“Nessuna definizione calza meglio dello slogan che Fortini diede di se stesso nel 1973: «Letterato per i politici, ideologo per i letterati»”, scrive Giuseppe Lupo sul Sole24ore, in uno dei tanti ricordi e ritratti fortiniani che ricordano i vent’anni, oggi, dalla sua morte.
Celebrati dall’arrivo in libreria (evviva e finalmente) del volume Mondadori che rimette in circolazione la sua opera ormai scomparsa, (Tutte le poesie, a cura di Luca Lenzini).
Questo- la sparizione fortiniana – era il motivo che mi spinse, nella primavera di due anni fa, a iniziare a postare su Facebook e Twitter, tutte le sante sere, una poesia di Fortini. Per tornare a farle circolare, e far conoscere uno dei maggiori poeti italiani a chi ne ignorava il nome.
Tante sono le occasioni di ricordo in questi giorni, e mi rallegrano il cuore. Dall’editoriale di Internazionale dove Giovanni De Mauro cede la parola a una delle poesie più belle, Traducendo Brecht, alle iniziative di Memorie per dopodomani, tra Firenze e Siena, agli articoli su quotidiani e riviste.
Cosa posso aggiungere io, ultima tra i fortiniani, di certo non accademica ma lettrice di passione e consonanza? Lo scritto che ho più caro, non poetico, ma implacabile e vero, così vero oggi, anche dopo vent’anni.
La sua ultima lettera, che ho già pubblicato un’altra volta. Ma è il suo testamento politico e di intellettuale, e credo sia giusto leggerla ancora. Eccola
Franco Fortini
Milano, 5 novembre 1994
Cari amici, non sempre chiari compagni; cari avversari, non invisibili agenti e spie; non chiari ma visibili nemici. Sapete chi sono. Non sono mai stato né volteriano né liberista di fresca convinzione. Spero di non dover mai stringere la mano né a Sgarbi né a Ferrara né ai loro equivalenti oggi esistenti anche nelle file dei “progressisti”. Non l’ ho fatto per mezzo secolo. Perché dovrei farlo ora? Nessuna “unità” anni Trenta. Meglio la destra della Pivetti.
Ognuno preghi i propri santi e dibatta con gli altrui. Tommaso d’ Aquino, Marx, Pareto, Weber, Croce e Gramsci mi hanno insegnato che la libertà di espressione del pensiero, sempre politica, è sempre stata all’interno della cultura dominante anche quando la combatteva. Tutt’intorno ai suoi confini, però, c’erano, lungo i secoli, miliardi di analfabeti, inquisizioni mistiche o, a scelta, grassi doberman accademici, reparti speciali di provocatori incaricati di picchiare i tipografi e distruggere i manoscritti.
Ci sono manuali per l’uso della calunnia nel management della comunicazione, lupare bianche, colpi alla nuca; o, nel più soave e incruento dei casi, la damnatio memoriae, il nome omesso o deformato, la associazione indiretta con qualche notorio cialtrone.
Ma ci sono momenti in cui il solo modo serio di dire “noi” è dire “io”. La prima persona, quel qualcosa che viene dopo la firma. Questo è uno di quei momenti.
Bisogna spingere la coscienza agli estremi. Dove, se c’è, c’è ancora per poco. Quando non si spinge la coscienza agli estremi, gli estremismi inutili si mangiano lucidità e coscienza.
Chi finge di non vedere il ben coltivato degrado di qualità informativa, di grammatica e persino di tecnica giornalistica nella stampa e sui video, è complice di quelli che lo sanno, gemono e vi si lasciano dirigere. Come lo fu nel 1922 e nel 1925.
Non fascismo. Ma oscura voglia, e disperata, di dimissione e servitù; che è cosa diversa. Sono vecchio abbastanza per ricordare come tanti padri scendevano a patti, allora, in attesa che fossero tutti i padri a ingannare tutti i figli. Cerchiamo almeno di diminuire la quota degli ingannati. Ripuliamo la sintassi e le meningi. Non scriviamo un articolo al giorno ma impariamo a ripeterci, contro la audience e i contratti pubblicitari. Diamo esempi di “cattiveria” anche a quei lavoratori che dai loro capi vengono illusi di battersi attraverso le strade con antichi striscioni e poi, nel buio della Tv, ridono alle battute dei pagliaccetti di Berlusconi.
Lungo canali di storica vigliaccheria mascherata di bello spirito i colleghi della comunicazione stanno giorno dopo giorno cambiando o lasciando cambiare i connotati dei quotidiani; in attesa che se ne vadano quei pochissimi direttori che non hanno già concordato o “conciliato”.
Quanto a me, solo l’ età mi scampa dal dovermi dimettere. Mai come oggi, credo, il massimo della flessibilità tattica del politico vero dovrebbe andar d’accordo con la rigidità delle scelte di fondo. Un modesto zapping basta a capire che è inutile declamare estremisticamente, come ora sto purtroppo facendo.
Bisogna dire di no; ma c’è qualcosa di più difficile e sto cercando di farlo: dire di sì in modo da non nascondere il “no” di fondo; se si crede di averlo e saperlo.
Pagare di persona, secondo le regole del finto mercato che fingiamo di accettare: ossia dimettersi o costringere altrui alle dimissioni, ritirare o apporre le firme e le qualifiche e il proprio passato, affrontare sulla soglia di casa o di redazione le bastonature fisiche o morali già in scadenza.
Anni fa scrissi, enfaticamente, che il luogo del prossimo scontro sarebbero state le redazioni. Quel momento è venuto, il luogo è questo.
Chi tiene famiglia, esca. Chi ha figli sappia che un giorno essi guarderanno con rispetto o con odio alle sue scelte di oggi.
Scade il primo semestre di chi ha preso il potere, come tanti altri, legalmente, coi voti di un terzo degli elettori, ossia giocando con la manovra della informazione e la debilita’ culturale ed economica di tanti nostri connazionali e, perche’ no, con la nostra medesima.
Cari amici, non sempre chiari compagni; cari avversari, non sempre invisibili agenti e spie; non chiari ma visibilissimi nemici, vi saluta un intellettuale, un letterato, dunque un niente. Dimenticatelo se potete.
Implacabilmente vero.
Tra le molte valide, trovo attualissima questa considerazione:
“Mai come oggi, credo, il massimo della flessibilità tattica del politico vero dovrebbe andar d’accordo con la rigidità delle scelte di fondo.”
Quanto all’individuazione di tali scelte, la democraticità mi sembra essenziale. Per riconoscerla consiglierei la rilettura di un altro (diverso) intellettuale, Bobbio.