Nello scorso luglio, raccontando la storia del NoTav Marco Bruno, i Wu Ming hanno dato questa definizione di “narrazione tossica”:
“Per diventare “narrazione tossica”, una storia deve essere raccontata sempre dallo stesso punto di vista, nello stesso modo e con le stesse parole, omettendo sempre gli stessi dettagli, rimuovendo gli stessi elementi di contesto e complessità.
E’ sempre narrazione tossica la storia che gli oppressori raccontano agli oppressi per giusticare l’oppressione, che gli sfruttatori raccontano agli sfruttati per giustificare lo sfruttamento, che i ricchi raccontano ai poveri per giustificare la ricchezza”.
C’è una macronarrazione tossica in cui siamo impigliati da anni, ed è quella economica, che ci ha abituati a ragionare solo in termini finanziari con cui non abbiamo neppure dimestichezza: ascolto, nei disperanti viaggi nella metropolitana romana, discussioni dove le parole bond, spread, disavanzo, cuneo fiscale sono predominanti. Leggo, giusto oggi, della soddisfazione di Confindustria per la decisione del Tar del Veneto (che ha sospeso i vincoli introdotti dalla Capitaneria di Porto per limitare il transito delle grandi navi da crociera a Venezia): “i fattori economici e occupazionali sono diventati parte integrante della valutazione”, ha detto – si suppone con la citata soddisfazione – Matteo Zoppas, presidente confindustriale del Veneto.
Fattori economici e occupazionali: gli stessi che vengono tirati in ballo per il Tav in Val di Susa e per l’altro e silenzioso scempio che si sta compiendo fra Marche e Umbria con la costruzione della Quadrilatero. Il fattore economico, nei casi citati, significa distruggere un patrimonio artistico o paesaggistico per un vantaggio immediato, e le generazioni che verranno si arrangino pure, tanto saremo già morti, o vivi, centenari e indubbiamente soddisfatti. Quello occupazionale è tutto da vedere: un paio d’anni fa, Stefano Rodotà ricordava che la dignità umana viene violata “quando si capovolge il rapporto tra principio di dignità e iniziativa economica, attribuendo a quest´ultima un valore prevalente, come si cerca di fare oggi in Italia. L´esistenza “libera e dignitosa”, di cui parla l´articolo 36 della Costituzione, viene negata quando una considerazione tutta efficientistica del lavoro affida la vita delle persone al potere dell´economia, consegnandola alla logica della merce”.
In altre parole, noi stiamo pensando solo nella logica di quel potere, dimenticando che la vita degli esseri umani, e soprattutto la vita in una comunità, è costituita da molti fattori. Questo pensavo e penso, leggendo da svariati giorni le reazioni sulla non attuazione della legge 194 sull’interruzione di gravidanza: e che vuoi farci, adesso, con l’aborto? Non è il momento di pensare a questo.
Alla fine degli anni Settanta, quando i movimenti delle donne e i radicali si battevano per la depenalizzazione dell’aborto, l’allora Pci diceva esattamente la stessa cosa: non è mica il momento, le priorità sono altre. L’argomentazione è quasi identica, e viene opposta oggi a chi parla non solo di diritto di scelta nel diventare madre (e se si è infertili è quasi impossibile, grazie alla spaventosa legge 40) o nel non diventarlo, ma anche di diritto a veder riconosciuto come tale il proprio compagno o compagna, a qualunque genere sessuale appartenga, o il diritto a morire con dignità. O il diritto a non morire per mano di un ex compagno abbandonato: e non è certo con la repressione, come si è visto, che questo avviene, ma con un progetto più lungo e mirato che inizia dalle scuole dell’infanzia. O, ancora, il diritto a un’istruzione che non sia volta soltanto a “creare lavoro”: ma a creare, prima di tutto, cittadini. O, infine (ma la fine non c’è, e troppo lungo sarebbe l’elenco), il diritto e il dovere di preservare la bellezza di cui ci si riempie la bocca in occasione degli Oscar: ma che viene distrutta sotto i nostri occhi, in val di Susa come nelle Marche come a Venezia.
Non è il tempo giusto, ci viene detto. Sono altre le priorità, ci vien detto. E ancora una volta ha ragione, allora, Stefano Rodotà quando scrive, come ha fatto stamattina su Repubblica, che “i diritti fondamentali sono scomparsi dall’orizzonte parlamentare, dove le poche leggi approvate sono state ideologiche e repressive” e che oggi “la politica appare come l’ancella dell’economia, è declassata ad amministrazione, è affidata alla tecnica”, in Italia come in Europa “dove la Carta dei diritti fondamentali è stata cancellata, malgrado abbia lo steso valore giuridico dei trattati”.
Non esistono tempi diversi: esiste un solo tempo, che mette i diritti in primo piano anche perchè l’economia non si appiattisca sulla tecnica. Bisogna, anche, raccontarli. Questa mattina, prima di infilarmi nella solita metropolitana romana e trascorrere un’ora e mezza fra disperazione, ritardi, finti guasti tecnici, proteste bianche e rabbia rassegnata, ho riletto velocemente le prime pagine di “Mucchio d’ossa” di Stephen King. Cosa c’entra un romanzo, per di più di genere, con la politica? Molto, come tutti i romanzi belli: perché King racconta in poche righe il matrimonio del protagonista con una moglie che avrebbe perso in giovane età. E dice (cito a memoria, e chiedo perdono in anticipo) che la più grande benedizione era stata quella di non sapere quanto il loro tempo fosse breve.
Ecco, il tempo è sempre breve: saperlo può essere fonte di dolore o di speranza. Sperare per il tempo degli altri, lavorare per il tempo di chi verrà dopo di noi significa sperare in altre narrazioni, altre politiche, altre priorità.
Per il futuro, in una parola. Cominciamo a pronunciarla più spesso.
Teorema: Condizione necessaria e sufficiente per avere una narrazione tossica è la presenza di almeno un luogo comune o stereotipo.
Corollario: l’ invariabilità della narrazione tossica deriva dalla presenza di luoghi comuni e stereotipi, che per definizione non sono modificabili.
Si possono modificare, ma a costo di un lungo lavoro: che va almeno cominciato 🙂
Si possono eliminare 🙂
non so se cambiando testata ha pure cambiato genere,ma ricordo sul crinale degli anni 90 gli ottimi articolo sull’espresso di Gelminello Alvi,in cui si parlava di come gli anziani trascorressere il tempo libero guardando gli schermi affacciati sulla piazza che trasmettevano dati concernenti borsa e pronti contro termine,e del fatto che se non avessimo trovato modo di cambiare rotta, sarebbe finita male
@diamonds: sì, però Geminello Alvi era quello che fin dagli anni ’90, sempre su “L’Espresso”, proponeva di tagliare pesantemente la spesa pensionistica, abolendo fra l’altro le pensioni di anzianità e incentivando i fondi pensione privati sul modello U.S.A. Del resto il periodico su cui Alvi scriveva era all’epoca (non so adesso) piuttosto filoliberista, e fiducioso nelle magnifiche progressive sorti del capitalismo finanziario. Secondo me non era una posizione molto lungimirante.
Vivo all’estero e l’altro giorno intervistavano in TV il ministro francese “dell’Ecologia, dello sviluppo sostenibile e dell’energia”. Mi ha fatto venire in mente che questi temi in Italia non sono centrali, della serie “le priorità sono altre”. Ho pensato che il concetto stesso di sviluppo sostenibile implica una capacita’ di riflettere su un orizzonte temporale ampio, proiettato nel futuro. In Italia l’orizzonte temporale e’ completamente appiattito sul presente e sulle emergenze del presente.
Nei punti che ho citato non mi e` sembrato cosi` orbo.probabilmente ,e non a caso,io mi riferivo all`espresso diretto da rinaldi,la cui linea editoriale non ricordo sostenesse le posizioni che dici. Poi di sicuro mi e` sfuggito qualche la,visto che in sostanza alcune posizioni espresse dal gruppo editoriale di cui ciarliamo,nell`ultimo decennio mi hanno lasciato piuttosto perplesso