Copia, incolla, apprendi.
Da Il manifesto. Racconto di Shila Begum, 24 anni. Qui il podcast del suo intervento a Fahrenheit.
“Quel giorno dello scorso aprile, appena pochi minuti dopo che avevo iniziato a lavorare alla mia macchina da cucire, la corrente è andata via e il generatore si è messo in funzione. Ho sentito una scossa e il pavimento che sprofondava. Le persone hanno iniziato a correre in preda al panico e il soffitto è crollato. Ho cercato di proteggermi la testa, ma sono rimasta incastrata tra le macerie. La mia mano era bloccata e ho pensato che sarei morta. Le persone intorno a me morivano, alcuni avevano gli occhi fuori dalle orbite e l’intestino che fuoriusciva dalla pancia.
Sono rimasta intrappolata per tutto il giorno e, come molti altri intorno a me, urlavo chiedendo aiuto. Alla fine, alle 5 di pomeriggio, qualcuno mi ha tratto in salvo: cercavano di sollevare le lastre di cemento sopra di noi. Da entrambe le parti delle lastre c’erano persone che cercavano di tirarmi fuori e alla fine ci sono riusciti. Ma il peso del calcestruzzo aveva espulso il mio utero e così mi hanno portato in ospedale. Alle 11 di sera me lo hanno tolto completamente”.
Dal sito di Abiti puliti.
Adidas è una multinazionale di origine tedesca che, con un fatturato di 10 miliardi di euro, si posiziona al 2° posto a livello globale, dietro Nike, nel settore abbigliamento e calzature per lo sport e il tempo libero. I principali marchi del gruppo sono “Adidas” che realizza il 72% del fatturato di gruppo e “Reebok” che realizza il 16%. Altri marchi di proprietà sono TaylorMade e Ashworth (golf), CCM (hockey) Rockport (tempo libero). Detiene il 22% del mercato mondiale delle calzature sportive e il 6% dell’abbigliamento sportivo. I prodotti Adidas sono fabbricati quasi totalmente all’esterno del gruppo da contoteristi localizzati soprattutto in Asia (74%), Europa (16%) e Americhe (10%).
Spende 1 miliardo di euro in pubblicità
Benetton. Un’inchiesta giornalistica ha scoperto che Benetton non ha fornito la lista completa dei suoi fornitori come previsto dall’Accordo sulla prevenzione degli incendi e sulla sicurezza in Bangladesh, nonostante fosse uno dei principali adempimenti richiesti ai firmatari dell’Accordo vincolante. Questo significa che Benetton potrebbe rifornirsi presso fabbriche che non vengono adeguatamente ispezionate, nascondendo questo fatto al pubblico.
Benetton conosce bene i rischi che si corre nell’utilizzare fabbriche pericolose. Prodotti a marchio Benetton sono stati ritrovati tra le macerie del Rana Plaza, il palazzo crollato dove almeno 1.138 persone hanno perso la vita lo scorso 24 aprile 2013. Ma omettere alcune fabbriche dalla lista dei fornitori può mettere a rischio delle vite umane.
A un anno di distanza dalla tragedia del Rana Plaza, Benetton non ha ancora versato un centesimo nel Rana Plaza Trust Fund, il fondo che sta raccogliendo i contributi per risarcire i feriti e i familiari delle vittime.
Carrefour. Nell’estate del 2010 diversi imprenditori proprietari di aziende (in Bangladesh) che riforniscono importanti distributori internazionali come Walmart, H&M e Carrefour, avevano prodotto false accuse penali contro i lavoratori e i dirigenti sindacali a seguito delle gigantesche proteste salariali verificatesi nel paese. Tutte le accuse comportano pene che vanno da tre mesi a dieci anni e fino al carcere a vita. Alcune delle accuse sono punibili con la morte.
Coin è un gruppo italiano proprietario delle catene d’abbigliamento Coin, OVS, Upim.
Con un giro di affari complessivo di 1,7 miliardi di euro è primo in Italia e assorbe il 6% del mercato. Parte del campionario dei negozi è commissionato dal gruppo stesso a terzisti localizzati in Cina (61%), India (19%), Bangladesh (13%), Turchia (7%) e venduto con marchi propri e di fantasia. Il controllo del gruppo è esercitato dal fondo di investimento francese PAI Partners SA attraverso Financière Tintoretto, partecipata al 54% da PAI e al 46% dalla famiglia Coin.
Jeans. Dopo la condanna ufficiale del sandblasting come tecnica di schiaritura dei jeans da parte di molti marchi internazionali del mondo della moda, la Campagna Abiti Puliti ha deciso di verificare sul campo le parole delle imprese, mandando alcuni ricercatori dell’AMRF in 7 fabbriche bengalesi per intervistare 73 lavoratori, di cui oltre la metà addetti alla sabbiatura. I risultati dell’inchiesta sono allarmanti: in nessuno dei 7 stabilimenti la sabbiatura è stata definitivamente abolita, qualunque siano state le istruzioni dei committenti, e spesso viene eseguita di notte in modo da non dare nell’occhio. I principali marchi identificati sono H&M, Levi’s, C&A, D&G, Esprit, Lee, Zara e Diesel, la totalità dei quali, ad eccezione di Dolce e Gabbana che ha sempre rifiutato di fornire informazioni sulle sue tecniche produttive, sostiene di avere abolito l’uso della sabbiatura nelle proprie filiere internazionali.
Zara. Il rapporto (spagnolo) rileva le dure condizioni di lavoro delle operaie marocchine del tessile: eccesso di ore lavorative, bassi salari, abusi verbali e fisici, arbitrarietà nelle assunzioni e nei licenziamenti, misure disciplinari sproporzionate e ostacoli all’azione sindacale. Gli straordinari sono obbligatori e generalmente non retribuiti. La giornata lavorativa supera le 12 ore, sei giorni a settimana per salari che non vanno oltre i 200 euro mensili e che, a volte, stanno anche al di sotto dei 100 euro mensili. Le operaie più giovani, spesso minori di 16 anni, sono considerate apprendiste e vengono fatte lavorare senza contratto le stesse ore delle altre, con una paga però di 0,36 centesimi di euro all’ora, tre volte meno delle colleghe. In Marocco c’è una forte presenza di laboratori fornitori di Inditex (Zara, Bershka, Pull&Bear, Stradivarius, Oysho, Massimo Dutti). La maggior parte delle operaie intervistate che lavorano assemblando i vestiti di queste marche denuncia il mancato rispetto del limite orario (arrivando a lavorare 65 ore settimanali) e, sebbene in generale lo stipendio arrivi alla soglia del Salario Mínimo Interprofesional Garantizado (SMIG) del Marocco, appena 178,72 euro mensili, condizioni di vita di estrema povertà.
Dopo aver letto questo post sono incappata nell’ennesimo selfie di Renzi, stavolta con Dolce e Gabbana. http://www.repubblica.it/politica/2014/04/03/foto/londra_il_selfie_di_renzi_con_dolce_e_gabbana-82614094/1/?ref=fbpr#1
Saranno anche degli sporchi affaristi evasori, ma sono tanto “cool”, come resistere?
Chissà se hanno parlato anche della recente decisione del ministero all’Istruzione di rinviare a data da destinarsi i corsi anti-omofobia per insegnanti…
A proposito dei Benetton ricordo di quando, mesi fa’, il rampollo Alessendro è stato ospite della Bignardi e la cosa mi infastidisce ancora: tra le tante domande dell’intervistatrice nemmeno una sulla politica economica e le modalità di lavoro(sicurezza, paghe, tutela dell’ambiente) del gruppo veneto, solo domande che mettevano a proprio agio l’ospite. Mi chiedo se non è l’ora di raccontare la verità agli italiani sull’operato di questi colossi del tessile, di come siano sporchi di sangue e pregni di dolore e ingiustizia i capi prodotti da loro? dobbiamo essere liberi di scegliere se vogliamo comprare questi abiti e scarpe o no e sapere cosa costano a chi li produce. A proposito di Coin, i prezzi non sono proprio bassi nonostante giacche etc. etc. siano prodotti dove la manodopera costa poco, quindi chi compra( e forse non guarda bene l’etichetta) dovrebbe fare due piu’ due e capire che il guadagno per l’azienda è enorme.
Vado leggermente OT: tranquilla Annalisa, D&G non sono per i diritti civili ai gay, men che meno per una educazione di genere: loro credono nella “sani valori di una volta” e nel fatto che “certe cose” debbano rimanere “private” (cioè appannaggio di chi se le può permettere come loro). Anche x questo Renzie si è fatto il selfie: fa figo e non rischia politicamente un bel nulla. Anzi, D&G sono sempre stati dichiaratamente berlusconiani, quindi tornano utili al fiorentino rampante.
Sullo sfruttamento mi vien solo da dire che ormai solo chi non vuol sapere non sa. Il problema è un altro: la diffusione ripetuta di queste informazioni e la loro “presa morale”. Quando eravamo in vacche grasse ostentavamo indifferenza, in tempi di vacche magre c’è il rischio serio di pensare che lo sfruttamento sia una cosa ineluttabile che tocca “a loro” come oggi tocca pure “a noi”.