, concordo. Se ho capito il senso del tuo intervento:. devono essere i fatti a parlare, e quindi la responsabilità personale. (Non i divieti)

  32. “questi bei farcitori di frasi” per usare un’espressione che ho letto poco sopra sono persone che con gli stranieri ci lavorano e convivono quotidianamente.
    Perché dare di ipocrita a qualcuno senza sapere di chi si sta parlando?
    E cosa c’entra la censura con il fare un uso ragionato delle parole?

  33. Magari ci fosse un’assunzione di responsabilità e un comportamento “mentale” decoroso, che togliesse alibi a parole “controverse” (altro che politicamente corretto snob di alcuni termini che non significa nulla poi nel vivere civile!). Le parole sono importanti, ma è assai limitativo fermarsi ad esse, come novelle Donne Letizia, se gli schemi mentali non cambiano. PPP odiava la parola “gay”, ad esempio, ma non ne avrebbe voluta una di ricambio.
    Nessuna parola classificatoria, ma nessuna censura (quindi recchione gli dava quasi meno fastidio). Scorrendo i commenti molti danno personali pareri o idiosincrasie a parole troppo usate o a parole ambigue. A me non piace questa o quella, il tutto condito dal “giacché non siam razzisti e mai lo saremo”. Rosellina Balbi avrebbe scritto che si sta commentando la “fuffa”

  34. Molti degli interventi postati muovono da un presupposto che, come dice uno di loro,bisogna chiamare le persone “Appunto, con il loro vero nome, mica con sinonimi coniati appositamente. E d’altra parte, se una persona è extracomunitaria o nomade o no global, come dobbiamo chiamarla?”. Come se si dicesse: alcuni nomi sono veri, originari, validi a priori. Chi li ha attribuiti: Dio? oppure ogni cosa si porta il suo cartellino, ben visibile, regalato da madre natura?
    Chiamiamo nomadi degli stanziali costretti a star chiusi in recinti vicino alle discariche, ed “extracomunitari”, di origine giuridica, non viene più usato nelle leggi dal 1998, ma alcuni ci si sono affezionati, non per indicare uno svizzero o uno statunitense, ma un polacco o un rumeno – che sono giuridicamente “comunitari”. Ci si nasconde, per ingenuità o pigrizia o marasma cognitivo, che siamo responsabili delle parole che adoperiamo, del tono con cui le pronunciamo, della loro posizione nel discorso, eccetera. Molti adolescenti se ne accorgono, nel corso di un micro-conflitto familiare, e hanno imparato quanto posa essere violento e offensivo un enunciato privo di insulti, come “e tu, allora?”. Molti adulti invece se ne dimenticano, ma solo quando si parla di alcune categorie discriminate.

  35. @Giuseppe: appunto per gli adolescenti con il per cento dei sondaggi, questa è fuffa, quasi quanto il questionario proustiano, per gli adulti giustificazionismo e cazzeggio etimologico.
    Giacché son tornato e prima nominavo Rosellina Balbi, il suo “All’erta siam razzisti” libro sempre vivissimo, potrebbe toglier nebbia alle nebbie.

  36. Si potrebbe forse andare oltre il libro, ottimo ma di buon giornalismo del 1989, della Balbi, e accedere a un ragionamento meno autocentrato. E’ stato appena tradotto un libro di Judith Butler, e recensito sull’INDICE dei libri di novembre da Federico Faloppa. Vi si ricorda che chi nomina è responsabile della circolazione e del rinvigorimento di parole performative (cioè che producono effetti, e sono già azione), e che è la sedimentazione del suo uso che dà al nome la sua forza, e alle parole razziste il loro veleno. Non si tratta di censurare, ma di ricordare che chi chiama “clandestino” uno che parte dalla Libia per richiedere asilo, è lui a pervertire la lingua e a mettere in circolazione categorie discriminatorie- e non è chi richiama ad altri usi a inventare sinonimi, come piace immaginare a troppi inerti. Naturalmente, oltre alle parole, ci sono, come dicevo sopra, disposizioni, sintassi, toni, contesti, eccetera. Esistono, per chi volesse, le prime analisi di tali strategie violentemente discriminatorie, è possibile rifletterci sopra.

  37. Non si può prescindere dal proprio background culturale. il puritanesimo linguistico non cambierebbe nulla nella sfera recettiva delle diversità, perché è completamente sbagliata l’impostazione (e imposizione) della faccenda. l’egualitarismo che deriva da certa letteratura progressista-politica, sociale, moralista- ha rullato le diversità, tachipirinizzando i cervelli, lasciandoli nell’obbligo acritico di vedere tutti come fratelli, di vederli identici, di sentirci uguali. è un uso deleterio e scivoloso del menù da bon ton che ci propinano dalla nascita, specie la sinistra da centro sociale.
    i popoli costruiscono i loro sistemi di significato partendo dalla loro fisicità, dalla loro attitudine, dal loro ambiente, dalle loro esigenze biologiche, storiche e avveniristiche. considero delle etnie superiori ad altre in determinati ambiti, e non può essere altrimenti. e siccome la vita non è nulla di rettilineo né assoluto, è inevitabile che difficilmente si possano raggiungere dei pareggi. l’occidente ha perso tutta il suo spiritualismo, consegnato a rodersi dentro la macchinizzazione della vita. ma non venite ad ungermi sul Buon Selvaggio che non se ne può più.

  38. Daniz: Bello! e assai divertente. Ma con chi sta parlando? Che vuol dire “etnia”? Cos’è il puritanesimo linguistico? Come si manifesta? da che cosa si capisce? Su che base si sparano giudizi prima di ragionare? Da dove vengono i fantasmi evocati (l’obbligo acritico, il buon selvaggio; eccetera)? Invece di sparare a casaccio, si potrebbe provare ad argomentare….

  39. Daniz,
    tutta ‘sta pappardella per dire che Lei vuole veder riconosciuto il suo diritto di sentirsi superiore a un negro, e legittimato a gridarlo in una piazza, o affermarlo in una amabile chiacchierata al bar?
    Si sente discriminato, per caso? Invoca la tutela di qualcuno?
    Di una legge? Contro il Buonismo e la Censura?
    L.

  40. daniz scrive: “i popoli costruiscono i loro sistemi di significato partendo dalla loro fisicità, dalla loro attitudine, dal loro ambiente, dalle loro esigenze biologiche, storiche e avveniristiche. considero delle etnie superiori ad altre in determinati ambiti, e non può essere altrimenti. e siccome la vita non è nulla di rettilineo né assoluto, è inevitabile che difficilmente si possano raggiungere dei pareggi.”
    .
    Be’, sì. Molte definizioni considerate “razziste”, poi, sono semplificazioni o generalizzazioni che partono proprio da questo dato di realtà, e servono a risparmiare tempo. Un esempio, nel film “Tra le nuvole”, dove Ryan (George Clooney) spiega alla sua giovane assistente come evitare lunghe file al check in:
    .
    – Ryan: Mai stare dietro gli anziani, hanno le ossa piene di metallo e sembra non apprezzare quanto poco tempo gli sia rimasto. Eccoli, gli asiatici! Sono essenziali, bagaglio leggero e hanno la fissazione per i mocassini, li adoro!
    – Natalie: Questo è razzismo!
    – Ryan: Sono come mia madre mi affido agli stereotipi. Si fa prima.
    .
    Un pareggio di fondo però si può raggiungere. Siamo tutti esseri umani, e le differenze non possono giustificare l’abuso di potere o la violazione dei diritti fondamentali eccetera. Al di là di questo lascerei a ognuno la libertà di scegliere in modo responsabile il proprio armamentario linguistico, e alle controparti di fare altrettanto (per difendersi e contrattaccare). Meritoria quindi l’iniziativa dei giornalisti. Preferirei che non diventasse legge, divieto, regolamento, provvedimento rieducativo, eccetera. Ma è solo una mia opinione personale.

  41. Ecco che i centri sociali iniziano a ribollire! su, fuori le kefie!
    l’etnocentrismo è la tendenza di ogni cultura a sentire la propria identità superiore alle altre. siamo tutti etnocentrici. tutti. anche quelli che fanno finta di entusiasmarsi delle bacchette dei cinesi o del cuscus. Ernesto De Martino gettò le basi dell’etnocentrismo critico per cercare di arginare il fenomeno, tramite il contatto colle altre culture. io non voglio sentirmi superiore ad un negro o ad un superbianco o a un cinese. pongo però delle differenze, che per fortuna ci sono, senza voler relegare un popolo alla primordialità dell’evoluzione e un altro al suo apice, anche perché è cosa impossibile. ma rimarco l’esistenza di una serie infinita di differenze che il modo ‘progresista’ appiattisce, con superficialità ed ipocrisia.
    ora se volete strumentalizzare le parole degli altri, fatelo almeno entro i limiti della decenza perché non ho assolutamnete scritto quello che riportate voi(luca e giuseppe)

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