In questi giorni si discute parecchio, troppo spesso però tirandola dalla propria parte preesistente, della lettera firmata da 150 intellettuali e pubblicata su Harper’s Magazine. Più sotto posto la traduzione. I firmatari vanno da Margaret Atwood a John Banville, da Noam Chomsky a Jeffrey Eugenides, da Francis Fukuyama a J.K.Rowling. Ora, si possono dire molte cose su questo documento, che è generico, che si presta a essere interpretato in vari modi, tutto quel che volete. Resta però una questione aperta, che non voglio definire sotto il generico ombrello del politicamente corretto. Non so se sia una questione dovuta all’irascibilità dei social, dei lettori (che hanno tutti i diritti, ma anche qualche dovere: provare a capire, prima di lapidare), del clima, della semplificazione dilagante.
So però che sto ricevendo diversi messaggi di neolettrici kinghiane che hanno affrontato It e che si dicono sconvolte e indignate per la scena rituale di sesso fra Beverly e gli altri perdenti. In un caso la lettrice ha usato la parola stupro, e quando le ho risposto che tutto quel che avviene è volontà di Beverly ha replicato che lei comunque lo ha vissuto così. Sono sicura che oggi King si sarebbe autocensurato. Sono sicura che difficilmente uscirebbero oggi romanzi come Dei bambini non si sa niente di Simona Vinci, ma forse neanche Lolita. E questo, in totale e semplice sincerità, non mi piace. Non è difesa del privilegio: è proprio diverso, è che credo che così non si vinca una sola battaglia in materia di diritti. Ne riparliamo.
Una lettera sulla giustizia e il dibattito aperto
“Le nostre istituzioni culturali stanno affrontando un momento di prova. Potenti proteste per la giustizia razziale e sociale stanno portando a richieste in ritardo di riforma della polizia, insieme a richieste più ampie di maggiore uguaglianza e inclusione in tutta la nostra società, non ultimo nell’istruzione superiore, giornalismo, filantropia e arte. Ma questo necessario calcolo ha anche intensificato una nuova serie di atteggiamenti morali e impegni politici che tendono a indebolire le nostre norme di dibattito aperto e tolleranza delle differenze a favore della conformità ideologica.
Mentre applaudiamo al primo sviluppo, alziamo anche la nostra voce contro il secondo. Le forze del illiberalismo stanno guadagnando forza in tutto il mondo e hanno un potente alleato in Donald Trump, che rappresenta una vera minaccia alla democrazia. Ma non bisogna permettere alla resistenza di indurirsi nel proprio marchio di dogma o coercizione, che i demagoghi di destra stanno già sfruttando. L’inclusione democratica che vogliamo può essere raggiunta solo se parliamo contro il clima intollerante che si è manifestato da tutte le parti.
Il libero scambio di informazioni e idee, linfa vitale di una società liberale, sta diventando sempre più limitato. Mentre ci aspettiamo questo dalla destra radicale, la censura si sta diffondendo anche più ampiamente nella nostra cultura: un’intolleranza di visioni opposte, una moda per la vergogna pubblica e l’ostracismo e la tendenza a dissolvere complesse questioni politiche in una accecante certezza morale.
Sosteniamo il valore di un contro-discorso robusto e persino caustico da ogni parte. Ma ora è fin troppo comune sentire richieste di punizione rapida e severa in risposta alle trasgressioni percepite del linguaggio e del pensiero.
Ancora più preoccupanti, i leader istituzionali, in uno spirito di controllo del danno in preda al panico, stanno offrendo punizioni affrettate e sproporzionate invece di riforme ponderate. Gli editori vengono licenziati per l’esecuzione di brani controversi; i libri vengono ritirati per presunta inautenticità; ai giornalisti è vietato scrivere su determinati argomenti; i professori vengono indagati per aver citato opere letterarie in classe; un ricercatore viene licenziato per aver fatto circolare uno studio accademico peer-reviewed; e i capi delle organizzazioni vengono espulsi per quelli che a volte sono solo errori goffi.
Qualunque siano le argomentazioni su ogni particolare incidente, il risultato è stato quello di restringere costantemente i confini di ciò che si può dire senza la minaccia di rappresaglia. Stiamo già pagando il prezzo con maggiore avversione al rischio tra scrittori, artisti e giornalisti che temono per i propri mezzi di sussistenza se si discostano dal consenso o mancano di sufficiente zelo nell’accordo.
Questa atmosfera soffocante alla fine danneggerà le cause più vitali del nostro tempo. La restrizione del dibattito, da parte di un governo repressivo o di una società intollerante, fa invariabilmente male a chi manca di potere e rende tutti meno capaci di partecipazione democratica.
Il modo per sconfiggere le cattive idee è attraverso l’esposizione, l’argomentazione e la persuasione, non cercando di zittire o desiderare di allontanarle. Rifiutiamo qualsiasi scelta falsa tra giustizia e libertà, che non possono esistere l’una senza l’altra. Come scrittori abbiamo bisogno di una cultura che ci lasci spazio alla sperimentazione, all’assunzione di rischi e persino agli errori.
Dobbiamo preservare la possibilità di un disaccordo in buona fede senza terribili conseguenze professionali. Se non difendiamo la cosa da cui dipende il nostro lavoro, non dovremmo aspettarci che il pubblico o lo stato lo difendano per noi.”
Il moralismo ideologico, come ogni moralismo – anche se viene da un campo culturale affine e vicino al mio – è cieco per definizione. Liquidare, come ho visto fare, gente del calibro di Margaret Atwood, John Banville, Noam Chomsky, J.K.Rowling con acrimonia e alterigia mi spaventa. in questa lotta alla “purezza più pura” quanto manca ancora a un “regime del Terrore”? La rete non la capisco più da anni, sono definitivamente fuori dal mondo. Ho perso.
Eppure la soluzione sta tutta nel penultimo capoverso: “Il modo per sconfiggere le cattive idee è attraverso l’esposizione, l’argomentazione e la persuasione, non cercando di zittire o desiderare di allontanarle”.
Aggiungendoci il famoso Voltaire (o chi per lui pronunciò quella frase) sulla famosa disposizione a combattere senza riserve affinché anche il peggior avversario possa esprimersi.
Ma ciò implica due cose che mi fanno essere molto pessimista:
1) Uscire dalla logica binaria del “like/unlike-mi piace/non mi piace”;
2) Riappropriarsi del proprio tempo per poter apprendere relazionandosi dal vero.
Ovvero, l’esatto opposto della strada che stiamo percorrendo a tutta velocità.
Ciao Loredana, ho letto più attentamente il tuo intervento e la lettera; ho capito meglio la questione e realizzato che ho fatto un commento ridondante. Grazie della pazienza, il web è nemico degli approfondimenti o forse facilità la superficialità… mi viene spontaneo però un altro commento: oggi, epoca di maggiore libertà, uno scrittore come King si autocensurerebbe (a torto) e non vedrebbero la luce tante altre opere, come hai fatto notare nel tuo intervento. Lo trovo davvero strano e sconfortante. Non ho voluto che mia figlia leggesse IT prima dei diciotto anni proprio a causa di quella scena. Però vengo da Gomorra, dove i ragazzi di strada, assediati da ogni parte possono maturare precocissimamente e le scene come quella descritta da King (che ha un forte connotato magico-ritualistico, un vero e proprio rito di passaggio, come hai detto anche tu) diventano favole da educande. Qui nella mia realtà i bambini di sei anni vengono stuprati per mesi e mesi e poi buttati dal quarto piano di un condominio, non so se mi spiego. Al confronto Pennywise è un amicone un po’ molesto. Tutto questo per dire che la scena di IT è perfettamente integrata nel mood e nella logica della narrazione. Sono molto legato a Stephen King, mi piacciono sopratutto le sue prefazioni e postfazioni. Mi sono goduto così tanto “On Writing” che sono corso a comprare subito l’edizione con la tua prefazione e la nuova traduzione (il tuo intervento è fantastico come sempre la traduzione a me è arrivato molto meno della precedente). Grazie ancora per la tua pagine per tutto il tuo lavoro. Non ho ancora finito di leggere “Magia Nera”, ma mi sta piacendo un sacco! Buona estate e scusa il commento prolisso.