Succede questo. Due giorni fa Franco Berardi (Bifo) pubblica una nota su Facebook che riporto più sotto. E’ un’analisi sul lavoro? Anche. E’ soprattutto una riflessione sull’infelicità collettiva, e sul punto di non ritorno a cui ci ha spinto, scrive Bifo, l’idea del mondo neoliberista, che ci vuole competitivi ed efficienti. Per me, una riflessione importante, e in moltissima parte corretta. Apriti cielo. Su Facebook fervidi scrittori hanno dato a Bifo del pazzo fanatico, e non sono pochi quelli che hanno giudicato le sue parole come inaccettabili. Le sottopongo di nuovo qui, perché mi piacerebbe capire quale nervo scoperto abbiano toccato per suscitare reazioni così violente.
NELLA CABINA DI PILOTAGGIO
di Franco Berardi
Dicono che il giovane pilota Andreas Lubitz avesse sofferto di crisi depressive e avesse tenuto nascoste le sue condizioni psichiche all’azienda per cui lavorava, la Lufthansa. I medici consigliavano un periodo di assenza dal lavoro. La cosa non è affatto sorprendente: il turbo-capitalismo contemporaneo detesta coloro che chiedono di usufruire dei permessi di malattia, e detesta all’ennesima potenza ogni riferimento alla depressione. Depresso io? Non se ne parli neanche. Io sto benissimo, sono perfettamente efficiente, allegro, dinamico, energico, e soprattutto competitivo. Faccio jogging ogni mattina, e sono sempre disponibile a fare straordinario. Non è forse questa la filosofia del low cost? Non suonano forse le trombe quando l’aereo decolla e quando atterra? Non siamo forse circondati ininterrottamente dal discorso dell’efficienza competitiva? Non siamo forse quotidianamente costretti a misurare il nostro stato d’animo con l’allegria aggressiva delle facce che compaiono negli spot pubblicitari? Non corriamo forse il rischio di essere licenziati se facciamo troppe assenze per malattia?
Adesso i giornali (gli stessi giornali che da anni ci chiamano fannulloni e tessono le lodi della rottamazione degli inefficienti) consigliano di fare maggiore attenzione nelle assunzioni. Faremo controlli straordinari per verificare che i piloti d’aereo non siano squilibrati, matti, depressi, maniaci, malinconici tristi e sfigati. Davvero? E i medici? E i colonnelli dell’esercito? E gli autisti dell’autobus? E i conducenti del treno? E i professori di matematica? E gli agenti di polizia stradale?
Epureremo i depressi. Epuriamoli. Peccato che siano la maggioranza assoluta della popolazione contemporanea. Non sto parlando dei depressi conclamati, che pure sono in proporzione crescente, ma di coloro che soffrono di infelicità, tristezza, disperazione. Anche se ce lo dicono raramente e con una certa cautela l’incidenza delle malattie psichiche è cresciuta enormemente negli ultimi decenni, e il tasso di suicidio (secondo il rapporto del World Health Organization) è cresciuto del 60% (wow) negli ultimi quarant’anni.
Quaranta anni? E che potrà mai significare? Che cosa è successo negli ultimi quarant’anni perché la gente corra a frotte verso la nera signora? Forse ci sarà un rapporto tra questo incredibile incremento della propensione a farla finita e il trionfo del Neoliberismo che implica precarietà e competizione obbligatoria? E forse ci sarà un rapporto anche con la solitudine di una generazione che è cresciuta davanti allo schermo ricevendo continui stimoli psico-informativi e toccando sempre di meno il corpo dell’altro? Non si dimentichi che per ogni suicidio realizzato ce ne sono circa venti tentati senza successo. E non si dimentichi che in molti paesi del mondo (anche in Italia) i medici sono invitati a essere cauti nell’attribuire una morte al suicidio, se non ci sono prove evidenti dell’intenzione del deceduto. E quanti incidenti d’auto nascondono un’intenzione suicida più o meno cosciente?
Non appena le autorità investigative e la compagnia aerea hanno rivelato che la causa del disastro aereo sta nel suicidio di un lavoratore che ha sofferto di crisi depressive e le ha tenute nascoste, ecco che in Internet si è messo in marcia il solito esercito di cospirazionisti. “Figuriamoci se ci credo”, dicono quelli che sospettano il complotto. Ci deve essere dietro la CIA, o forse Putin, o magari semplicemente un gravissimo errore della Lufthansa che ci vogliono tenere nascosto. Un vignettista che si firma Sartori e crede di essere molto spiritoso mostra un tizio che legge il giornale e dice: “Strage Airbus: responsabile il copilota depresso.” Poi aggiunge: Fra poco diranno che anche l’ISIS è fatta da depressi.”
Ecco, bravo. Il punto è proprio questo: il terrorismo contemporaneo può avere mille cause politiche, ma la sola causa vera è l’epidemia di sofferenza psichica (e sociale, ma le due cose sono una) che si sta diffondendo nel mondo. Si può forse spiegare il comportamento di uno shaheed, di un giovane che si fa esplodere per uccidere una decina di altri umani in termini politici, ideologici, religiosi? Certo che si può, ma sono chiacchiere. La verità è che chi si uccide considera la vita un peso intollerabile, e vede nella morte la sola salvezza, e nella strage la sola vendetta. Un’epidemia di suicidio si è abbattuta sul pianeta terra, perché da decenni si è messa in moto una gigantesca fabbrica dell’infelicità cui sembra impossibile sfuggire. Quelli che dappertutto vedono un complotto dovrebbero smetterla di cercare una verità nascosta, e dovrebbero invece interpretare diversamente la verità evidente. Andreas Lubitz si è chiuso dentro quella maledetta cabina di pilotaggio perché il dolore che sentiva dentro si era fatto insopportabile, e perché accusava di quel dolore i centocinquanta passeggeri e colleghi che volavano con lui, e tutti gli altri esseri umani che come lui sono incapaci di liberarsi dall’infelicità che divora l’umanità contemporanea, da quando la pubblicità ci ha sottoposto a un bombardamento di felicità obbligatorio, da quanto la solitudine digitale ha moltiplicato gli stimoli e isolato i corpi, da quando il capitalismo finanziario ci ha costretto a lavorare il doppio per guadagnare la metà.
Boh, io quando sono arrivato alla frase: “non sto parlando dei depressi conclamati”, ho smesso di leggere. Perché lì casca tutto, si vedono i fili che reggevano l’impalcatura retorica del discorso, e si capisce quanto sia pretestuoso. Non c’era bisogno di questo pretesto per scrivere contro l’efficienza e il mito della felicità (magari ci fosse), basta camminare lenti (Bianciardi) o sedersi sulle panchine per raccogliere il non-sguardo della gente che corre. Il pilota o simile che dà occasione a Bifo di imbastire questo discorso era più che un depresso conclamato, e anzi il, suo modo di agire era del tutto omogeneo alle utopie e ai simulacri che ci falsificano e stravolgono la vita. Sarebbe come dire che Berlusconi è una vittima del consumismo, anzi, della pubblicità. (Franco, occorre inventare delle enunciazioni nuove, non fare enunciati banali in forme e occasioni vecchie e pretestuose!). Quanto alla felicità, magari se ne parlasse, magari ci fosse un afflato collettivo di felicità, perché è vero il contrario, viviamo – galleggiamo malamente – in un oceano di distrazioni dalla infelicità, per non vederla, per non sentirla, per non andare oltre
Bifo scrive di depressione e disagio psichico da 40 anni, potrebbe fornire una propria bibliografia ed elencare un’intera biblioteca di letture. Una delle più importanti riflessioni critiche su Deleuze e Guattari che ha fatto (lui che li ha introdotti in Italia, e che ne è uno dei maggiori conoscitori), è di avere, Deleuze e Guattari, lavorato poco sulla sofferenza. Questo per dire che le sue brevi righe non sono l’alzata di testa di uno che se non riempie la bacheca e non conta i like non sa come svoltare la giornata. Ci sarebbe piuttosto da riflettere sull’immagine del pilota “sano”, immune da problemi, disturbi, disagi. I sistemi di sicurezza prevedevano ogni eventualità rispetto all’uomo nero “esterno” (tre diverse possibilità di blocco della porta, per dire), ma non consideravano possibile che l’uomo nero potesse essere dentro uno dei piloti. Eppure non ci vuol molto a trovare un elenco di disastri aerei provocati dalla volontà suicida del pilota (qui quello dell’Aviation Safety Network, qui un riassunto di Repubblica): di fatto, i suicidi sono più frequenti dei dirottamenti, eppure le misure di sicurezza non ne contemplavano l’eventualità. Bifo ci chiede di riflettere su una condizione di disagio che è parte della nostra identità (l’ombra della malattia, la sua perenne possibilità è una componente di quella che chiamiamo “salute), e che le condizioni di vita nelle quali ci troviamo per un verso rimuovono, e per l’altro favoriscono.
scusate, ma Bifo ha dimenticato la terza causa di morte nel mondo che impedisce di vivere la vita, dopo turbocapitalismo e pubblicità: il Vaticano.
Oh, qua poteva starci bene anche un discorso sui lumi e sulla laicità dei francesi, e così ci ricollegavamo a Deleuze et voilà. Moulin Rouge.
Cara Diana, in realtà il Vaticano è in ottima compagnia con tutti i totalitarismi religiosi, cioè con tutte le religioni monoteiste istituzionalizzate e/o politicizzate… non trova?
Il discorso è inaccettabile perchè associa con spericolata leggerezza il tema vero e presente dell’infelicità sociale a un singolo caso di infelicità individuale con conseguenze tragiche. Nè io nè te accetteremo mai il ragionamento di Berardi se fosse applicato ai 130 femminicidi medi annui, e infatti giustamente ci indignamo quando i giornali scrivono “Uccide la moglie, era depresso/stressato/disoccupato” e via giustificando. Perchè dovremmo accettarlo applicato a una strage area, o scolastica, o al mercato del giovedì? Se fosse stato un pezzo che ragiona sull’esponenziale aumento del consumo di psicofarmaci sarebbe stato sensato, ma elevare la lucidità delirante di Lubitz ad apice di una disagio collettivo è una forzatura che fa dubitare dell’onestà intellettuale del ragionamento.
Non mi ricordo chi, un giorno disse che il disastro della nostra civiltà è cominciato con l’introduzione nella Costituzione americana del “diritto alla felicità”, concetto troppo astratto e aperto a molteplici e contraddittorie interpretazioni per poter essere applicato, dunque fonte massima di frustrazione perenne. Sarebbe stato più corretto prevedere un diritto a combattere l’infelicità, cosa che presupporrebbe un atteggiamento positivo e dinamico di reazione alle avversità. Ma quando parliamo di depressione in senso medico tutto questo rischia di passare in secondo piano, visto che esiste anche una forte componente fisiologica a livello neuronale in questa malattia… Per non parlare del problema della sofferenza indotta dalla patologia stessa, come rileva correttamente girolamo.
@Michela Murgia: però i femminicidi hanno una radice culturale e antropologica molto chiara e ben individuabile: uomini che non accettano l’autonomia di una donna che considerano loro proprietà in quanto donna. Infatti la giustificazione giornalistica ricorrente è “delitto passionale” o “di gelosia” più che lo stato di depressione… non so, ma non credo che i due discorsi (quello di Bifo e il tuo) siano sovrapponibili.
Brava! È così. Il “turbo capitalismo” ha a cuore, il “suo” cuore di pietra, quello di strizzare i cervelli senza pietas, rubare la vita, il tempo migliore, tutte le possibilità per provarsi diverso, sperimentandosi con se stesso e dentro se stesso, lasciando alla fabbrica dei soldi la competitività di una catena di montaggio che riduce l’uomo a un disco disturbato o rotto. Non giustifico quel povero disgraziato pilota ma lo capisco profondamente. Ciao e grazie per la tua umanissima lucidità.Mirka
@Luca Perilli: in realtà la giustificazione “era depresso, era preoccupato, era stato licenziato, era alcolista, era drogato, era stressato”, cioè era sostanzialmente un infelice, nei titoli di giornali è altrettanto diffusa della motivazione di gelosia, se non di più. Ma non è questo il punto.
Non ho nessuna difficoltà a riconoscere che gli assassini, a meno che non siano sicari prezzolati, siano tutti infelici, ma questo non implica in alcuna maniera che tutti gli infelici siano potenziali assassini. Nel discorso di Berardi c’è una quantità tale di forzatura ideologica (il cattivo capitalismo che ci arma l’un contro l’altro) che finisce inevitabilmente per trasformare una considerazione vera – che siamo tutti sotto stress – in una conclusione falsa: che uno faccia una strage aerea perchè vittima dello stesso sistema che ci fa arrivare tutti a casa col mal di testa dopo sette ore d’ufficio col contratto a progetto. Di tutti i buoni argomenti con cui si poteva discutere di infelicità sociale, quello del pilota assassino e suicida della Germanwings sembra proprio il meno adatto.
Mi trovo d’accordo sulla prima parte del post di Bifo. Recalcati sabato su Repubblica spiega da un’angolazione simile ciò che è avvenuto (l’ego narciso, la determinazione a emergere dalla massa) con il linguaggio proprio della psichiatria. Sul disagio della modernità occidentale sono stati scritti dei libri importanti in questi anni. L’estensione al terrorismo ed ai conflitti che divampano nel mondo la trovo un pò forzata; qui l’analisi delle cause va fatta caso per caso ed è solitamente molto complessa. Sicuramente sullo sfondo gioca sempre un ruolo chiave la globalizzazione economico-finanziaria, ma ogni quadro ha il suo contesto sociale proprio e la sua cornice culturale.
Credo che nell’articolo manchi il contraltare: la possibilità individuale di affrontare i propri disequilibri. Forse è questo che fa amareggiare. Come se ognuno fosse chiamato a risolvere le proprie infelicità, il venir meno a questa chiamata comporta un disprezzo sociale. Questo disprezzo, che può avere una sua liceità, mi chiedo se sia ogni volta ben indirizzato. Credo che sia necessario fare dei distinguo per vedere di volta in volta, di caso in caso, quali siano le reali radici di ciò che provoca dolore. Da parte mia trovo che nell’articolo ci sia uno sfondo che porta a trascurare l’opportunità di un’analisi completa: è per me prematuro identificare una causa senza aver sondato con attenzione la questione.
ogni tanto qualcuno al solo sentire della porcheria che abbiamo davanti per quanto concerne questa stagione politica si diverte a insinuare che in fondo ci siamo lasciati alle spalle nemmeno trascorsi nemmeno troppo lontani in cui nella contesa politica germinavano spaventosi fermenti terroristici interni per cui non dovremmo fare troppo gli schizzinosi. Per osare un paragone di cui devo ancora mettere a fuoco i termini direi che ci siamo lasciati ingurgitare dalla “gigantesca fabbrica dell’infelicità” guadagnandone bagni caldi e la possibilità di vedere un’inguardabile televisione in maniche di camicia concedendoci il lusso di seguire molte mode del momento. E sto parlando dei più fortunati. Sarebbe interessante scorrendo le statistiche scoprire il dato secondo cui coloro che in qualche modo sono rimasti fuori da questo gioco un po perverso si suicidano di meno
Michela, per come lo interpreto io, il discorso di Franco Berardi non è giustificativo, ma cerca di allargare il contesto. Per quanto riguarda i femminicidi, quel contesto è presente lo stesso: perché su una cultura patriarcale tuttora non estirpata, e che costituisce la causa prima, si innesta una condizione di infelicità e solitudine generale.
Sono d’accordo con Michela Murgia, e temo (visto che è stato citato Recalcati etc.) che alla fine il (mio) disagio sia essenzialmente questo, che si tratta di un discorsi (speculazioni) sempre e ancora una volta autoreferenziali rispetto al discorso che si “rappresenta” e di cui si è portavoce – autoreferenziali nel discorso della psichiatria, della politica, della filosofia etc., e dell’intelligenza in generale, che non è tale se non assume la solitudine eroica del cogito (causa prima di ogni infelicità). Tutto il resto – piloti, depressi, malfattori, massacrati e massacratori – sono “cosa”, res extensa, a disposizione del nostro intelletto e intelligenza interpretativa.
Questo mi turba del discorso di Bifo (caro Girolamo, conosco da anni Bifo e provo da molti anni sentimenti amichevoli nei suoi confronti, però Deleuze l’avevo letto per conto mio e in assoluta autonomia), mi turba in generale, e per finire, per dire quanto mi sembra fuori luogo, dico che mi ha fatto venire in mente la vignetta dell’altro giorno sul manifesto a proposito della corruzione. Dice uno: “Il problema in Italia è la cultura della corruzione”. Risponde l’altro: “Già, maledetta cultura!”
@ Michela Murgia
A me sembra che sia tu a leggere con forzatura ideologica il testo di Bifo, appiattendo su un unico piano due diversi argomenti: (1) la depressione esiste, e fa parte dell’umano; e (2) il turbocapitalismo ne accelera le modalità di propagazione. Dopo di che, esistono le singole soggettività: così come non andiamo tutti a schiantarci con auto o autobus o aerei contro palazzi e montagne, è altrettanto vero che non andiamo tutti (noi maschi) a uccidere le nostre compagne: il che non significa che la cultura maschilista non esista, che in qualche modo anche chi di noi se ne crede immune ne è sfiorato, e che nelle sue radicalizzazioni (accelerate dalla mercificazione del corpo femminile prodotte dal “capitalismo cattivo”, come Zanardo ci ha mostrato) questa cultura produce soggettività femminicide. Il che non significa dire che “nel comunismo non ci saranno più depressi”, significa chiedersi quali pratiche di socialità e relazione possiamo contrapporre a una società che induce depressione per via di competitività, accelerazione, appiattimento del qualitativo sul quantificabile, ecc.
In una battuta: il fatto che Lubitz sentisse come una ferita insanabile del proprio io il fatto di essere pilota di una compagnia aerea low cost, e non di una grande compagnia come Lufthansa, e che rapportasse la propria soggettività a questo gap narcisistico, è o non è anche un problema sociale? Prima di rispondere, guardiamoci attorno, chiediamoci cosa stanno pensando i nostri colleghi di lavoro, i nostri condomini: se queste patologie sono moltiplicate in modo esponenziale, non aumentano le probabilità di un gesto violento contro sé stessi che coinvolge anche il nostro vicino, condomino, collega, fino al gesto più estremo?
dati sul suicidio: 1993-2010
http://www.istat.it/it/archivio/68812
Grazie Stefano(tu fai davvero servizio pubblico). D’acchito direi che sono dati interessanti ma prima di tirare conclusioni sarebbe forse più congruo interpolarli con quelli del consumo di psicofarmaci, di cui si narrano numero spaventosi.Mantenendo sempre un basso profilo onde evitare atti di emulazione, come prescritto dalle linee guida dell’Oms, certo
Prima d’ora avevo incrociato gli scritti di Berardi una sola volta, quando allo scoppio della crisi forni’ una lettura che non mi piacque per niente, sostanzialmente perché raccomandava atteggiamenti (all’epoca l’insolvenza sui debiti) senza secondo me rendersi conto della bomba nucleare che voleva innescare. Per dire che io non ho un’antipatia preconcetta, ma parecchie riserve sul suo argomentare si, lo confesso. Riserve che mi si ripropongono tutte anche stavolta. Chiamare in causa il turbocapitalismo di fronte a un fenomeno sociale ha senso, di fronte a un singolo caso no. Il tutto, personalmente, mi lascia l’impressione di una pareidolia: m7ette insieme concetti e convinzioni sue per costruire una narrazione che non cerca mai la conferma dei fatti, e quando la cerca propone argomenti sbagliati. Prendiamo l’argomento dei suicidi: è un fenomeno per fortuna raro, per cui un aumento del 60pc non vuol dire molto. Se, poniamo, in un paese ipotetico di un milione di abitanti i suicidi passassero da 2 a 4, l’aumento sarebbe del 100 pc, ma significherebbe poco per una popolazione così numerosa. Magari sarebbe solo l’effetto del caso, il convitato di pietra di cui spesso non ci piace ricordare l’esistenza, eppure esiste. Ma, soprattutto, dagli anni di cui parla lui a oggi la durata della vita è enormemente aumentata e, semplicemente, c’è più tempo per fare scelte anche drastiche, che oltre tutto alle età avanzate sono più frequenti. Poi fa molte affermazioni non meno complottistiche di quelle che vorrebbe smontare: dice che i medici non classificano come tali molti suicidi, ma chi l’ha detto? Quale evidenza ne abbiamo? Quanto alla depressione, ignora completamente il giusto affannarsi di molti psicologi che si sgolano a dire che non c’è compatibilità tra questo fatto e il quadro clinico di una persona depressa. Non che io non condivida, in generale, certe critiche al liberismo, anzi. Ma le vorrei un po’ meno congetturali e più basate sui dati, in tutta franchezza. Tanto più che oggi non viviamo nell’800 e di dati c’è n’è un profluvio, disponibile a tutti. Allora perché snobbarli deliberatamente? Pensavo fossero finiti, i tempi di Croce.
“Chiunque ragioni con un minimo di onestà intellettuale non può fare a meno di riconoscere che oggi si vive più a lungo e in migliore salute di sempre. Per accorgersene basta leggere qualsiasi studio sulla storia demografica e sanitaria della nostra specie. Tutto bene allora? In realtà il quadro presenta anche delle zone d’ombra. Intanto, anche se non siamo mai stati meglio, la salute ci preoccupa sempre di più. Al punto che la domanda di salute appare ingovernabile. Un intreccio di perverse dinamice di mercato e politiche deresponsabilizzanti o utopistiche di promozione della salute incentiva sia il salutismo sia la medicalizzazione. Disease mongering: il fenomeno di negoziamento tra potenziali clienti e fornitori di servizi (medici e imprese farmaceutiche) per trasformare in malattie da trattare clinicamente e/o farmacologicamente alcune condizioni che non sono necessariamente malattie, e che non hanno un impatto significativo dal punti di vista della sanità pubblica. Condizioni quali calvizie, disfunzioni erettili, osteoporosi e la depressione, descritte come più gravi e più diffuse di quanto non siano. Attenzione, non si vogliono minimizzare queste condizioni. Le disfunzioni erettili o la depressione possono rappresentare problemi clinici molto seri per i quali esistono farmaci dotati di indiscutibile efficacia. Ma alcuni di questi farmaci vengono utilizzatianche in situaizoni che esulano dal quadro di malattie clinicamente accertate, per potenziare le normali capacità fisiche dell’individuo o per evitare di cambiare stile di vita.”
Corbellini, EBM medicina basata sull’evoluzione
Grazie, diamonds. A me pare il problema principale del discorso di Bifo sia che per parlare di qualcosa di serio e sui cui sicuramente ha molto da dire, mette insieme cose che insieme non vanno messe, e cose che appaiono, e probabilmente sono, sbagliate. Non abbiamo lavorato il doppio per guadagnare la metà, non c’è alcun legame tra il terrorismo e la depressione o qualche disagio psichico iniettato dal turbocapitalismo, non ci stiamo toccando di meno a fronte di stimoli psichici-visivi. Persino gli incidenti d’auto sono calati in Italia, poiché ci sono maggiori controlli e chissà politiche preventive sul consumo d’alcool (questo invece altro problema serio e poco affrontato) e la guida. Certo che se uno allarga la lente per leggere tutto sotto l’ottica della critica al sistema esistente, è facile cadere in errore.
Anch’io penso che Berardi qualcosa di serio da dire ce l’abbia, ma questa modalità la.trovo decisamente antistorica. Oggi se vuoi parlare di società e di economia e istituire delle connessioni causali mettendo in campo anche conoscenze sociologiche e psicologiche devi basarti sulla realtà, non sulle tue impressioni. E devi documentarlo, quello che dici. Altrimenti possiamo essere tutti sociologi, pure quelli che “Madonna mia, da quando hanno fatto entrare i rumeni i zzingheri c’arubbano tutto”. Io a questi di solito sbatto in faccia i dati, anche se con loro non serve a niente. E lo stesso faccio con Berardi. Chissà, magari passa di qui e legge e ci riflette, visto che scemo non è. Poprio no.
@Michela Murgia: quando i giornali scrivono di depressioni, disoccupazione e altre giustificazioni a un femminicidio, lo fanno per evitare di essere criticati se scrivessero del solito “delitto passionale o di gelosia”. Oppure per mero superficialismo, cioè tanto per fare “psicologia da bancarella”. Ti ribadisco che il femminicidio ha cause culturali molto ben precise e delineate, contrariamente al suicidio. Berardi azzarda una spiegazione il cui limite è che l’accusato potrebbe non essere il solo a scatenare quelle tendenze depressivo-suicide: se l’imputato unico del femminicidio non può che essere la cultura patriarcale che lo ispira e che abbassa significativamente la barriera verso il passaggio all’atto, la depressione e il suicidio sono la risultante di diversi fattori che agiscono più o meno paritariamente in concomitanza. Certo, nel caso specifico la componente lavorativa non può che schizzare in primissimo piano e dunque credo sia inevitabile una critica all’organizzazione del lavoro che dagli anni Ottanta in poi è stata imposta a partire da Stati Uniti e Regno Unito (anche questa un’ideologia. Incrollabile, apparentemente!) e che, grazie alla crisi, sembra non avere alternative possibili.
La riprova di quel che dice Berardi sta, paradossalmente, proprio nel rilievo mosso da Davide: sì, siamo soli a combattere contro noi stessi e contro il disprezzo sociale. Proprio questo è l’elemento definitivamente inquietante e disperante dell’attuale situazione.
@Maurizio: la globalizzazione è stata imposta col preciso scopo di introdurre una concorrenza sfrenata tra lavoratori, Friedman lo dichiara senza remore, p.es. Dunque, dietro alle frasi volgari e approssimative che tu citi, un fondo di verità c’è: se qualcuno è disposto/non può far altro che accettare condizioni sempre peggiori di lavoro, a meno che io non peggiori significativamente il mio, prima o poi mi sottrarrà lavoro. Quel che fatichiamo a capire è che ciò accade su scala mondiale e non solo nel nostro orticello, unico luogo nel quale si concentrano gli impotenti (ma ahimé efficacissimi) populisti odierni.
Premesso che quando parla Corbellini bisogna ascoltare e meditare con attenzione, vorrei aggiungere quello che mi raccontava il medico condotto del mio paese diversi anni fa. MI diceva che aveva poco senso paragonare la medicina d’antan a quella moderna, perché un tempo le durissime condizioni di vità e l’elevata mortalità infantile portavano in età adulta gente robustissima e al riparo da molte malattie. Ma per le malattie per cui non era maturata questa immunità non c’era scudo e tra queste c’erano le malattie mentali, visto che allora non si parlava ancora di depressione.
E la depressione uccideva anche nelle civiltà contadine, perché abbassava le soglie di resistenza sia immunitarie e sia psicologiche in un contesto molto duro, perché l’unico psicofarmaco di massa disponibile era l’alcool in dosi massicce, perché la gente si ammazzava, come racconta ad esempio Fenoglio nel Gorgo e in Un giorno di fuoco, anche se spesso la cosa passava pietosamente sotto silenzio perché il suicidio era peccato mortale e a chi lo commetteva erano negate le esequie in chiesa e garantita l’eterna dannazione. E per chi si concedeva uno sfogo maniacale, c’era l’ergastolo al manicomio. E tutto questo accadeva senza il turbocapitalismo.
Su Lubitz c’è stata l’inchiesta più sgangherata degli ultimi anni, sistematicamente afflitta dalle fughe di notizie e poi in ritardo su rivelazioni fatte da altri e finite prima ai giornali e che agli inquirenti. Ora i giornalisti, con la loro proverbiale pigrizia interpretativa, cercano solo gli indizi che confermano l’ipotesi consolidata e distorcono tutti gli indizi che trovano in quel senso (Lubitz due settimane fa non ha ricambiato il saluto del benzinaio, ovvia e ulteriore prova del fatto che aveva in odio il mondo). Ma per quanto sia discutibile fare diagnosi psichiatriche a distanza, sembra proprio che il pilota fosse seriamente afflitto da depressione e viene da pensare che se fosse stato il cocchiere di una vettura carica di passeggeri che transitava per il Moncenisio visto che ancora non c’era la provvidenziale TAV (citazione obbligatoria), avrebbe spinto i cavalli al galoppo giù da qualche dirupo e forse anche il macchinista della locomotiva di Guccini era seriamente depresso, anche se l’assenza della categoria di depressione nel tardo Ottocento, ci tramandò la vicenda secondo la categoria allora disponibile dell’anarchico bombarolo.
Sui labile confini tra spiegazione e giustificazione, tra condizionamento e libertà di scelta di fronte a tragedie condizionate dalla malattia mentale, lascio discutere neuroscienziati, filosofi morali e giuristi, li osservo rispettosamente e non oso intervenire.
Giuste osservazioni, picobeta. Aggiungo solo che forse senza accorgercene, stiamo scivolando nuovamente nelle difficili condizioni contadine di un tempo ma in modalità e contesti (ovviamente) mutati (allora erano le dure condizioni fisiche a uccidere e costringere, oggi sono quelle mentali e relazionali). Se la vediamo in questa prospettiva, l’analisi di Berardi può acquistare un suo senso forte.
Luca, sulla globalizzazione hai ragione a metà, nel senso che il “furto” di lavoro avviene attraverso le delocalizzazioni e non è operato dagli immigrati. Io, ormai lo sapete tutti e vi sarete di certo stufati di sentirmi dire questa cosa, mi baso sui dati; i quali dicono che finora l’immigrazione è andata a coprire buchi lasciati da noi. Ma non per la solita storia dei lavori che noi non vogliamo più fare, o non solo: si tratta di una vera e propria supplenza a gente mai nata, a causa del calo demografico. Al momento il contributo netto degli immigrati alla nostra economia è ampiamente positivo, soprattutto sul versante previdenziale. In pratica, con i loro versamenti stanno pagando pensioni nostre per un paio di miliardi, se non ricordo male. Tutto questo lo puoi leggere in un libro di Giampiero Dalla Zuanna, demografica, pubblicato (mi pare) dal Mulino. Comunque con la mia battuta io mi riferivo all’insopportabile voglia di pogrom che in questo paese serpeggia verso i rom. Nemmeno troppo nascosta, anzi.
Demografo, non demografica. Qualcuno mi dovrà spiegare, un giorno, perché uno più ignorante di me e che conosce meno parole si debba arrogare il diritto di sostituire quello che scrivo con cose prive di senso, senza nemmeno darsi la pena di chiedermi che ne penso.
E comunque, ripeto: io non contesto la critica al capitalismo e semmai rincarerei la dose. Contesto il metodo, l’inconsistenza della costruzione logica, la superficialità delle argomentazioni. Sa certamente fare di meglio, Berardi, che mettersi su piazza ad acchiappare tutte le notizie impiegabili a sostegno delle sue tesi. Lo faccia, allora. Altrimenti si esporrà a critiche feroci e diventerà il comodissimo straw man da impallinare per tutti quelli che vogliono squalificare per sempre ogni forma di vita a sinistra del liberismo.
Grazie delle preziose precisazioni, Maurizio: totalmente d’accordo con te.
Io mi trovo un po’ a disagio, ultimamente, con questo ruolo di gelido enunciatore di verità statistiche. Che poi verità non sono: semmai, paletti che delimitano quello che si può dire da ciò che non sta né in cielo né in terra. Davvero, vorrei non doverlo fare. Ma troppe persone, in totale buona fede (quasi sempre, almeno), le sparano grosse sulla base di percezioni personali o di vulgate del tutto campate per aria. Queste persone (tra cui a mio parere c’è anche Berardi, che però è solo l’ultimo arrivato) fanno un danno enorme alla causa che vorrebbero sostenere: rendendone poco credibili le ragioni, che raffazzonate in quel modo sono facilmente sputtanabili dai pierini di turno; confondendo le idee a possibili compagni di strada, che trovandosi sputtanati si potrebbero rivoltare contro; spacciando una realtà che non esiste, e nella mia esperienza la realtà (quella vera) arriva sempre, prima o poi, a presentare il conto. Ma, soprattutto, perché la ricerca della verità, qualunque cosa sia, è un imperativo categorico e non ci si può sottrarre ad esso, men che mai se ci leva a pronunciare parola pubblica contro la narrazione dominante. In quel caso la retorica va ancora bene, la buona retorica; ma solo dentro i rigidi paletti rappresentati dai fatti. Rigore, rigore e ancora rigore: questo ci dobbiamo imporre. Deve finire, il tempo delle favole e delle approssimazioni. Questo paese non se le può più permettere, che le inventi Berlusconi, Renzi o Berardi non fa differenza alcuna.
@Luca Perilli Nessuno ha introdotto “il diritto alla felicità” nella Costituzione americana: è un errore comune, questo. Intanto, si tratta della Dichiarazione d’indipendenza, e non della Costituzione. E poi non è il “diritto alla felicità” ma il diritto “al perseguimento della felicità”, che è cosa ben differente. La frase fa riferimento ai diritti inalienabili, “among which are the preservation of life, and liberty, and the pursuit of happiness”. Espressioni analoghe si trovano nella Costituzione del Giappone (1947, scritta dagli americani) e nella dichiarazione d’indipendenza del Vietnam (1945).
Giuste correzioni, Giovanni, ma il discorso (che è di Ainis, fonte verificata) non cambia: che cos’è il “diritto al perseguimento della felicità”? E’ davvero così diverso dal “diritto alla felicità”? In ogni caso sarebbe sempre stato preferibile (e ben più realisticamente realizzabile) un diritto a combattere l’infelicità.