Domani mattina avrò l’onore di partecipare a Piccoli Maestri parlando di It di Stephen King davanti (virtualmente) a un gruppo di studenti di quarta. Quel che ho scritto una volta su It, parlando del libro che mi ha cambiato la vita, è qui. Non dirò solo questo ovviamente, ma saremo da quelle parti. Grazie-sai.
Già il fatto che si chiamasse in quel modo, con un titolo di due sole lettere, e che avesse una brutta copertina (con quegli artigli verdi che agguantavano dal basso la grata del tombino e la barchetta di carta di traverso sul rigagnolo, in procinto di sparirci dentro). Già il fatto che il libro non fosse mio, e che si trovasse nella casa sul fiume dove stavo trascorrendo il luglio più caldo della storia, annoiandomi a morte.
Ecco, non c’era un fattore che deponesse a favore di It. Non avevo ancora letto nulla di Stephen King, anche se l’horror mi era piaciuto tempo prima, da adolescente, quando un amico mi aveva regalato i racconti di Lovecraft, e prima ancora c’era stato il tempo di Edgar Allan Poe, e poi sarebbe venuto il tempo di Machen e di Matheson.
Ma non di King. Era il 1988 e pensavo davvero che i libri potessero salvare la vita: ma non sempre, e non tutti. All’epoca, avevo un’idea molto selettiva di cosa dovesse essere un libro salvifico: doveva essere tagliente e lucido, squarciare ogni consuetudine, cambiare il modo di guardare il mondo, squassarti l’anima. Molto romantico, a ripensarci. Doveva, quel libro perfetto, suscitare la stessa euforica sensazione di aver compreso le pieghe segrete dell’esistenza che avevo scoperto, sedicenne, ne La nausea di Sartre e ne Lo straniero di Camus. Doveva impegnarmi, farmi soffrire e smarrire sulle pagine più ardue, come aveva fatto Thomas Mann con i dialoghi tra Naphta e Settembrini ne La montagna incantata. Doveva essere un corpo a corpo con le parole, freddo e perfetto come quando, giusto un paio di anni prima, avevo affrontato L’opera al nero di Marguerite Yourcenar.
C’era, però, qualcosa che ancora non avevo avuto dalle mie letture: qualcosa che andasse oltre l’appagamento intellettuale, l’ammirazione, l’empatia. Non lo sapevo ancora, ma quel che mi mancava era la seduzione: ovvero, il non riuscire a staccarmi da una storia, e finirla desiderando di avere tra le mani, subito, un altro libro dello stesso autore.
Eppure, avevo sempre letto molto. Moltissimo, anzi. Sono stata una di quelle bambine e poi ragazze e poi donne che hanno sempre un libro nello zaino (e per questo difficilmente usano borsette piccole e graziose) perché sanno che il tempo è pieno di buchi da riempire. Lo spazio vuoto mentre si aspetta l’autobus e mentre l’autobus stesso arriva a destinazione. Il panino e la spremuta d’arancia al bar, prima di tornare in redazione (non era anche quello un tempo da dividere, pane e carta, e non era piacevolissimo averne insieme?). Quando si legge troppo, però, l’emozione arriva più raramente: il punto è che, quando arriva, è doppiamente forte.
E’ lo stesso Stephen King a dirlo, in Danse macabre: “Non si apprezza la panna senza aver prima bevuto molto latte, e forse non si apprezza il latte finché non se ne è bevuto un po’ di inacidito”. Diciamo dunque che avevo bevuto molto latte e avevo mangiato, naturalmente, dell’ottima panna. Ma la panna apparteneva quasi tutta al passato, o così mi sembrava. Diciamo anche che mi annoiavo, che non avevo voglia di rileggere né c’era molto di nuovo che mi attirasse. Venivo da una sbornia di minimalisti, o da quelli che allora venivano definiti tali. Furoreggiava David Leavitt con Ballo di famiglia, e mi era piaciuto, ma ero sazia.
Così, nella casa sul fiume, avevo adocchiato It. E appunto non mi attirava la copertina, e neanche l’autore, perché all’epoca nutrivo ancora diffidenza verso un autore COSI’ famoso, perché ero giovane e sciocca e convinta che tutto quello che era immensamente popolare non potesse che essere scadente. Crescendo, avrei imparato che anche fra i non giovani e i non sciocchi la convinzione era identica: e, a differenza di quanto era avvenuto a me, permaneva, e permane.
Ma dal momento che faceva caldo e non avevo altro da leggere, e che il libro nello zaino (chissà cos’era? Non lo ricordo più. Forse Gli Invisibili di Balestrini? Forse, l’anno sarebbe giusto) era già finito, lo aprii. E constatai con qualche insofferenza che cominciava contraddicendo tutte le regole e regolette di scrittura che ancora oggi tormentano i lettori avveduti (cos’è quel narratore onnisciente? Via! Cos’è quel narrato e non mostrato? Matita rossa!). Cominciava, per essere precisi, così:
“Il terrore che sarebbe durato per ventotto anni, ma forse di più, ebbe inizio, per quel che mi è dato sapere e narrare, con una barchetta di carta di giornale che scendeva lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia”.
Tutte quelle virgole, e una parola così forte come “terrore”, subito all’inizio, e poi un’insignificante barchetta di carta che, scoprii nelle righe successive, beccheggia, si inclina, si raddrizza e affronta “con coraggio” i gorghi infidi e prosegue la sua corsa in quello che è un pomeriggio d’autunno del 1957, in una città che si chiama Derry e che non esiste – ma questo lo avrei scoperto poi – e che si annuncia come malvagia fin dall’inizio, con quelle tre lampade del semaforo che sono irragionevolmente spente, anche se piove a dirotto, e piove da una settimana, e il vento soffia infilandosi nei vicoli, e tutti i quartieri sono rimasti senza corrente, e questo già è strano, e siamo ancora alla fine del secondo paragrafo.
Città sbagliata, Derry. Anche questo lo avrei capito dopo aver letto tutti i romanzi che King vi ambienta: Mucchio d’ossa, dove la giovane e amatissima moglie di Mike Noonan muore mentre esce da una farmacia, per un ictus (forse) e l’asfalto bollente le segna le guance e il marito dovrà rivederla così all’obitorio, con quei frammenti di Derry sul viso, per l’eternità. E Insomnia, dove la città ha due anime, o due modi di essere vista, e un sacco mortuario nero come fumo la avvolge, e Dolores Claiborne, che fa quel che deve nel giorno dell’eclissi, e Le creature del buio, e L’acchiappasogni, e L’uomo in fuga, fino all’ultimo romanzo, 22.11.63, dove la prima tappa del viaggio nel passato del protagonista è proprio Derry, la Derry di It, ed è sbagliata come allora e forse ancora di più. Perché se gli abitanti di Derry ignorano l’orrore che vive e prospera nel suo sottosuolo, pure contribuiscono ad alimentarlo: non amano gli estranei, non vogliono che si metta in crisi quella che è una tranquillità solo apparente, perché Derry vive di odio e di rancore, e di sangue, e di segreti. Al 29 di Neibolt Street i vagabondi cercano riparo, ma possono trasformarsi in lebbrosi affamati di carne. Le Ferriere Kitchener esplosero nel 1906, uccidendo i bambini che cercavano uova di Pasqua, e ora ronzano di crudeltà quando si posa i piede da quelle parti. Bambini. Bambini che affogano nella Cisterna. Bambini inseguiti, braccati, divorati come farebbe il troll che si nasconde sotto il ponte aspettando il passaggio dei capretti.
Bambini. C’è un bambino dietro la barchetta. Ha sei anni, un impermeabile giallo e stivaletti rossi. Si chiama George Denbrough e morirà nel giro di quindici pagine con un braccio strappato di netto come un’ala di mosca. Moriranno molti bambini, nel romanzo, e anche non pochi adulti. Perché, ma questo è quasi banale dirlo, It è una storia sul male: o meglio ancora, su come la questione del male possa essere declinata in questo e altri mondi. Il male cosmico che si cela nelle galassie vomitate dalla benefica Tartaruga e nelle geometrie sghembe da cui proviene It. Il male quotidiano, perché se It si nutre di bambini, quegli stessi bambini vengono picchiati da genitori alcolisti, o vessati da madri ansiose, o semplicemente ignorati, come avviene al fratello di George, Bill, dopo che la morte ha raggelato la sua famiglia, e cosa può mai fare un ragazzino quando le mani della madre volano alle tempie come uccellini e il padre piange abbracciato agli scatoloni di giocattoli che nessuno userà più?
Ed è anche molto di più – lo avrei scoperto in quel luglio caldo dove la gelida pioggia di Derry scorreva sulle pagine. Perché le forme del Male, per un bambino, sono quelle dei film che fanno paura: e il Male stesso appare in sembianze conosciute, come Lebbroso e Vampiro e Mummia e Licantropo e Occhio Gigantesco, ma nasconde sempre altro, è sempre celato dietro una porta chiusa che un gruppo di amici dovrà varcare. Questo, infatti, è It: la storia di un gruppo di ragazzini, i più poveri o grassi o balbuzienti o asmatici o miopi, quelli evitati accuratamente dai compagni ben vestiti e di aspetto piacevole, che si riunisce per uccidere il mostro. Ma una volta non basta, e dovranno tornare ancora, una volta adulti, perché non ci si libera dal Male neanche quando si fanno le scelte giuste. E la scelta giusta è il Chud, entrare in contatto con l’orrore fino a piantare i tuoi denti nella sua lingua.
Basta così? No, questa non è che la cornice: perché insieme ci sono l’amore per la narrazione e la memoria che sparisce se non viene, appunto, raccontata, e c’è un inno all’infanzia come stagione terribile e felice, dove una bicicletta può battere il diavolo, specie se si chiama Silver ed è troppo alta per un bambino. Tema che a King è carissimo e che riesce a trattare, ogni volta, con quel miscuglio di amore e malinconia (e di ferocia) che raramente si trova in altri scrittori. C’è un passaggio di It che lo spiega bene, ed è un risveglio di Bill adulto, dopo un sogno in cui era tornato indietro, nel se stesso che non era più:
“Si sveglia da questo sogno incapace di ricordare esattamente che cosa fosse, a parte la nitida sensazione di essersi visto di nuovo bambino. Accarezza la schiena liscia di sua moglie che dorme il suo sonno tiepido e sogna i suoi sogni; pensa che è bello essere bambini, ma è anche bello essere adulti ed essere capaci di riflettere sul mistero dell’infanzia… sulle sue credenze e i suoi desideri. Un giorno ne scriverò, pensa, ma sa che è un proposito della prim’ora, un postumo di sogno. Ma è bello crederlo per un po’ nel silenzio pulito del mattino, pensare che l’infanzia ha i propri dolci segreti e conferma la mortalità e che la mortalità definisce coraggio e amore. Pensare che chi ha guardato in avanti deve anche guardare indietro e che ciascuna vita crea la propria imitazione dell’immortalità: una ruota. O almeno così medita talvolta Bill Denbrough svegliandosi il mattino di buon ora dopo aver sognato, quando quasi ricorda la sua infanzia e gli amici con cui l’ha vissuta”.
Quando, nel giro di cinque giorni, ho chiuso It, ho cominciato a cercare altri romanzi di Stephen King. Perché a questo servono gli scrittori che raccontano il Male e raccontano la paura: a parlare di te e a farlo come altri non riescono. Nella prefazione di A volte ritornano è King stesso a dirlo:
“Le opere di Edward Albee, di Steinbeck, di Camus, di Faulkner, trattano di paura e di morte, talvolta con orrore; ma in genere questi scrittori mainstream lo fanno in modo più normale, più realistico. Il loro lavoro si colloca entro la cornice del mondo razionale: sono storie che possono accadere. Viaggiano lungo quella linea sotterranea che corre attraverso il mondo esterno. Ci sono altri autori (James Joyce, di nuovo Faulkner, poeti come T.S.Eliot, Sylvia Plath, Anne Sexton) la cui opera si colloca nella terra dell’inconsapevolezza simbolica. Viaggiano sulla sotterranea che corre attraverso il paesaggio interno. Ma chi scrive racconti dell’orrore, quando coglie nel segno, è quasi sempre al terminal dove le due linee fanno capo”.
Il motivo per cui chi scrive fantastico ha sempre goduto di scarsa considerazione, dice King, è proprio questo: è perché affronta la prova generale della nostra morte. Una volta guardata in faccia, non si lascia più. Una volta letto King, una volta perduti nelle sue storie (e nella sua abilità linguistica, si ricredano i supponenti: il linguaggio di King è uno dei più complessi e raffinati, e migliora anno dopo anno), non si lascia più.
Oggi, non so se i libri possano davvero salvare la vita. Forse no. Ma possono cambiarla: possono cambiarti come lettore e portarti su strade che non avresti mai battuto. E vale la pena, anche se sembra poco. Vale dannatamente la pena.
non ho mai affrontato la lettura di IT, ne da ragazza ne ora che ho 65 anni.
Ho paura di avere paura.
proverò