PROVARE E RIPROVARE: CONSIDERAZIONI A PARTIRE DA VITA DOPO VITA

In uno dei romanzi più belli e più ignorati (in Italia) degli ultimi dieci anni, Vita dopo vita, Kate Atkinson racconta di cosa significhi provare a raggiungere la perfezione attraverso un accumulo di esperienza. Ursula, la protagonista, nasce nel 1910 e muore più volte: la prima in pochi minuti, perché il cordone ombelicale la soffoca e né medico né levatrice possono soccorrerla perché bloccati da una tempesta di neve. Ma quella nascita si ripeterà ancora e ancora, e nelle esperienze successive ci sarà assistenza, o semplicemente un paio di forbici affilate che la madre, chissà come, tiene accanto a sé. Ma Ursula morirà anche di annegamento, a pochi anni, o cadendo da un tetto, o, per ben tre volte, di febbre spagnola dopo che la tata di famiglia è andata a Londra per i festeggiamenti della fine della guerra, e morirà nei bombardamenti della seconda guerra mondiale, più volte, e anche di morte naturale, ormai in pensione, per ritornare però e infine compiere la missione che si è data, uccidere Hitler.
E’ un romanzo, ripeto, bellissimo, che riesce a trovare le parole per raccontare, grazie a una sola esistenza, una sequenza di atrocità che sono alle nostre spalle.  Che poi sia stato trascurato perché scambiato, nel nostro paese, per romanzetto fantastico per lettrici romantiche è faccenda che non vale la pena, stavolta almeno, di commentare.
Lo ripesco dalla memoria perché il mio rovello principale, in questi giorni, riguarda proprio il trovar parole, come ho già scritto qui più volte. Non sono stupita del ritorno alle vite e agli interessi precedenti: dalle ambizioni, dalla tessitura di reti di rapporti utili che in ambito editoriale sono tornati a fiorir (poi un giorno provo ad affrontarlo, questo discorso dell’ambizione che si miscela col cinismo: ma non oggi). Sono stupita dall’idea che si ponga poco la questione della nostra afasia: ma non perché dobbiamo raccontare in modo didascalico quanto avvenuto, bensì perché diciamo alcune cose e non altre, spesso nascondiamo quella che ci appare come insana nostalgia del lockdown, e che  invece ci ha sbattuto in faccia la questione del tempo, di come lo subiamo, dei desideri e, ancora una volta, delle ambizioni che si rivelano spesso per quel che sono (poca cosa, infine), della morte, ma anche della collettività frantumata e sia pure per poco compatta. Certo, stiamo già parlando del dopo: in termini soprattutto economici, ed è giusto. Parliamo (poco) di scuola. Parliamo (ancora meno) del lavoro di cura e delle donne, se non quando sono assenti dal discorso pubblico o sono in minoranza nettissima a un premio letterario. E dovremmo parlarne molto più a lungo.
Ma soprattutto dovremmo cimentarci con qualcosa che si annida molto più nel profondo, e che fin qui abbiamo solo sfiorato, con un linguaggio che dovrà adeguarsi al non narrabile che abbiamo attraversato. La perfezione si raggiunge con l’esperienza e con il fallimento. Bisogna cominciare a provare, a sbagliare, a riprovare, a risbagliare. Ma cercare bisogna.

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