ESERCIZI DI RICONOSCIMENTO: A PROPOSITO DI COMPETITIVITA'

In questo tempo fermo e allungato, che non so più bene come attraversare, ragiono per minuzie, pesco dal passato e provo a capirmi e a capire. Piccoli esercizi di sopravvivenza, credo: perché possiamo anche sfinirci di incontri online, presentazioni e lezioni e impegni di ogni sorta, ma alla fine sempre qui siamo, nelle nostre case bagnate dalla pioggia o scaldate dal sole, e so bene che poteva andarmi molto peggio. Dunque, mi balocco con temi grandi in frammenti piccoli.
Sono diversi giorni, per esempio, che penso alla competitività, che è una delle mie bestie nere: sul lavoro, fra madri, fra donne. E’ una delle mie bestie nere perché la soffro e non la capisco fino in fondo, da non ambiziosa (e, no, non è un pregio) e da curiosa.
Come molte, o addirittura come tutte, ho vissuto le mie prime amicizie femminili (la preadolescenza e poi l’adolescenza e la giovinezza) in un miscuglio di amore e competitività. Chi delle due avrebbe avuto per prima le mestruazioni, chi avrebbe baciato per prima un ragazzo, chi avrebbe perso la verginità, e via così.
Non credo, come sapete, alla natura ma alla cultura: e resto convinta che alla competizione siamo state allenate da secoli, in modo diverso dai maschi (che pure attraversavano, e forse attraversano, un cimento molto simile: chi bacerà la prima ragazza, chi perderà la verginità, e via così, in una battaglia espressa in modo diverso ma che riguardava, e forse riguarda, soprattutto i corpi e il sesso).
E’ inevitabile? Forse e forse no. Di certo, sarebbe credo evitabile la competizione femminile della maturità, se solo se ne parlasse di più e con maggiore franchezza e soprattutto cercando di renderla pubblica, di non limitarla alle parole fra poche come spesso avviene.
Del resto, i social rendono pubblici gli stati d’animo: si potrebbe pensarci su e chiedersi se sia giusto o meno, e cosa spinge qualcuno a esprimersi senza mediazioni, specie quando si tratta di stati d’animo tossici. La libertà, sarebbe la risposta quasi comune. E, al solito, la controrisposta è identica: quale libertà comporta quell'”adesso gliele canto”, spesso basato sul nulla e non sull’appartenenza del bersaglio alle liste della P2? Bersaglia, bisognerebbe dire: perché nella gran parte dei casi con lo scrittore maschio, il conduttore maschio, il fine dicitore maschio si è enormemente più indulgenti. E so che a questo punto scatterà il corale “non è vero”, e il “volete le quote rosa anche nell’insulto” e “femministe paranoiche”. E’ così, mi dispiace e non vorrei per nessun motivo al mondo che fosse così: ma le donne sono più esposte all’odio. Anche delle altre donne. Basta guardare quel che capita sulle bacheche di Vera Gheno o di Michela Murgia per capirlo, e ovviamente capita anche a me.
Così ci penso su. E’ l’antica questione dell’invidia fra donne, analizzata fino allo sfinimento? Non so. E, secondo me, è troppo semplice. E’ qualcosa che attiene ai social soprattutto, e che fanno sì che ci si riveli diverse da come veniamo immaginate.
Mi capita di ricevere moltissime mail. Alcune sono molto lunghe. Per la dannata costrizione temporale in cui mi trovo, mi faccio sempre un punto d’onore di rispondere sempre, ma le mie risposte sono brevi. A volte un ringraziamento – non formale, questo posso giurarlo – ma non molto di più. E allora, come dice una mia amica scrittrice, scatta uno dei tradimenti possibili: come formale vieni percepita, e la sensazione dell’altra è che il tesoro – reale – che ha depositato nelle tue mani non sia stato accolto come si doveva.
Ma può essere percepita come un tradimento la stessa risposta: perché in un certo senso tradisce l’immagine che l’altra si è fatta di te, e non corrispondere a quella percezione è grave.
E poi, ancora, c’è l’illusione che fatalmente si prova, come se incontrarsi in un libro, o via radio, o su un social fosse necessariamente reciprocità, mentre non lo è: o meglio, può costituire un presupposto perché lo sia in futuro, ma non è detto. Se io non ti conosco, non ti ascolto parlare, non posso essere reciproca. Anzi, come diceva Luigi Manconi in altro contesto, l’abuso della parola “identificazione” è un atto di arroganza: io conosco le risate, il modo di bere da un calice di vino, il profumo, i passi  delle mie amiche. Non posso sapere le stesse cose di altre: né le altre sanno di me che quel che pensano di sapere: non sanno – se non sono io a renderlo pubblico – delle mie malinconie mattutine, non conoscono la mia voce mentre parlo ai miei figli, non ascoltano i miei dialoghi surreali con i gatti, o con i fantasmi delle persone che ho perduto. Dunque, non sanno.
E allora, mi chiedo, perché tante mie coetanee, che sono già nel cammino dalla maturità da un pezzo e dunque hanno vite compiute, sentono il bisogno di attaccare l’altra? Sì, certo, da una parte c’è l’attacco alla persona Visibile, perché ormai è questione radicata quella per cui la persona Visibile non ha faticato e lottato e studiato per diventarlo, ammesso che conti, ma sicuramente viene da famiglie benestanti, e ha agganci fascinosi ed elitari, e chissà i compromessi, e chissà perché è là. La maggior parte delle persone Visibili che conosco viene da famiglie tutt’altro che benestanti e ha sudato tutte le camicie del mondo per essere dove è. Peraltro, nel caso delle donne, di quella visibilità tiene poco conto, ed è la prima a chiedersi, oddio, e perché? E questo è un altro problema, un’insicurezza che persiste e che ci porta ad accettare quasi con naturalezza il fatto che queste benedette donne visibili lo siano in percentuali minime rispetto ai colleghi visibili, e molto meno peraltro contestati, anzi.
Non volevo arrivare da nessuna parte: perché non c’è un punto di arrivo ma, semmai, il tentativo di un punto di partenza per riaprire la discussione. Non voglio affatto mirare ad una sorellanza purché sia: ci sono donne con cui non avrei nulla da dire e che non difenderei “in quanto donne”, e uomini che stimo, con cui lavoro e a cui voglio un mondo di bene. Non è questo il centro della discussione. E’ che sarebbe bene parlarne, per una volta: anche tenendo presente che lo stereotipo Eva contro Eva o femmine che lottano nel fango piace un sacco. Agli uomini, eh.

2 pensieri su “ESERCIZI DI RICONOSCIMENTO: A PROPOSITO DI COMPETITIVITA'

  1. Buongiorno
    Segnalo che alla mia mail del 05.11.2020 non ho avuto
    Un seppure breve riscontro. Non è certo un biasimo ma ci tenevo a segnalarlo dopo la lettura odierna
    Con immutata stima.

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